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ENRICO COSTA


Il Torquato Tasso al Teatro Civico di Sassari
Enrico Costa
Il Torquato Tasso venne rappresentato la prima volta a Roma nell'autunno del 1833. Prima di questo spartito Gaetano Donizetti aveva già scritto 38 opere, e al Tasso tennero dietro altre 28, fra le quali tutti i capolavori. La fecondità nel comporre del maestro Donizetti ha del meraviglioso, tanto più quando si pensa che un uomo in sua vita avrebbe appena il tempo di copiare materialmente le composizioni del cigno di Bergamo.
Non potendo negare la fecondità straordinaria di questo maestro, molti scrittori lo tacciarono di trascurato, ed Heine, fra gli altri, si lasciò sfuggire, che il celebre Bergamasco partoriva come il coniglio. Eppure nessun maestro ha mai tanto curato i più minuti particolari d'uno spartito! Il Torquato Tasso, per esempio, gli costò molto studio, e questo lungo studio (a quanto ne dissero i critici) fu probabilmente la causa di un certo difetto di spontaneità e di fusione che si riscontra in questa opera - difetto che largamente è compensato dall'imponenza di alcuni pezzi di magistrale fattura e dalla maestosa impronta che nell'ultimo atto ha saputo dare all'infelice cantore della Gerusalemme. Se il Donizetti studiasse i libretti, prima di musicarli, lo vediamo appunto nel Torquato Tasso. In una lettera da lui diretta al maestro Mayr, nel Maggio del 1833, si legge:
«Indovina che cosa scrivo? - Il Tasso! - Lessi Gueter, Rosini, Goldoni, Duval, Serassi, Zuccala, e le ultime cose del Missirini... e da tanti, e tante cose, alle quali aggiungo ora quelle del Colleoni, ne formo un piano, e da questo un'Opera.»
E cinque mesi dopo, l'opera era già sulle scene del teatro Valle di Roma!
Un giorno (racconta un testimonio oculare: il Ciconetti) mentre Donizetti era in casa, in mezzo ad un'allegra brigata di amici, coi quali conversava, interruppe subitamente il suo discorso ed uscì dalla camera. Quando, dopo una mezz'ora, rientrò, gli fu chiesta ragione della sua assenza, ed egli rispose: - Ho composto il finale del primo atto del Tasso. Il pezzo concertato più superbo di quell'opera!
E quest'uomo instancabile, pochi mesi dopo il Tasso, componeva in soli quarantacinque giorni la Lucrezia Borgia, colla quale appunto Donizetti inaugurava la sua seconda maniera. Fino al Tasso egli aveva preso per modello i sommi maestri, e specialmente il Rossigni - dopo il Tasso però egli si emancipò, creando una nuova scuola che lo rese gigante fra i suoi competitori.
I personaggi del Tasso sono tutti ben delineati, ed il carattere del Don Gherardo è messo nell'opera quale il solo Donizetti sapeva e poteva metterlo. Nessun genio, all'infuori di Donizetti, ha mai osato innestare un carattere eminentemente comico in mezzo alla scena la più drammatica - pensiero arditissimo, tanto più ove si consideri che una parte buffa può compromettere una situazione seria, per la ragione che l'uomo ride più facilmente che non si commuova. - Eppure Donizetti ha posto Don Gherardo a fianco di Torquato - il Marchese a fianco della Linda - Kaidamas a fianco del Furioso, e Dulcamara a fianco di Nemorino! - e tutto ciò, non solo senza pregiudizio dell'azione, ma traendone anzi un pieno effetto.
Il Torquato Tasso è un'opera di antichissima fattura; quindi vi si riscontrano i rancidi recitativi, le convenzionali e tanto ripetute caballette, ed in ultimo le interminabili cadenze: tutta roba che non ha più le grazie del pubblico - ed il pubblico non ha forse torto. In compenso però il Torquato è così ricco di soavi melodie, di stupendi finali concertati, e di pezzi imponenti, che, nostro malgrado, siamo costretti a meditare sulla povertà melodica delle opere moderne, il cui pregio è ordinariamente riposto nei rigori del contrappunto e nella soverchia ricercatezza dello strumentale. La musica del Tasso ci ricorda quella dei Puritani - musica dolce, patetica, soave. Nei due duetti tra Torquato ed Eleonora, e in tutto l'atto terzo vi è qualche cosa di divino che vi rapisce e vi stringe ad ammirare le segrete bellezze di questo spartito di Donizetti.
Con molto impegno e con amore ritrae il baritono Belardi la parte del protagonista, e gli son dovute le meritate lodi - pure non posso dirgli che egli non lascia nulla a desiderare. Il personaggio di Tasso per imponenza non ha forse riscontro in nessun altro spartito. La parte del Tasso vuole uno studio tutto speciale - studio lungo, accurato, profondo.
Non è questione d'interpretazione, poi che il Tasso non può interpretarsi - è questione di pura creazione. La perfezione di questo carattere non si ottiene con una bella voce, non con un canto inappuntabile, non con una scena accuratissima; - il prestigio è tutto riposto in un certo non so che: in quella febbre dell'anima che caratterizza il genio: in quell'alterezza nobile e dignitosa inseparabile dall'uomo grande colpito dalla sventura: in quel sorriso sereno che è indizio di fermezza d'animo e di fede immensa nella scintilla del proprio genio! Non tema il signor Belardi, io non gli faccio molti appunti - la colpa non è sua. La figura del Tasso è troppo grande per la scena - essa deve spaventare un artista. Ci basti che quella memoria fu evocata dalle melodie di un altro genio infelice... Non cerchiamo di più!
Ritrarre il carattere di un uomo grande sulle scene parmi impresa ben ardua, quantunque Paolo Ferrari, difendendo la sua Poltrona Storica (in cui ha voluto rappresentarci l'Alfieri) abbia detto che prima di essere genii, i Grandi sono stati uomini ed hanno avuto tutti i difetti comuni ai miseri mortali. Il Ferrari ha ragione, ma il pubblico non ha torto. Fin dal giorno che un popolo ha posto sul piedestallo un genio, ne ha idealizzato la vita, e lo ha veduto poi mal volentieri comparire sulla scena col piccolo fardello dei vizi e delle debolezze inseparabili dall'umana natura; e forse con ciò il popolo ha voluto rivendicarne il nome dall'oblio e dal troppo disprezzo onde aveva trattato il povero Grande mentre era in vita. Il fatto sta che, a ragione od a torto, il pubblico non volle riconoscere l' Alfieri del Ferrari e tanto meno il Parini. La figura del primo scomparve dietro una Poltrona, la figura del secondo venne completamente nascosta dallo stupendo carattere comico del Marchese Colombi. Vi è poi un'altra ragione (taciuta dal Ferrari) e questa riguarda il ritratto fisico. Dove trovare un buon attore od un buon cantante che (per quanto si trasformino) possano ritrarre la fisionomia di quei Grandi i cui ritratti sono ravvisati fin dai bambini? Chi potrebbe ritrarre sulla scena il tipo di Dante, di Parini, di Alfieri e di Tasso?
Chiedo perdono della digressione e passo subito a parlarvi brevemente dell'esecuzione di quest'opera al Civico.
Il pubblico in generale non mostrasi soddisfatto dello spettacolo per due ragioni - la prima perché il libretto è povero di situazioni drammatiche e di quei tableaux che, volere, o non volere, colpiscono lo spettatore - la seconda che il Tasso è più un'opera di sentimento che un'opera d'ottica e di plastica, per cui esige un'esecuzione perfetta... e quest'esecuzione noi non l'abbiamo. In quei canti vi è troppa durezza, quelle note sono troppo staccate, manca il vocalizzo e quelle agilità richieste dal genere della musica. Quei pezzi concertati sono incertissimi, e in modo speciale il finale del secondo atto lascia molto a desiderare per intonazione. Tutti gli artisti nel Torquato Tasso sono spostati. La parte del baritono è troppo faticosa, ed è impossibile che un artista possa disimpegnarla. Il tenore ha una tessitura troppo acuta. La contralto è costretta a cantare da mezzo soprano sfogato e quindi non può fare sfoggio delle note basse. Insomma, l'unico artista a posto parmi il Baldelli nella parte di Don Gherardo - ed anche il coro è degno di lode. - Del resto la messa in scena è discreta, l'orchestra più che discreta, e il vestiario bellissimo.
Intanto, prima di finire questa rassegna (o meglio storia dell'opera Torquato Tasso) devo mettere in evidenza un fatto che riguarda il Donizetti, e che parmi degno di serio studio e di profonda meditazione. In tutte le opere di Donizetti i pezzi magistrali e più spiccanti son sempre le scene in cui si descrive o si accenna la pazzia; - la pazzia di Linda, la pazzia di Lucia, la pazzia del Furioso, e per ultimo l'entusiasmo febbrile del Tasso. Donizetti, nella pienezza della sua ragione, nella potenza del suo genio, tratteggiava con evidenza i pensieri e gli affetti umani attraverso le fitte nebbie d'una mente smarrita. Pareva quasi che egli prevedesse il suo triste fine! - pareva che già presentisse quella terribile infermità che dovea spegnere per sempre il suo intelletto! - pareva infine che una voce arcana e misteriosa gli susurrasse all'orecchio:
«Lavora, Donizetti! lavora senza tregua! lavora senza riposo! perché le porte del Manicomio d'Ivry si chiuderanno per sempre dietro di te!»
E da ciò, forse, la fecondità straordinaria dell'autore della Lucia di Lammermoor.
 
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