Giuseppe Dessì
Milano, Mondadori, 1972
Paese d'ombre
Giuseppe Dessì
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Questo era appunto il nome del cavallo bianco.
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Era un grande cavallo bianco pomellato, intero, un po’ capriccioso per il fatto che lavorava poco.
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Anche il suo vestire era un poco antiquato, mentre il suo modo di pensare era così moderno da essere considerato pericolosamente rivoluzionario dalle autorità governative isolane, dalle persone che stavano accanto al Viceré, dal Presidente dell’Ordine degli avvocati, e specialmente dai due personaggi più in vista di Norbio, che erano l’avvocato Antioco Loru e il professore Antonio Todde, rispettivamente titolari di Diritto romane e di Economia politica nell’Università di Cagliari.
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Anche ora, avendo avvertito la sua presenza, Zurito sporgeva il lungo collo al di sopra del cancello della stalla e scuoteva la testa scoprendo i denti gialli.
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Finalmente, quando il ragazzo apparve come la piccola silhouette nera di un dagherrotipo nel riquadro luminoso della porta, tornò a chinarsi sul foglio e ricominciò a scrivere con la lunga penna d’oca, che aveva appena affilato. La penna bianchissima, era Sofia, la madre di Angelo che gliela procurava, svettava sulla spalla destra tremolando e sfiorava i peli neri e lunghi della barba che formavano ai lati del viso bruno e segnato due folti favoriti, che egli continuava a portare benché non fossero più di moda.