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GIUSEPPE DESSì


Milano, Feltrinelli, 1961
Il disertore
Giuseppe Dessì

Quando si parlò e si discusse per la prima volta del monumento, Mariangela Eca non ne ebbe nemmeno sentore. I suoi due ragazzi erano morti da più di quattro anni, ma per lei era come se quel tempo non fosse passato.

Per tutti gli altri, a Cuadu, compresi coloro che avevano perduto un figlio, un nipote o il marito, la fine della guerra era già lontana: tanti e così profondi erano stati i mutamenti che anche in quella piccola città la guerra e il dopoguerra avevano portato. Mariangelo no. Lei non si era accorta e non si accorgeva di ciò che avveniva nel mondo circostante, anzi le pareva che tutto fosse rimasto come quando i suoi figli si facevano uomini pascolando i loro branchi di capre nel bosco di Baddimanna e lavoravano il formaggio e la ricotta nel vecchio ovile.

Cuadu, il mondo intero, fin dove lei poteva arrivare a immaginarselo, era sempre come quando loro due l’avevano lasciata a piangerli: e con lei il padre, ormai vecchio e inabile, e la moglie di Saverio, il maggiore.

Da allora tutto, per lei, tutto aveva cessato di avere importanza, all’infuori del ricordo. Anche se continuava a vivere giorno per giorno, a fare i soliti lavori, a portare da Baddimanna, come sempre, pesanti fasci di legna che vendeva per mezza penna, cioè venticinque centesimi, come prima della guerra, solo il ricordo contava, e nel ricordo il mondo restava come quando i due giovani, lavorando ormai in proprio, cominciavano a farsi una nuova famiglia.

Don Pietro Coi, viceparroco di Cuadu, suo vicino di casa, al quale da una ventina d’anni ormai sbrigava le faccende domestiche, non desisteva dal tentativo di farle capire come tutto fosse mutato, in realtà, quanto difficile per tutti fosse diventata la vita. La guerra era stata una grande sciagura per tutti, non per lei soltanto.

Milioni di uomini avevano lasciato la casa vuota, milioni di uomini, in tutti i paesi: e dopo, altri flagelli s’erano abbattuti sull’umanità intera.
 
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