ANNO I° Sassari, 5 Decembre 1875 Num. 1
Siamo lieti di pubblicare il seguente articolo del nostro illustre Archeologo Senatore GIOVANNI SPANO, che ne promise la sua cooperazione.
Speriamo che i lettori saranno lieti di leggere nella Stella di Sardegna gli scritti di quei sommi che illustrano la patria nostra e che sono le nostre più belle glorie nazionali viventi.
PER UNA NUOVA VESTE
Nel leggere lo strano titolo che ho dato a quest'articolo, i lettori della Stella crederanno a prima giunta che in esso si tratti di processo contro qualche rinomato sarto, o contro qualche bizzarra modista, che abbia inventato qualche nuova e graziosa veste di moda di cui aveva la privativa, e che poi altri abbiano attentato d'appropriarsi il merito della invenzione.
No, non si tratta in esso di abiti di mode, di quelle che ci vengono da Parigi, dei quali i Sassaresi, prima del 1834 che la così detta Spronara consegnava i pieghi in Portotorres, ogni quindicina e, tante volte, ogni mese (per cui di sovente sarà accaduto, che quando qui arrivava la moda, altrove sarà stata in disuso), i Sassaresi, ripeto, erano i primi a vedere i figurini ed i primi ad imitarli; specialmente le signore che spendevano, e facevano spendere ai loro mariti, somme che eccedevano la loro condizione. Però ricordo che un poeta vernacolo stimmatizzò questa classe con una canzone popolare, che io sentiva cantar di notte per le strade, quando era piccolo studente in essa città; e che cominciava:
"Sassari è pobaretta pa la moda".
E così un'altra di un poeta molto spiritoso, parimenti vernacolo, che compose una canzone, quando arrivò la moda delle cappe, cui pure imitarono le donne.
No, ripeto, non parlo di queste mode dei poeti Sassaresi, ma di una veste che ha tanto di codino e che rimonta nientemeno al secolo XVII!
Frugando carte vecchie nella Curia arcivescovile di Cagliari, mi sono imbattuto in un volume che contiene un processo intentato dal Municipio di Cagliari contro i Sassaresi, che qui dimoravano, perché attagliarono una nuova veste di moda all'esule dell'Asinara, S. Proto, quel gran santo per le cui preghiere furono estinte tutte le bestie feroci in quell'isolotto e nella Sardegna, sebbene quel bugiardo di Solino, quattro secoli prima di S. Proto, ci avesse detto che la Sardegna era priva di animali velenosi.
Il processo è scritto in lingua spagnuola contro los de la Nacion Sassaresa, per ricorso del Municipio Cagliaritano al Vicario Generale, perché i Sassaresi, il giorno 25 di ottobre del 1636 fecero una pomposa festa ad onore dei gloriosi martiri (dels gloriosos Martirs) S. Gavino, Proto e Gianuario, nella Chiesa del Convento della Vergine del Carmine; e avevano fatto tappezzare (fet encortinar) tutta la chiesa con quadri, tra i quali avevano collocato uno in cui era ritratto il glorioso S. Proto con mitra ed insegna del Primate (ab mitra y insignia de Primat), dando ad intendere i Sassaresi che S. Proto era arcivescovo di Torres e Primate di Sardegna e di Corsica; essendo noto che il detto Santo era solamente sacerdote, come apparisce dalle pitture antiche della chiesa di Torres e di quella del collegio dei Padri Gesuiti, ecc. ecc.
Finalmente, che, con grande scandalo del pubblico del pubblico, avevano fatta nello stesso giorno anche la processione nel gran piazzale, portando il quadro in cui era dipinto S. Proto con le insegne arcivescovili. Seguitano indi le deposizioni di molti testimonî per accertare questo scandaloso fatto, e tutti questi testimonî sono per la maggior parte, frati Agostiniani, Domenicani e Mercedarî. Gli ecclesiastici ed i secolari, gelosi dei loro privilegi, fecero un pandemonio; tutti erano in movimento e agitatissimi (più di quello che eravamo noi nel corrente anno con le proteste pel secondo periodo delle ferrovie sarde) mentre la peggio era pei Sassaresi che avevano fatto la spesa della veste, del piviale e della mitra a S. Proto; ed ai Cagliaritani poco doveva importare, anche lo avessero vestito di sacra toga e di berretto cardinalizio. Oh, lo spirito di municipalismo di quei tempi quanti mali ha cagionato alla Sardegna!
Pure chi lo crederà? In meno di un anno fu decisa la questione. (Così avesse la stessa sorte, per continuare il paragone, il periodo delle nostre ferrovie!).
Nel susseguente anno, il dì 21 luglio 1637 (come consta da un altro volume della detta Cancelleria) dalla Congregazione generale dei Cardinali, tenuta nel Convento della Minerva, fu deciso, che S. Proto era Presbitero e non vescovo, e quindi che circa imaginem S. Prothi, et modum illam dipingendi, di dovere da qui innanzi così conformare; ma con una curiosa clausola, cioè che "di questa sacra decisione se ne dia bensì copia autentica all'Arcivescovo di Cagliari, ma che non la stampi, e solamente la riponga nell'archivio arcivescovile, «Archiepiscopo Calaritano tradi copiam authenticam, sed non imprimet, sed in Archivio Archiepiscopali reponat!»".
Cagliari, dicembre 1875
Giovanni Spano
LA MAESTRA ELEMENTARE
NOVELLA ITALIANA
DEDICATA
AL SIG. MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE
I
Non conobbe le carezze del padre, il quale morì, lasciando la sua unica bambina alle cure e all'amore della desolata consorte.
E nella sua Elisa concentrò questa ogni affetto, ogni speranza; e sebbene poverissima, la educò facendole impartire quell'istruzione che può darsi nella scuola unica d'un villaggio. Ma non bastando, col solo lavoro delle sue mani, a nutrirla e vestirla, fece che l'Elisa fosse ammessa gratuitamente nell'Orfanotrofio di Sassari.
Le buone suore, scorgendo nella bambina un ingegno molto superiore all'età, le insegnarono tutte quelle cose che col tempo fanno d'una fanciulla una brava donna di casa; né paghe di ciò, vollero che Elisa frequentasse le scuole elementari in cui si distinse per condotta e per istudio fra le molte sue compagne.
Non aveva ancora compìti i quindici anni, quando la fanciulla, terminati gli studi della quarta classe, ottenne, per concorso di esami, uno dei posti provinciali gratuiti nel Convitto normale femminile di Cagliari.
Non dico con quanto amore Elisa intraprese la carriera di maestra. Nella sua mente sognava spesso un avvenire tutto sorriso, tutto gioia e incanto. "Sarò maestra, ripeteva a se stessa; vivrò insieme con la mia buona madre, e insieme divideremo il pane comprato con le mie fatiche. Come sarò lieta di poter educare le fanciulle del mio paese, e come tutte mi vorranno del bene!". Confortata da questi pensieri, studiava, studiava, e dopo tre anni di corso ottenne il diploma di maestra normale di grado superiore.
Ma un doloroso presentimento le strinse il cuore nel momento di abbandonare le sue compagne di collegio, e pianse lungamente, amarissimamente. Eppure essa stava per rivedere l'amato cielo del suo villaggio, a vivere in seno della madre, che l'attendeva, e per sempre.
II
In quell'anno era sindaco del villaggio di N. un cavaliere in cui stavano concentrati i sette peccati mortali, ed era talmente ignorante e così nemico dell'istruzione, che menava vanto di credere e di far credere, che la donna quanto più è istruita e tanto più è ineducata, pettegola, ciarliera.
Elisa e la madre, in uno dei primi giorni di settembre, si presentarono a lui. Ei restò come trasognato nell'udire la giovinetta, il cui accento armonioso non aveva udito altra volta. Com'è bella e ingenua! Pensò don Ciccio. Va, che con me sei capitata bene!
Le usò mille gentilezze, una più sciocca dell'altra, e alle preghiere d'Elisa rispose promettendo che le avrebbe fatto ottenere la scuola.
Dopo due giorni fu sollecito d'andare egli stesso in casa delle due donne, per avvisarle che fra non molto il consiglio comunale avrebbe nominato Elisa maestra della scuola unica, e fu contento di trovar sola la fanciulla.
- È così? Il segretario mi assicurò che hai scritto una gran bella domanda. Brava! Così ti voglio sempre più bene! E le toccò famigliarmente una spalla.
La giovinetta arrossì tutta, e appena ebbe il coraggio di rispondere un grazie.
- Che grazie! Tu sei e sarai sempre la mia protetta... ma che libro è codesto che tieni in mano?
- È il Leopardi.
Don Ciccio credette fosse questa una schernevole allusione a lui stesso, e rispose: I leopardi sono nei deserti, sono animali che mangiano gli uomini; ma qui non esistono leopardi; qui vive don Ciccio, qui vivo io, e quando ha la mia protezione hai tutto che brami. Tu sarai maestra, verrai in casa mia... insomma, noi c'intendiamo. Ricordati che una mano lava l'altra...
- Signore, mia madre non è in casa e la prego di rispettarmi. Io sono un'onesta giovine.
- Ih! Tutte così le maestrine, e poi...
- Signore! Mi rispetti, o griderò tanto, finché venga qualcuno! Esca subito!
Col volto rosso come un peperone don Ciccio uscì, ruggendo: - Pettegola d'una maestra! Me la pagherai!
Trovatasi libera e sola, la poveretta d'Elisa lasciò cadere fra le due mani la testa sul tavolino e scoppiò in dirottissimo pianto, esclamando fra i singhiozzi: povera madre mia! Povera madre mia!
III
E venne la madre, ma Elisa non le fece parola dell'avvenuto; e una indefinibile mestizia si concentrò nell'anima sua che cominciava «a paventare l'avvenire come una sciagura».
La notte non volle concederle il conforto del sonno; ed Elisa tornò col pensiero agli anni passati nell'Orfanotrofio di Sassari e a quelli di Collegio; ricordò i suoi sogni, le sue speranze di fanciulla, allorché dinanzi allo sguardo non vedeva che un cielo di rose. Eppure non era entrata ancora nella vita, non aveva ancor provato gli affanni e le delusioni che sono le sole più fide compagne della povera maestra elementare.
Una mattina la madre rientrò in casa con due lacrime negli occhi: - Figlia mia, disse, noi non abbiamo fortuna; il Consiglio nominò maestra un'altra, e tu non avrai la scuola!
Lettor mio, non ti descrivo l'ambascia delle due anime, cadute nella più cupa disperazione. Ti contristerei troppo.
In tutti i villaggi circostanti erano già state confermate e nominate le insegnanti. Allora Elisa inviò la patente al provveditore agli studî, supplicandolo perché la mandasse d'ufficio in qualunque comune della provincia. In sul finire di ottobre le venne la sospirata lettera, che le annunziava essere stata nominata d'ufficio maestra della scuola mista del piccolo e lontano villaggio di O... con lo stipendio annuale di trecento trentatre lire e trentatre centesimi. Il provveditore le raccomandava che partisse subito, perché altrimenti il posto si sarebbe dato a un'altra.
Dopo due giorni Elisa e la madre, vendute le poche robe di casa, partirono in un carrettone quasi nascostamente, come fuggissero l'aspetto dei viventi dopo d'aver commesso una colpa. Prima che sparissero del tutto, Elisa volse gli occhi ai monti della sua patria, ove aveva sognato di vivere tranquilla e beata, e sentì nel cuore una stretta amara, simile a quella che proviamo nel primo disinganno della vita; serrò fra le sue le mani della madre, e sospirò di dolore, come l'esule che si vede cacciato per sempre dalla terra ove posano le ossa di suo padre, come colui che si vede rapita per sempre la vergine adorata del suo cuore!
IV
Il villaggio di O... era allora composto di 1262 abitanti, dediti, la maggior parte, all'agrie coltura e alla pastorizia. Vi erano due letterati soltanto: il parroco, don Ambrogio e il signor Michele. Don Ambrogio sentiva già suonar sulle spalle la novantina; egli aveva veduto nascere tutti gli altri del paese; e cantando aveva accompagnato alla fossa quattro generazioni. Era probo, caritatevole, amico dei fanciulli e dell'istruzione. La sua casa era popolata di nipoti d'ambo i sessi, che si faceva sedere alla mensa, e ai quali aveva legato ogni suo avere. Era la prima volta che nel comune di O... si stabiliva una scuola anche per le femmine, e non è a dire la gioia che ne provò don Ambrogio, il quale volle che Elisa e la madre facessero parte della sua numerosa famiglia.
Mia buona figliola, disse a Elisa, tu insegnerai con affetto a questi miei fanciulli e a queste mie care bambine. Già il tuo stipendio è così meschino, che non basterà a vestir te e tua mamma, e perciò non vale la pena di parlarne: serbato tutto per te, ché se qualche soldo ti avanzerà, ti farà certamente bisogno nella vecchiaia. E tua madre attenderà alla casa, perché io aveva proprio bisogno di una buona massaia. Elisa e la madre con le lacrime agli occhi si gettarono ai piedi del buon parroco e gli baciarono con tenera riconoscenza le mani. Don Ambrogio si sentì commosso e pianse anche lui. È pur dolce il pianto che si sgorga dagli occhi dopo aver fatto una buona azione e asciugato il pianto degli altri!
Le bene arrivate benedissero mille volte il consiglio comunale di N. che ad Elisa aveva anteposto un'altra maestra, e la fanciulla specialmente perdonò di tutto cuore a Don Ciccio la brutale vendetta che aveva saputo compiere su di lei. Il giorno dopo tutto il villaggio era corso in casa del parroco per conoscere e salutare la nuova maestra, il cui bel viso e le cui maniere gentili e affabili inspirano subito simpatia e rispetto.
V
Elisa nel primo giorno di scuola ringraziò il consiglio comunale dell'affettuosa accoglienza che le aveva fatto il paese, e promise che sarebbe tutta delle fanciulle e dei fanciulli confidati alle sue cure.
- Stupendo, magnifico discorso! Esclamò il signor Michele, nell'uscire dalla scuola insieme col parroco e cogli altri del Consiglio: e dire ch'è una giovinetta e che sa parlare così bene! Oh! È il cielo che ha mandato un angiolo fra i nostri monti a educarci da cristiani.
Il signor Michele, dopo don Ambrogio, era il più dotto del paese. Aveva sessantacinque anni e riuniva quasi tutte le cariche del comune, perché era segretario, sovrintendente alla scuola, conciliatore, organista, chirurgo, speziale e barbiere. Galantuomo a tutta prova, non aveva mai ammazzato, diceva egli, una mosca; ma si guardava bene dal menarne vanto alla presenza di don Ambrogio, il quale gli avrebbe risposto col suo benevolo sorriso: Compare, mosche no... ma so ben io i miserere e i laudate che ho cantato in vita mia, compare!
Perché meglio conoscano i miei lettori i due più vegliardi di O... aggiungo che, per essi, il comune era uno dei più assestati della provincia. Don Ambrogio, aiutato sempre dal signor Michele, non lasciava mai dal predicare, che il miglior modo di corbellare Dio e gli uomini è quello di vivere laboriosi e onesti. Raccomandava sempre ai popolani che pagassero le imposte, perché altrimenti la nostra Italia non potrebbe ridoventare, come un tempo, gloriosa e potente. Prendeva parte a tutte le feste e a tutte le gioie della nazione, e faceva voti perché finalmente si desse a Cesare quel ch'era di Cesare, e a Dio quello ch'era di Dio. E a esempio di lui e del signor Michele, i popolani di O... vivevano laboriosi e onesti; e il signor Michele, alla fine di ogni anno, fregandosi le mani esclamava: Neppure quest'anno i miei atti di conciliazione toccarono la mezza dozzina!
La scuola intanto dava i suoi frutti: Elisa faceva anche la scuola festiva alle adulte, nei giorni di vacanza, e spendeva un'oretta ogni sera per l'istruzione degli adulti che volevano profittarne.
Alla fine dell'anno scolastico i saggi pubblici risposero alle fatiche della maestra e all'aspettazione del paese. Essa aveva insegnato a dodici bambine e a sedici fanciulli. Alla scuola festiva erano intervenute cinque giovinette appartenenti alle famiglie più agiate, e la scuola serale fu, in media, frequentata da otto giovani.
Perciò il Consiglio Provinciale decretò alla maestra un sussidio di ventitre lire, e il Governo altrettanto.
VI
Quattro anni durò tanta felicità per Elisa, la quale, col dedicarsi all'istruzione dei fanciulli e delle femmine, non trascurò la propria. Leggeva continuamente i nostri classici; sua lettura prediletta erano il Manzoni, il Grossi, il D'Azeglio, non che il Giusti, il Foscolo, l'Aleardi e il suo amato Leopardi. Quasi ogni notte, levata la mensa, leggeva alla famiglia qualche racconto morale, cui Don Ambrogio e il signor Michele, il quale era sempre del numero, ascoltavano con piacere e con entusiasmo.
Era una vita di lavoro, di gioia e di benedizione. Elisa sempre buona, sempre compiacente, era amata da tutti e da tutti veniva chiamata «l'angiolo del villaggio».
Ma la pace e la gioia non sono di questa terra, ove ogni anima ha sortito un'eredità di dolore. E la stella che brillava sul cielo di Elisa volse per sempre al tramonto!
(Continua).
Salv. Secchi Dettori
ALLA SARDEGNA
In eterno perimmo? E il nostro scorno
Non ha verun confine?
(LEOPARDI)
E te, Isola mia, si a lungo morta
Le genti tutte acclameran - risorta! -
(IOSTO EMILIO)
Sopra i vanni dell'aura divina
Che il tuo nome mi desta nel petto,
A te vola, con voce d'affetto,
Il mio fervido canto d'amor.
Salve, o amata mia sponda natìa,
Salve, o terra di gesta gloriose;
A te volgo le luci desiose,
A te sciolgo la voce del cor.
Io saluto la flebil marina
Che ti bacia le sponde romite,
Il sorriso del cielo tuo mite,
De' tuoi zefiri il dolce aleggiar.
Contemplando le aurore ridenti
Che t'ingemmano il puro zaffiro,
Sento un'aura celeste, uno spiro,
Il mio seno affannoso inondar.
Tu nel petto le dolci memorie
Mi ridesti degli anni primieri,
Mi rammenti i fioriti sentieri,
Dove il piè folleggiando posò.
Son quest'aure che il primo vagito
Raccogliean del mio labbro innocente,
Quando il vergine sen dolcemente
Sovra il seno dei miei palpitò.
E or che al crine una mesta ghirlanda
Ancor giovin m'intesse il dolore,
A te penso con fervido amore,
Sui tuoi clivi m'è dolce vagar.
Volo lieve coll'agil pensiero
A spaziar dalle eccelse tue cime,
E t'ammiro, regina sublime,
Dominar sovra i piani del mar.
Ma perché veggio mesto e dimesso
De' tuoi nobili figli il sembiante?
Perché mai non s'innalza festante
Un sol canto di gioia e d'amor?
Ahi! La musa del Sardo cantore
Più non detta un accento giulivo;
Chino ha il volto, e lo sguardo, un dì vivo,
Or rivela un profondo dolor.
Tu rimpiangi, o diletta, e n'hai d'onde,
La virtude del sardo valore;
Tu rimpiangi quel prisco splendore
Che un crudele destino offuscò.
Più non odi echeggiar pe' dirupi
La canzone del fiero Pellita,
Più non senti quell'aura di vita
Che sul dolce tuo viso aleggiò.
Dove son gli animosi tuoi figli
Che fugâr le romane coorti?
Dove i lauri gloriosi che i forti
Sul tuo nobile crine intrecciâr?
Ahi! Da immense sciagure abbattute,
Rese ignavi oggi son le tue genti;
E sui campi un dì lieti e ridenti,
Più la spica non può biondeggiar.
Pari al turbo che schianta impetuoso
Fu il regnar de' tuoi despoti esosi:
Fin la polve de' tempi gloriosi
Fu dispersa dal nembo feral.
E oggi ancora il disprezzo e l'oblìo
Son mercede al tuo sangue e al tuo pianto;
Conculcato è il tuo dritto, e tu intanto
Piangi invan la tua sorte fatal.
Ma sarai tu per sempre, o mia patria,
Condannata a languire dolente?
Non fia mai che s'ingemmi l'oriente
All'aurora d'un giorno novel?
Su, o fratelli! Dal monte e dal piano,
Deh! Sorgiamo a una vita novella.
Ridestiamci! Di speme la stella
Forse è spenta nei campi del ciel?
Via l'ignavia che al suolo ci prostra!
Su, leviamo sdegnosi gli sguardi!
No, perdio! Non si spegne ne' Sardi
Quella fiamma che un giorno brillò.
Non più curvi dal grave sapore,
Non più fiacchi, ma arditi e fidenti
Col lavoro sorgiamo redenti,
Disprezzando chi ingrato ne obliò.
Ritempriamo la mente ed il braccio
Col pensiero di forti ardimenti;
LAVORIAMO! Rinascon le genti
Sulle glebe che il forte sudò.
Ve', le messi ritornan copiose,
Rifioriscono i patrii declinî,
Tornan nostri gli ambiti dominî
Di quei beni che Iddio ci donò.
E tu, o Madre di nobili figli,
Tergi il pianto, solleva la testa;
I tuoi colli s'adornino a festa,
I tuoi clivi si vestan di fior.
Dalle spiagge alle cime de' monti
Tornin liete le patrie canzoni,
E dal fondo di cupi burroni
Sorga l'eco di un inno d'amor!
Cagliari, Novembre 1875
V. M.
CORRISPONDENZE DELL'ISOLA
PER OZIERI A VOLO D'UCCELLO
(Scorrerie di uno scapolo)
Giacché piacque agli egregi giovani, e amici miei dilettissimi, che vennero nel saggio divisamento di metter fuori questo nuovo giornale, di farmi invito cortese, non tenendo conto, per bontà loro, della pochezza mia, perché vi collaborassi io pure, sollecito mi fo a rispondere all'appello con questa mia prima Scorreria, che la potrà servire di preambolo, o, dirò più propriamente, di un succinto programma delle materie che mi propongo di trattare nelle altre che a questa terranno dietro, se per grazia de' signori associati, o per la volontà dei compilatori, la Stella di Sardegna, che spunta ora nell'orizzonte giornalistico sardo, non la vorrà fare da Stella cadente, ma, brillando di bella e durevole luce, saprà arridere sempre propizia ai destini della sarda terra, procurandone reali vantaggi, sopratutto nel campo intellettuale e morale.
Ma, a bene intenderci, e a scanso di equivoci e di inconvenienti, non sarà discaro né agli amici, né a' lettori che, in questo numero, anch'io, in due parole, schiccheri la mia professione di fede, che non sarà né politica né religiosa, ma puramente e semplicemente sociale. E però in primis, dichiaro che (per quanto scapato io mi sia) parlerò sempre per "ver dire...", con quel che segue, e che non dico, perché noto oramai a mezzo il mondo; secondariamente, che in tutte le mie povere scorrerie mi comporterò da giornalista per bene, né per conseguenza arrecherò ingiuria a quell'anima eminentemente educata di Monsignor Della Casa, né a quell'altra, non meno linda, di Melchiorre Gioia.
Ora, o gentilissimi, affidatevi, per pochi istanti, al mio dorso, ché così uniti, faremo una scorreria, proprio a volo d'uccello, per questa simpatica cittaduzza, considerandola materialmente, per quanto ha rapporto con la topografia sua, ecc., e moralmente, per ciò che riguarda l'indole e i costumi de' suoi industri abitatori.
La nostra sarà quindi una specie di scorreria generale, cui, in prosieguo, verranno appresso le scorrerie parziali, e nelle quali se non vi stancherete, lettrici e lettori belli, insieme visiteremo i diversi Uffizi governativi e le Chiese, il Municipio e la Conciliatura, lo Spedale e le Caserme; le vie e le Scuole... Non lasceremo, in una parola, inosservato nessuno de' luoghi accessibili ad occhi profani, e che cadono sotto il sindacato diretto del pubblico: e ciò faremo ben inteso, tenendo sempre per obbiettivo la verità, tutta la verità, null'altro che la verità.
E voliamo...
Ecco Ozieri, cittadina di circa ottomila abitanti, in fondo a un piccolo vallone, cinta attorno attorno di monti e di ubertose colline, dove crescono rigogliosi il frumento, la vite, e ogni sorta di albero fruttifero, dal noce al fico d'india.
A motivo della sua postura topografica, Ozieri, che pur s'eleva di dugento ventiquattro metri sopra il livello del mare, presentasi tutta d'un colpo, e quasi per intero, all'occhio del viaggiatore, il quale vi acceda per la strada nazionale proveniente da Torralba, offrendogli lo spettacolo di un vasto e variato anfiteatro, che, nell'osservatore, desta una impressione gradevole in vantaggio della città che gli sta appiedi.
Le case, necessariamente, sono disposte, la maggior parte, a scaglioni. Però le sono, in generale, ben costrutte e comode, e presentano un doppio uscio d'entrata, con questo, che il pian terreno di una parte, corrisponde molte volte al secondo, e anche col terzo dell'altra... Esse, del resto, non mancano di una tal quale eleganza, finendo con graziose terrazzine, adorne di colonnette svolte, a uso toscano, e a' mastri toscani, appunto, so che devesi la introduzione qua di siffatto genere di architettura.
Le strade, nessuna eccettuata, formano la vera piaga di Ozieri. Né, qui, terrò parola della pulizia urbana, perché ci dovremmo impigliare in un laberinto tutt'altro che pulito... Ed io rispetto troppo le giuste suscettibilità dei miei buoni lettori in generale, e delle amabili lettrici in particolare, per condurli per certi luoghi... dei quali il tacere è bello.
Dicesi che il Municipio intenda di provvedere - e ne sarebbe tempo! - a quello e ad altri inconvenienti, e che a tal uopo stia contrattando, con una casa romana, un imprestito di 400,000 lire... Basta, attendiamo, e riserviamoci a discorrere allora di tante belle e brutte cose.
Il clima di Ozieri, se non si può dire eccellente, è, in ispecie se lo si voglia paragonare con quello di altri paesi della Sardegna, discreto. Vi dominano, maggiormente, i venti del nord, e, nei mesi d'inverno, particolarmente, il freddo umido è all'ordine del giorno, e, molto più, della notte. E però le affezioni catarrali, in genere, i reumatismi articolari acuti e cronici, e le febbri miasmatiche che annoveransi fra le malattie più comuni. La clorosi, la scrofola e la tisi danno pure un buon contingente.
Fortunatamente la vita animale si passa abbastanza bene, ché la carne, i latticinii, la verdura, ecc., non fanno difetto, e l'acqua si ha buona, abbondante, e, di state, freschissima.
Se ciò non fosse, più infelici di quel che al presente non lo sieno, sarebbero le condizioni della pubblica e privata igiene.
Ozieri, come capo-luogo di circondario, annovera la sua brava Sotto-Prefettura, il suo Comando dei carabinieri, l'Uffizio di Registro e l'Agenzia delle tasse. Non è sede di Tribunale, ma vi ha una Pretura, dove le liti abbondano, sia per i molti affari ai quali gli Ozieresi si sobbarcano, sia per il numero, relativamente stragrande, di avvocati e proavvocati che ci sono!
D'opere pie contasi appena appena uno Spedalino, e questo sorto per gli erculei sforzi, e per la tenacità di propositi, più unica che rara, del reverendo canonico don Antonio Luigi Sequi, che ne è degno presidente e amministratore indefesso. Quest'uomo è, per Ozieri, una spiccata individualità, e se, per oggi, non mi posso, come vorrei, dilungare di più su di lui tenetelo a mente, che non lo perderemo di vista.
Questo Spedalino, dal lato della amministrazione, e per ciò che concerne la sua interna polizia, nulla lascia a desiderare... Sul resto, a suo tempo, ci occuperemo di proposito.
Sono in Ozieri tutte le scuole elementari di ambo i sessi, e, quel che più monta, frequentatissime; un ginnasio-fantasma comunitativo; un Seminario tridentino, col rispettivo vescovo e acoliti, e un deposito Stalloni. Quest'ultimo concesso, non sono ancor due anni, dal Governo a questa città, perché, nell'isola, la più ricca di equini, e di buone cavalle fattieri.
Si ha nella Cattedrale un bello e moderno edifizio, ricostrutto, sull'area dell'antica, a spese della fu doviziosissima, e tre volte buona, signora Maria Lucìa Secchi, su disegno del noto commendatore Gaetano Cima, di Cagliari. Sonvi nella chiesa, di molti pregevoli cappelloni, e alcune buone tele del distinto e compianto pittore pure cagliaritano, cav. Giovanni Marghinotti. Vi hanno anche due organi, uno de' quali molto grande e buonissimo, per quanto ho inteso dire dagli intelligenti, che fu, in origine, commesso al fabbricante per una città del continente.
Avendo visitato la Cattedrale, ne viene di natura sua, che dedichi poche linee a' signori componenti quel Corpo capitolare.
E, a onor del vero, debbo far conoscere che il Capitolo ozierese, pe' dì che corrono, mostrasi abbastanza serio, né più clericali dello stesso Papa, come altrove succede in questi giorni di furibonda, per quanto impotente, reazione. Sono buona pasta d'uomini, i reverendi che di questo Capitolo fanno parte; amanti sopra ogni cosa, del quieto vivere, e del lasciar vivere, né, come ve ne sono tanti, intolleranti a tutta oltranza.
Non mancano i maligni, che vanno sussurrando, come le cose di questa Diocesi (detta di Bisarcio, dalla distrutta città di questo nome) andassero meglio, nel tempo della sua vedovanza... Ma non bisogna dar retta alle male lingue... Ne dicon tante i maligni...
Noto, per ultimo, che esiste in Ozieri, fino dall'anno 1848, la Società del Progresso, la quale, nel suo genere, è la prima costituitasi in Sardegna. Fanno parte di quella i più distinti e colti cittadini; ha un Gabinetto di lettura, provveduto de' migliori giornali; una sala di bigliardo, ecc. ecc.
Ed ora che alla bel e meglio, ho dato una idea di quel po' che vi ha in Ozieri di più rimarchevole, e riservandomi a dire del molto che vi manca, e che pare potrebbe e dovrebbe esserci, passerò a sbozzare alcuni tratti fisico-morali dei suoi abitanti della classe, cioè, che vi predomina.
Il tipo del vero ozierese, dal lato morale considerato, lo si trova maestrevolmente ritratto nel flemmatico cittadino con cui il caro Costa, ci fa fare un viaggetto in omnibus nel primo capitolo del romanzo "Paolina". A questo romanzo quindi, rimando chi non l'avesse letto, e me ne saprà grado, e ne saprà quanto basta.
Per conto mio, tenterò solo di dare il ritratto dell'uomo fisico.
È l'ozierese, in generale, di una statura superiore alla media, aitante della persona, bene proporzionato, e ciò lo rende bello della vera maschia bellezza. Più arsa dal sole che bruna ha la carnagione, l'occhio ha vivo, intelligente e nero al par dei capelli e della barba, che porta intiera, di taglio mezzano, e côlta. Altiero e noncurante è il suo portamento. Veste un costume semplice ed elegante, che mi passo di descrivere perché l'ozierese è noto dappertutto, nell'isola e fuori.
Anche le donne, per lo più, sono avvenenti; e il costume loro se non è splendido e pittoresco al par di quello delle donne del Campidano di Cagliari, delle Osilesi, Ploaghesi ecc., è pero castigatissimo, né spiace. Consiste, egli, in un corsaletto di broccato che, per la sua forma conica, e per le molte stecchette di cui è imbastito, riduce a minime proporzioni la vita di chi l'indossa, ciò che, se procura un vantaggio all'estetica arreca un danno non indifferente alla salute individuale. Al dissopra di questo corsaletto, vestono un giubboncello di seta e di tibet neri, e sotto una gonna di fino panno parimenti nero, che per l'infinito numero di piccole ripiegature che ha in senso verticale, e per tutta la sua circonferenza, dà l'idea precisa di un immenso ventaglio semi-aperto. Completa questo abbigliamento un lungo velo bianco, di forma rettangolare, che lor scende lunghesso le spalle, giù giù fin oltre al ginocchio.
Per compiere il ritratto della donna ozierese, dirò pure che essa è una buona massaia, e che lavora quanto, se non più, dell'uomo.
Come si sa, l'ozierese è per eccellenza industrioso, ma la principale industria sua consiste nell'allevamento e nel commercio del bestiame e nella fabbricazione del cacio e burro, anzi, per la manipolazione di quest'ultimo è unico e solo nell'isola.
Inoltre egli provvede di carne vaccina i principali mercati di Sardegna, non solamente, ma qualcuno altresì del continente italiano e di Francia.
Ed è in forza della attività e capacità sua, che l'ozierese è, generalmente parlando, agiato, e che Ozieri, nell'isola, passa per una delle città più doviziose. Ciò che vi ha di certo è, che di veramente indigenti qui non se ne trovano punto.
Adesso, con dispiacere mio sommo, debbo confessare che qua regna tale uno spirito di indifferentismo per tutto e per tutti, vi ha tale un'apatia, che impedisce, col suo malefico influsso, che ci attecchiscano - e il terreno sarebbe tanto e poi tanto adatto, sol che si volesse! - le più belle, le più proficue istituzioni; quelle istituzioni che sono il distintivo della presente generazione e che, accoppiando all'utile il dilettevole, sono, in pari tempo, un fattore, non ispregevole, di coltura intellettuale e morale.
Per questa volta, mi limiterò a far voti, perché un simile stato di cose (costa poi, tanto poco un po' di unione, essendo che solo questa faccia la forza!) vada fra non molto a cessare. E se in qualche modo, io avrò contribuito a raggiungere il nobile intento sarò più che compensato per la modesta cooperazione mia, ché il compenso più gradito al mio cuore, sarebbe il bene che verrebbe a ridondare in prò di questa città, a cui sono affezionatissimo, ed alla quale mi legano vincoli di famiglia e interessi molteplici.
Animo dunque, o uomini tutti di buona volontà, e voi, in particolar modo giovani, scuotetevi, animatevi e, compatti e concordi, stampiamo sul nostro vessillo, con caratteri indelebili, il motto: Laboremus! Né ci stanchiamo finché la nostra diletta Ozieri non sia davvero risorta a novella vita, alla vita intellettuale, sì che la non possa arrossire stando accanto alle sue minori sorelle!
Pur troppo mi accorgo, ma è tardi per rimediarci, che la scorreria l'ho fatta assai più lunga di quel che mi fossi proposto, e di questa grave colpa, per la noia arrecatavi, vi chiedo l'assoluzione, o lettrici e lettori. Valgami, se non altro, di attenuante appo di voi la buona intenzione che avea di far bene, e di farvi passare una mezz'oretta manco male: ché se in ciò non riuscii, credetemi, la colpa non è tutta mia, ma un pochino anche vostra, perché foste tanto buoni e pazienti di tener dietro al lungo e stanchevole (leggete pure stucchevole, che proprio bene ci sta) volo dello scapato.
Ozieri, Novembre 1875
Falchetto
Da un nostro abbonato di Sanluri, il signor M. MARZEDDU, riceviamo il seguente scritto.
UNIAMOCI!
Un raggio della Stella che da giorni illumina il cielo del Logudoro, arriva a questa landa del mezzodì, e riverente m'inchino a salutarne la nascita. Gentile pianeta gettato a roteare su di un vano non profanato da nubi, assoggettato all'imperio di leggi umane, e scortato nel suo cammino dalla vera espressione del genio, potrà esso contro le umane vicissitudini urtare e ruinare? Ne dice il pensiero di no, e, vivadio! La Stella di Sardegna, qual vessillo issato col braccio forte del prode, farà imperterrito il suo cammino, e verrà la sua luce a rischiarare ai suoi proseliti la via, ed a mettere alla sanzione dei buoni i codardi abitatori delle tenebre. I Sardi! Uomini che tra le vicende dei secoli poterono col ferro in pugno dare l'ultimo anelito sul campo dei sospiri, e seguire con piè vacillante le traccie di una civiltà lontana, no, non hanno essi perduto il pensiero di rischiararsi il lembo della terra natìa con un luminare che guidi i loro passi, e faccia rintracciare il punto luminoso della patria civiltà, di tutti i popoli speranza e sospiro. È in terra modesta, lasciata agli insulti dell'oblìo, che la Stella di Sardegna nasce raggiante, sebbene scevra di pompa soverchia; ma a lei d'accanto sapremo tutti unirci, tutti combattere le ultime reliquie della ignoranza, annientare i dispersi avanzi del rossore in cui ci gittò finora il destino.
Tutti, sì, vorranno senza spirito di parte contribuire col loro obolo a sostenere un modesto quanto filantropico edifizio, che s'erge sotto la protezione di generosi che amano la terra natale.
Bandiamo finalmente l'idea fatale di dover riconoscere solamente il bene ed il meglio in quei d'oltremare, e al nostro petto anziché puntare per ucciderci volontariamente armi avvelenate, accostiamo la mano operatrice, colla coscienza di scacciare ogni umiliazione. La Stella di Sardegna ci apprende che anche noi siamo utili a fare il bene, e che non trovasi poveramente circoscritta nel mare una terra di diseredati. Bandiamo le ingiurie lanciateci in ogni tempo dai lontani, e mostriamo che i Sardi ritenuti barbari ed ignoranti, hanno imparato a schierarsi dal lato del progresso; gli insulti chineranno vilmente la fronte al cospetto dei fatti. Faremo da noi, ma tutti uniti, tutti sotto la stessa bandiera, e non sparirà, per Dio, dal nostro cielo la Stella benefica che ci rischiara.
Sanluri, novembre 1875
M. Marzeddu
NECROLOGIA
Il Cav. Paolo Soro, già Professore di Morale alla nostra Università, era un ottimo cittadino ed un sacerdote esemplare.
Già da qualche mese un'acuta puntura al cuore gli aveva predetto il suo triste fine, ma il Soro aspettava, rassegnato, il suo destino e si piaceva intrattenersi cogli amici, parlando a lungo di lettere, scienze, ed arti, di cui molto si dilettava.
Nella mattina del 28 Novembre egli accusò un sensibile benessere, e si mostrò di buon umore. Verso le tre pomeridiane, dopo lette alcune poesie del Giusti (poeta suo favorito) il Soro conversava con un suo intimo amico e parente, quando il solito malore lo colse improvviso. Posò il capo sul guanciale, come se volesse dormire... ma, oime! Quel sonno doveva essere ben duro, poiché il pianto disperato di una cara nipote non poté turbarlo un solo istante!
Fu compianto da tutti indistintamente, poiché i buoni si fanno amare da tutti, qualunque ne siano i principii politici e religiosi; ed anche noi consacriamo queste poche righe alla memoria di quel buon vecchio settantenne che, pochi giorni appena prima di morire, ci aveva promesso di largamente cooperare per il nostro giornale, scrivendo una serie di articoli di Agricoltura sarda, studio suo prediletto.
Gli uomini come il Soro non si possono mai dimenticare!
E. C.
CRONACA POLITICA
Ferve un intenso lavorìo diplomatico per impedire che la dissoluzione dell'impero ottomano, procedente con estrema rapidità, metta in fiamme l'Europa.
Arbitre della situazione sono la Russia, la Germania e l'Austria - Ungheria.
Finché il loro accordo si mantiene, la pace non corre alcun pericolo. Ma il giorno che quell'accordo fosse rotto?
Le popolazioni della Bosnia e dell'Erzegovina combattono coll'eroismo della disperazione contro il loro secolare oppressore. Alle promesse di riforme e di concessioni che il Turco fa, ma che non può mantenere esse rispondono col fucile, e la vittoria sorride loro di frequente.
Il Montenegro, la Serbia e la Rumenia si mantengono fino ad ora neutrali come se la lotta che si combatte non toccasse i loro interessi. Ma in quel contegno che sembra indifferente, c'è qualche cosa di cui la Turchia non ha certo a rallegrarsi. Tutte e tre quelle potenze sentono avvicinarsi la fine del dominio ottomano in Europa e vi si preparano in operoso e vigile raccoglimento.
Intanto mille voci si diffondono circa le intenzioni di questa o di quella potenza. Ora si afferma che la Russia aduna armi ed armati al confine, collo scopo di occupare Costantinopoli; ora si dice che l'Austria-Ungheria farà nella Bosnia e nell'Erzegovina la parte che rappresentò nei Principati Rumeni al tempo della guerra di Crimea.
La stampa inglese specialmente si fa propagatrice di quelle voci sinistre, giacché essa vede assai buio nel cielo d'Oriente.
Ma l'Inghilterra, benché i suoi uomini di stato che ora tengono le redini del Governo sembrino volersi ispirare alle tradizioni di Pitt anziché a quelle di Gladstone, ha troppo scarsa influenza nelle relazioni internazionali: e checché minacci il Times o assicuri Disraeli, la grande questione d'Oriente si risolverà senza l'Inghilterra.
Questa s'agita e teme ad un tempo, e benché non abbia ancora mandata la sua flotta nel Corno d'oro, né occupato l'Egitto, come ne corse parola, ha comperato le azioni del canale di Suez possedute dal Kedivè: fatto assai grave, e che in questi giorni commosse l'Europa.
La Francia, quasi affatto estranea a quanto accade fuori de' suoi confini, sta per subire la gran prova delle elezioni generali. Prima però il suo Governo, coadiuvato da una inesorabile maggioranza dell'assemblea, si cinge di tutte le cautele legislative per scongiurare il pericolo che trionfi il radicalismo. Ha fatto passare lo scrutinio uninominale di circondario, tiene imbavagliata la stampa, e non vuole che sia tolto lo stato d'assedio.
Come stanno oggi le cose, in mezzo all'incondito gorgolìo di partiti d'ogni tinta, non si può avventurare un giudizio su quello che sarà della Francia di qui ad alcuni mesi.
Il ferro ed il fuoco continuano a desolare le provincie nordiche della Spagna. Però i carlisti hanno di recente ricevuto colpi terribili, ed altri ne preparano loro i quattro corpi d'armata che si stanno concentrando. Il Pretendente se ne consola con lettere e proclami che paiono dimostrarlo discendente in linea retta da don Chisciotte. Nelle cosas de Espana un po' di buffo non manca mai.
Si disse in questi giorni, che gli Stati Uniti d'America erano risoluti a sottrarre violentemente Cuba al dominio iberico. Ma non sembra che le cose sieno giunte così innanzi, sebbene il destino della perla delle Antille splenda chiaro ad ognuno. La grande Repubblica, benché sempre devota alla dottrina di Monroe, vuole godere dei benefici della pace, ammaestrata anche dal triste esempio delle altre minori e infelici consorelle del mezzodì, alle quali si potrebbe oggi applicare quello che, fremendo, diceva Dante dei nostri comuni medioevali.
In Italia è aperto il Parlamento, il quale deve prepararsi a discutere fra non molto sovra due argomenti di sovrana importanza: il riscatto delle ferrovie ed i trattati di commercio.
CRONACA DI CITTÀ
Un ritratto ad olio. La Direzione del Pio Istituto dell'Asilo Infantile commetteva al signor Eligio Pintore da Bonorva, pittore storico, residente a Genova, il ritratto della fu suora di carità Lucia Mannu Ledà, per memoria di esemplare benemerenza per le L. 8000 legate con suo testamento al detto Asilo.
L'egregio nostro conterraneo, col semplice sussidio di una fotografia, seppe ritrarre con maestria le sembianze dell'estinta fanciulla, che nel fiore degli anni si sacrificava pel benefizio dell'umanità sofferente. È un ritratto pieno di vita e di anima. Sulla fronte serena di quella figura si legge la rassegnazione, sulle sue labbra sorridenti la bontà affettuosa, ed in quell'atteggiamento così modesto la semplicità dei costumi e la dolcezza di cuore... Freschezza di colorito, morbidezza di tinte, purezza di contorno, sono i pregi che vanta questo bel ritratto del Pintore, e noi, mentre glie ne facciamo i nostri complimenti, preghiamo i nostri concittadini perché si rechino nella sala dell'Asilo dove venne esposto al pubblico il detto ritratto, che fa tanto onore all'esimio artista che lo ha dipinto.
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Pubblico lavatoio. Una delle opere a cui il Municipio non ha mai posto mano, e che pertanto, non solo è di utilità pubblica, ma deve considerarsi da ogni buona amministrazione come di prima necessità, è senza dubbio l'ampliamento del pubblico lavatoio; e reca non poca meraviglia che non siasi ancora pensato seriamente alle inconvenienze che presenta l'attuale lavatoio, se così possiamo chiamare un miserabile recinto sudicio, mal tenuto e tanto angusto da non contenere che pochissime lavandaie, in rapporto al numero degli abitanti, che ascendono a più che 30,000!!
Andate per curiosità a visitare quel luogo, e vi vedrete un centinaio di donne che bisticciano fra loro, si graffiano e si colmano di mille improperii per ottenere un posto in quel microscopico recinto. Alla prima rappresentazione dell'Aida, o della messa di Verdi non si fe' sicuro tanto baccano..! Che ne accade? Le lavandaie o le serve più deboli vengono espulse con la forza da quella specie di Circo romano, e sono costrette a correre coi loro fagotti dall'uno all'altro molino, o dall'uno all'altro rigagnolo per chiedere il favore di un po' di posto; ed anche là si ripetono le stesse scene alla Goldoni. E pensare che Ozieri per esempio, che conta appena circa 8,000 abitanti, ha un lavatoio quasi due volte più esteso del nostro! È veramente una cosa troppo vergognosa, e tanto strana che parrebbe incredibile... se non fosse vera!
Se vi fosse qualche Consigliere Comunale che dubitasse di questo fatto, lo preghiamo di visitare quei poveri luoghi, e se non volesse incomodarsi, si rivolga alla propria moglie per chiedere spiegazioni in proposito; e questa gli dirà che, quando trattasi di far lavare la biancheria, la serva sta fuori tutta la giornata, e il più delle volte ritorna a casa con certi segni sul viso che farebbero pensare al gatto, se non si sapesse da tutti che esiste un altro animale, il quale, come il gatto, sa valersi delle unghie! Non è cosa di poco rilievo, trattasi della pulitezza, dell'igiene e del decoro della nostra città, ed il Comune (rappresentato dai Consiglieri) dovrebbe pensarvi seriamente.
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Avviso. Col presente numero s'inaugura la regolare pubblicazione della Stella di Sardegna la quale verrà alla luce ogni domenica senza interruzione di sorta; perciò preghiamo tutti coloro vogliono associarsi a farlo sollecitamente onde evitare inconvenienti nell'invio del periodico.
PENSIERI E MASSIME
A voler migliorare le sorti comuni, a voler rendere prospera questa nostra patria, egli è mestieri adoperarsi a vicenda. E quest'opera da parte di noi altri giovani, educati alla scuola ed ai libri, lungi dalle incendiarie pubblicazioni e dai tumulti di piazza, lungi dal lusingare il popolo con vuoti paroloni ed aizzarlo a sovvertire le basi della società, sta invece, nel dedicarsi a tutt'uomo a popolarizzare la scienza, a indicare le vie vere di ricchezza e di progresso, quelle vie che, in un libero Stato, sono le sole oneste e legali.
Sul tavolo sul quale io scrivo ho un mazzo di giornali, e ne ho di rossi, di neri, di malvacei e d'incolori, ma in tutti, al capitolo prediletto delle Notizie varie, io trovo delitti di sangue che mi fanno rizzare i capelli, e oscene istorie che mi fanno arrossire, e sventure strazianti che mi fanno impallidire. Ecco la corrente fredda, gelata, che può soffiare sul cuore e sui nervi della compagna della mia vita, del mio figliuolo giovinetto, della mia bambina. Ma non sanno forse i giornalisti il danno immenso che fanno ai nervi, al cuore, alla moralità di tutto un popolo, pubblicando quei fatti orrendi, o turpi, o strazianti? Ma non hanno mai pesato tutta l'influenza corrompitrice e fatale, che esercitano sul paese, col pretesto di interessare il lettore?
Per conservarsi sani di corpo e di spirito conviene interessarsi per tempo agli affari generali dell'umanità.
Senza cielo, senza concetto religioso, senza norma che prescriva il dovere e la virtù, prima fra tutte, del sagrifizio, la vita sfrondata d'ogni eterna speranza per l'individuo e d'ogni fede inconcussa nell'avvenire dell'umanità, rimane in balìa degli istinti, delle passioni, degli interessi, agitata, ondeggiante fra gli uni e gli altri, a seconda degli anni e dei casi.
INVENZIONI E SCOPERTE
Modo di accrescere il ricolto degli alberi fruttiferi. Il Signor G. Fischer, ha ottenuto un ricolto abbondante di pere da alberi che non avevano fin allora prodotto, pizzicando o rompendo i teneri rampolli verso il fine d'autunno, quando il legno ha preso un po' di consistenza, e che il succo è passato.
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Mezzo di saldare il ferro all'acciaio. Un Americano, il signor William Honefull, ha scoperto un mezzo per saldare con grande facilità il ferro all'acciaio, senza che questo si alteri: mezzo che gl'interessati possono facilmente provare.
Si bagnano leggermente le due superficie che devono essere applicate l'una con l'altra, e si coprono con un miscuglio composto:
1 parte di Borace disseccato
1 » di fina limatura di ferro
¼ » di Prussiato di potassa.
Si attaccano quindi solidamente le due parti insieme, sia con un filo di ferro, sia altrimenti, e poi basta scaldarle a una temperatura di 350 o 400 gradi e di passarle sotto il martello od il laminatoio per avere una perfetta saldatura.
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Mezzo di scacciare i punteruoli. Si calcolano a più di 200000000 di franchi i guasti prodotti nei grani d'Europa dai punteruoli. Un operaio dei dintorni di Nivelles trovò casualmente il mezzo di liberarsi da questo insetto devastatore. In un granaio in cui 200 ettolitri di frumento erano devastati dal punteruolo, si venne ad introdurre della canapa non ancora seccata né battuta. La domane si fu grandemente sorpresi al vedere i travicelli ricoperti di punteruoli che fuggivano verso il comignolo dei tetti. Si mosse più volte il frumento, e la ritirata di questo insetto durò sei o sette giorni; dopo d'allora non se ne vide più nel granaio; ma bisogna ogni anno all'epoca in cui si fa la raccolta della canapa spazzare il granaio e mettervi, in diversi luoghi, quattro o cinque pugnate di canapa aventi ancora la loro canapuccia. Si può procacciarsi della canapa prima della mietitura seminandola non in giugno ma alla fine di marzo. Un poco prima della mietitura essa esala abbastanza odore per essere messa nel granaio prima del ricolto.
VARIETÀ
Giuoco ed amore. Una signora galante rinfacciava al fratello la passione ch'egli avea pel giuoco, ed un giorno così gli disse:
«- Quando sarà che tu cesserai dal giuoco?
A lei pronto rispose il fratello:
«- Quando tu cesserai d'aver amanti!
«- Ah sciagurato! - rispose la sorella - giuocherai tu dunque per tutta la vita?
Avviso ai lettori...
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Arguta risposta. In uno de' suoi momenti di buon umore il defunto Napoleone III prese a ridere alle spalle del grasso maresciallo X..., dicendo che aveva qualche rassomiglianza col bue.
«- Io non so a chi rassomiglio, disse il maresciallo, ma ho però avuto l'onore di rappresentare V. M. in molte occasioni.
* *
Nuovo metodo di unirsi in matrimonio. Fra le tribù della Nuova Olanda si ha un metodo ben singolare di contrarre i matrimonî. Quando un uomo ha deciso di prender moglie adocchia in una tribù (che non sia quella a cui appartiene) una fanciulla, che sia di sua piena convenienza. Stabilita la scelta, l'appassionato amante si appiatta in un nascondiglio e aspetta pazientemente l'occasione che quella donna gli passi vicino... Appena la vede venir sola, piomba sopra di lei, la percuote sulla testa con un nodoso bastone, la carica sulle spalle, se la porta a casa sua, e il matrimonio è riconosciuto dalla Legge e dai parenti, i quali si credono in dovere di render visita agli sposi.
Questo metodo potrebbe introdursi anco in Europa e sarebbe comodo, specialmente per quelli che vogliono risparmiare i fastidi delle cerimonie religiose, o dello Stato Civile!
EPIGRAMMI
I DUE FRATELLI
Mentre Don Brasco stava ripensando
Alle faccende avute lungo il dì,
Un somaro gli andò dietro ragliando,
Di che Don Brasco alfin s'infastidì;
E a lui rivolto, in collera,
Disse: - «Vattene via! Bestion che sei,
Perché vieni a turbare i pensier miei?»
Ed il somaro a lui: - Oh il briconcello!
Non mi ravvisi più?... Son tuo fratello!
Morto è Il povero Ulisse
Ed i parenti
Mesti e dolenti
Posero in sulla tomba una scultura,
Per serbarne memoria imperitura.
La guarda ognuno e dice: - «Chi la scrisse?»
Ma del defunto, oimé, nessun si cura!
Oristano, 1875
MARIA CASTELDORO
Raccomandiamo a tutte le famiglie il periodico mensile La Donna e la Civiltà, diretto dalla infaticabile e buona signora, nobile Caterina Berlinguer. È un periodico degno di considerazione, ed ogni famiglia può facilmente procurarselo con sole lire 4, prezzo dell'abbonamento annuo.
- Abbiamo ricevuto il rendiconto finanziario della Società umanitaria di mutuo soccorso ed istruzione di Cagliari, dall'anno sociale1869-70 al 1873-74 inclusivo: società creata nel 1857. È una semplice e chiarissima dimostrazione del movimento dei soci, delle entrate e delle uscite; il tutto redatto con molta chiarezza e buon gusto. Il numero dei soci è di 411; i sussidii accordati dal 1869 al 1874 ascesero a L. 12,53237; i prestiti accordati ai soci L. 47,63675, e si aveva in Cassa al 31 agosto 1874 un capitale sociale di L. 9220,62.
Ringraziamo tutte le Direzioni dei Giornali che hanno voluto annunziare con belle parole la nuova pubblicazione della Stella di Sardegna, nonché quelle che ci hanno rimesso il giornale di cambio. Comm. G. Spano, Cagliari. Non dimenticheremo la sua squisita cortesia. F. V., Cagliari. Mille grazie. G. M., Roma. Finalmente! La vedrai al N. 3 o 4. Grazie. M. M., Sanluri. Pubblicheremo l'altro. Grazie. Signorina M. C., Oristano. Alcune sì... altre no. La ringrazio per le sue lusinghiere parole. Troppa bontà. Signora I. B., Ozieri. I versi sì. Mille grazie! O. B., Genova. Sempre buono! Aspetto Gennaio. Ricevi la mia riconoscenza, a 30 giorni data. G. S., Tempio. Il tuo silenzio ci fa sospettare. Sei occupato? Ai nostri corrispondenti di Alghero e Bosa. Avete molto piombo nei piedi... o nella mano? M. L., Oristano. Siete in credito di 80 centesimi. L. S. M., Tempio. Vi abbiamo fatto spedire due numeri Illustrazione a motivo che ci mandaste 50 centesimi in più. M. F.,Torino. Spediteci ancora una lira. Sig. C. E., Cabras. Siete in credito di 80 centesimi. A. F., Ozieri. Ricevuto tuo interessante articolo d'attualità sulla Difterite, che pubblicheremo. S. D., Roma. Ricevuto. Grazie mille. O. B., Genova. Sei sempre gentile... pubblicheremo subito.
Essendo nati alcuni inconvenienti nell'invio dell'importo d'associazione alla Stella di Sardegna, si rende noto che i prezzi d'abbonamento rimangono invariabili come sono segnati qui retro, e nelle Schede di associazione; e si prega di ritenere come nulli quelli pubblicati nei primi grandi Manifesti.
Avendo l'Amministrazione avuto di mira la massima diffusione del periodico ha creduto bene di ridurre i prezzi d'abbonamento.
SCHINTU VINCENZO, Gerente Responsabile.