Giacinto Satta
Sassari, Tipografia della Nuova Sardegna
Il tesoro degli angioni
Giacinto Satta
p. 115
Era o pareva d’un’età piuttosto avanzata, a giudicarne dai capelli e le folte basette di un grigio strinto che incorniciavano una faccia macilenta, pallida e come esangue. In quel pallore il solo naso risaltava per una sfumatura di carminio che indicava in modo non dubbio la segreta tenerezza del personaggio per il succo della vite. Vestiva un lungo giubbone, d’un taglio inusato, antiquato, che risaliva almeno a una ventina d’anni innanzi: il lungo uso e forse il non meno lungo soggiorno in qualche umida retrobottega di rigattiere, ne avevano alterato in modo deplorevole il turchino d’origine che, nei punti più esposti dell’azione dell’aria e della luce s’era mutato in un bel verde sfogato, di una delle più gaie tonalità che mai tavolozza di paesista abbia potuto combinare. Insaccato in quella palandrana non tagliata certamente per il suo dosso perché gli descriveva attorno un’infinità di pieghe impreviste, con un cravattone che stringevagli fin sotto il mento i soloni a vela saldamente inamidati se non del tutto candidi, e un paio di pantaloni a grandi scacchi gialli su un fondo nero d’ardesia, che gli risalivano quasi a mezza gamba, lo sconosciuto presentava il più bizzarro e lamentevole aspetto che mai maschera da martedì grasso avesse potuto desiderare.
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Ne prese un cannello nero che aveva tutto l’aspetto d’un pezzo di carbone e ritornò al compagno che s’era spogliato della giacca.
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La faccia che appariva nello specchio non era più la sua: il colore della barba e della capigliatura s’era arrivato e di biondastro sbiadito s’era mutato in un rosso lustro che lasciava trasparire qua e là, dandole come una sfumatura grigia, il colore primitivo: le sopraciglia, della stessa tinta, parevano più folte e come ravvicinate, il naso più grosso, più rincagnato, gli occhi più grandi e più vivi... In una parola, la trasformazione era perfetta.
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Lui – piccino, magro, impresciuttito addirittura, con una faccia esangue istoriata d’un’infinità di grinze e contornata da due lunghe basette pepe e sale che tentavano invano di dare l’illusione di qualche curva a qual prospetto angoloso: con due occhi smorti affossati, d’un grigio dilavato, continuamente ammiccanti dietro un eterno paio d’occhiali.
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Era una vezzosa biondina che incarnava il tipo, ormai classico e tanto raro fra noi, della soubrette di vaudeville: una lussureggiante capigliatura d’un biondo cenere naturalmente ondulata, il nasino volto all’insù, i grandi occhi d’un azzurro luminoso, la bocca dalle labbra tumide, carnose, sempre pronte al riso – ad un riso arguto, comunicativo...