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ENRICO COSTA


Al Vaticano. Fantasia
Enrico Costa

È sera. – Scatta la molla della soneria d’un orologio – e cinque colpi sono ripercossi dalle immense vôlte istoriate del Vaticano.

Un venerando vecchio, decrepito, dalla nobile testa contornata da bianchissimi capelli, si avanza a lenti passi. Egli percorre quei lunghi corridoi silenziosi e deserti. Curvo, tremante, accasciato sotto il peso degli anni e degli eventi, strascina a stento la sua debole persona per quei vasti cameroni.

Egli veste la porpora e l’ermellino, e gli pende sul petto una ricca croce tempestata di gemme, fermata ad una catenella d’oro.

Percorre in tutta la sua lunghezza un corridoio – giunge ad un finestrone – appoggia le mani sul davanzale, e guarda la maestosa necropoli che gli sta dinanzi.

Il sole versa la sua polvere d’oro sulle superbe cupole e sui sontuosi edifizi; ma invano quel vecchio implora un sollievo dall’astro del giorno. Il raggio del maggior pianeta non ha più la virtù di riscaldare quelle fibre deboli, spossate. Sotto i raggi infuocati del sole quel vecchio sente un brivido nelle ossa. Ha freddo – ed ha bisogno di riscaldare la sua vecchiaia ai ricordi della sua giovinezza.

E nello sfarzo di tanto lusso – nel silenzio di quelle immense sale e di quelle infinite gallerie, egli si sente solo – abbandonato – senza vincoli e senza affetti – fra una turba di Ministri invidiosi, e di astuti cortigiani.

E ripensa alla sua bella Sinigaglia che si specchia voluttuosamente sulle onde azzurre dell’Adriatico – e ripensa ai suoi diletti compagni d’infanzia, alle belle partite di caccia, ed alle allegre comitive – e ricorda i suoi anni ridenti, allorquando egli, pieno di gioventù e di forza, scorreva le boscaglie e le pianure sulla groppa di un brioso destriero. – E come in dolce visione le appare la sospirata immagine della principessa Albani – della cara fanciulla ch’egli amò tanto, e dalla quale non ebbe mai un sorriso né uno sguardo – rifiuto che a lui valse la porpora e un triregno. – E pensa ad una bella casetta, là, sopra un’altura della sua terra natìa, dove in quei giorni avea sognato la pace e una famiglia.

E richiama quei cari giorni perché ha freddo – perché il sole non ha più calore per lui!

Eppure ha una reggia a sua disposizione – ha sontuosi giardini, ha sedicimila camere, centinaia di gallerie, ricche biblioteche, e superbi musei!

Ma è solo… e ha freddo!

 

***

 

E il misterioso orologio batte sei colpi, che si perdono per le ampie vôlte istoriate del Vaticano.

– Oh, com’è bello il sole che volge all’orizzonte versando il suo raggio d’oro sull’eterna Città, antica dimora dei Cesari! Oh, com’è bello il cielo d’Italia! Com’è dolce l’idioma di questo popolo benedetto da Dio! Com’è felice l’uomo che può esclamare: «sono italiano!»

E una gioia celeste irradia il volto del povero vecchio.

E ripensa al 1846, allorquando il suo nome, sul labbro degl’italiani, suonava come una benedizione – come impromessa di giorni migliori. Sul suo cammino si spargevano allora i fiori; mille destre si alzavano per salutarlo; mille teste si scuoprivano per riverirlo. L’Italia era un inno. Mosè che avea liberato il popolo ebreo dalla schiavitù di Faraone fu men grande di lui!

E il vecchio ripensa a quei giorni di gioia, di entusiasmo, di delirio; allorquando egli, alla nuova che gl’italiani stavano per varcare il Ticino, si scosse, e pieno di santo ardore per i fratelli che anelavano alla libertà, alzò le mani al cielo… e dalla Loggia del Quirinale gridò con entusiasmo:

Gran Dio, benedici all’Italia!

E il pallido volto di quel vecchio s’accende d’insolito rossore; e pone una mano sul cuore quasi a frenare i palpiti, mentre una lagrima di gioia riga la sua guancia.

Erano molti anni ch’egli non avea pianto!

 

***

 

E il silenzio e la solitudine del superbo Vaticano furono turbati dallo squillo lento e monotono di sette colpi, battuti dal misterioso orologio.

E quel vecchio si scostò dal finestrone, e rifece per lungo il corridoio.

Tutto era silenzio per quelle immense gallerie. Non si udiva che il leggiero stropiccìo d’un piede vacillante e i colpi di tosse ostinata che assalivano di tanto in tanto quel povero infermo.

Trascinava con fatica il suo corpo… e si fermava quasi ad ogni passo per contorcere il labbro e socchiudere gli occhi – perocché atroci punture ei sentiva alle gambe.

Oh, come invidiava le sue due braccia robuste di Sinigaglia! A quei tempi non era ancor santo… ma stava meglio in salute!

Il sole calava dietro il Castel Sant’Angelo, e gettava sulle spalle di quel canuto un nuovo manto di porpora.

Ed egli vedeva la sua ombra lunga lunga strisciare sul lucido pavimento – e più si inoltrava nel corridoio, e più quell’ombra si allungava e saliva sulla parete.

Quell’onde di luce volevano penetrare sotto le ricche vôlte immortalate dal pennello di due angeli: Raffaello e Michele – ma venivano respinte dalle ombre nere che s’incrociavano lassù prendendo bizzarre forme.

E quelle ombre si movevano, e prendevano figure umane – parevano animate da uno spirito infernale. Vaporose e trasparenti cadevano dalle vôlte, e sfilavano lungo le gallerie.

E parve a quel vecchio di ravvisare i pontefici suoi predecessori che avevano lasciato i ricchi mausolei per visitare l’antica loro reggia.

E vide il violento Bonifazio VIII, e il bellicoso Giulio II, e il severo Urbano VI, e l’ambizioso Leone X.

E fra tutti lo colpì il beffardo sogghigno dell’incestuoso Alessandro Borgia – e l’invidioso cipiglio dello strangolato Stefano VI e degli avvelenati Clemente II e Benedetto IX, i quali parevano rimproverargli la sua longevità.

Ed ultima l’ombra di Gregorio XVI, voltò la faccia verso il vecchio per salutarlo tre volte col capo.

E quel vecchio ebbe paura della propria ombra – tornò indietro e si appressò di nuovo al finestrone…

 

***

 

Le tenebre si addensarono sull’eterna città. Il sole era scomparso lasciando una lunga striscia di fuoco sull’orizzonte.

E il misterioso orologio battè lentamente otto colpi; e a quei rintocchi, come se fossero stati un segnale, risposero mestamente tutte le campane delle chiese di Roma. Esse annunziavano l’Ave Maria.

Il vecchio parve tornare in sé – alzò a stento la mano fino alla fronte, e si segnò nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo. Indi piegò il capo; e le sue labbra si movevano in preda ad un tremito convulso. Esse mormoravano una preghiera. Ma il Papa non pregava per la pace del popolo –  pregava per la sua pace.

E teneva fissi gli occhi sul Quirinale – sull’antica sua dimora, donde era stato costretto a sloggiare.

E il Quirinale gli apparve come una mole gigantesca, la cui altezza oltrepassava la cupola di San Pietro.

E in un momento di delirio alzò il braccio in atto di maledire; ma il suo braccio ricadde inerte, perché una voce avea sussurrato alle sue spalle:

«– Tu non puoi maledire chi un giorno hai benedetto! – Tu comprometti la tua infallibilità! –»

Si volse raccapricciando…

Il riflesso della nuvola infuocata che vegliava all’orizzonte penetrava a stento nella galleria. E vide nelle ombre un legno tirato da due focosi cavalli che divoravano la via; e dallo sportello di quel legno usciva un lembo di porpora. Ed una voce tremante gridava al cocchiere: «– a Gaeta!... a Gaeta!... –»

E intese un cozzare di spade – e vide un campo seminato di cadaveri – e la divisa dei soldati francesi. E udì una campana, e la maledizione di una turba che ripetè per tre volte: «– a Mentana! –»

E gli parve udire un sussurro lontano, che mano mano andava crescendo; e poi come il sordo bisbiglio di una folla che faceva ressa al Castel Sant’Angelo; e poi gemiti e pianti, e un grido soffocato, e un rumore strano come di due teste che rotolassero sopra un palco; e la stessa voce che per tre volte ripeteva: «– a Monti e Tognetti! –»

E quel vecchio, implorando pietà, si volse all’immagine di un Cristo, sul quale si fermava l’unico raggio di luce di quella nuvola rossa che andava dissipandosi. E quel Cristo col capo ripiegato sulla spalla sinistra perdonava ai suoi crocefissori…

E le ombre si addensavano sempre più… E quel silenzio e quella solitudine in mezzo a quelle sedicimila camere gli stringevano il cuore. E lui che aveva tanto amato nella sua gioventù, e avea benedetto migliaia di uomini nella vecchiaia, dubitò un istante di essere amato e benedetto!

 

***

 

E l’orologio misterioso battè nove colpi che trovarono un’eco nell’ampie volte del Vaticano, dove regnavano le tenebre più fitte.

Roma riposava – mille e mille facelle tremolavano sopra quell’immensa massa nera. Il Tevere, come la lama forbita d’una scimitarra, frastagliava l’eterna città colle sue tre grandi curve. Il popolo dormiva – e il Papa vegliava.

E tutto era silenzio. Non spirava alcun vento. Nel superbo giardino del Vaticano non si moveva una foglia. Il Tevere gorgogliava in lontananza.

E dal Quirinale partì come un lamento che pervenne all’orecchio di quel canuto. – E quel lamento diceva:

«– Nella dimora dell’ultimo Papa, è testè morto il primo Re! –»

Due lagrime improvvise velarono gli occhi di quel vecchio – chinò a terra la rugosa fronte – e ricordò d’essere italiano!

E dopo essersi voltato per assicurarsi che era solo, e che nessuno lo spiava, alzò tremante la mano… e benedisse il Quirinale.

Povero vecchio! chi potrà vantarsi di dare un retto giudizio sulle tue azioni? Chi mai scrutò i segreti palpiti del tuo cuore? Chi penetrò mai nei misteri della tua anima? Chi mai potrà pretendere di conoscere le tue volontà?

Fu detto che l’uomo lascia tutto sulla terra, poiché lo spirito ritorna nudo al regno delle anime. Ma non è vero! L’uomo porta molti segreti nella tomba!

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***

 

E la luna apparve fra le nubi, e mandò un mesto raggio sul Quirinale. Indi disparve per compiere il giro del mondo; e ricomparì un’altra volta allo stesso punto per risplendere mestamente sul Vaticano.

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         Dalle imposte socchiuse del Quirinale si vedono cento ceri accesi intorno ad un feretro sul quale è una Corona di Re:

         Cento ceri ardono attorno ad un feretro sormontato da una Corona di Papa, nel Vaticano.

Una bella Principessa, bionda come un raggio di sole, sorretta da un giovine baldo e forte, entra in una sala del Quirinale per deporre l’ultimo bacio sulla fredda fronte di Vittorio Emanuele II.

E nel Vaticano un Cardinale con un martelletto d’argento percuote tre volte la fredda fronte di un cadavere gridando: «– Pio IX!... Pio IX!... Pio IX!... –»

Il Re non rispose al bacio dei figli;

Né il Papa rispose alla voce del Camerlengo.

 

***

 

Ben rispose all’alba un’onda di popolo che faceva ressa alle porte del Quirinale:

«– Viva Umberto I! –»

E a quel grido ben rispose, come un’eco, un’altra onda di popolo che faceva ressa alle porte del Vaticano:

«– Viva Leone XIII! –»

 

E due ombre coronate attraversarono silenziose lo spazio, e andarono a confondersi colla nebbia del mattino.

E il sole, col suo bacio di fuoco, dissipò quella nebbia.

E la natura continuò regolarmente il suo corso!

Dio solo è eterno! – i Pontefici e i Monarchi passano rapidamente sulla terra, come passano in cielo le nuvolette sospinte dai venti.

 
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