HOME
 
CHI SIAMO
 
PUBBLICAZIONI
 
AUTORI
 
PERIODICI
 
DIDATTICA
 
LESSICO
 
BIBLIOGRAFIA
 
RECENSIONI
 
EVENTI
 
CREDITS
Vai all'indice di questa sezione

ENRICO COSTA


Raffa Garzia. Enrico Costa
Enrico Costa

Cittadini di Sassari,

mi è vivo nella mente – e tale vi resterà sempre – il ricordo di quella sera. Egli era venuto a Cagliari per riposarsi nell’affetto dei suoi carissimi, nelle ricordanze del passato, per dare – e non lo sapeva – l’ultimo addio a quelli amici della giovinezza coi quali avea sognato e sperato. Vecchio? no, né cadente; ché anzi era nella sua fibra come un’energia nuova, quasi che le memorie ridestantisi sotto il cielo di Cagliari, col linguaggio loro di cui cuor di poeta intende più d’ogni altro la dolcezza, gli riavvampassero l’anima delle antiche fiamme: e lo sguardo suo lampeggiava di quell’onesta fierezza e sorridea di quella bontà grande che furono sempre le sorgenti piene e limpide della sua esistenza morale. Quella sera egli venne tra noi, insegnanti dell’Istituto Tecnico e membri della “Società Storica Sarda”, che il Preside, prof. Ghera, avea raccolto per salutare l’uomo modesto che delle energie dell’ingegno faceva bella la sua terra. Convenimmo nella biblioteca della scuola, e là, prima ancora che Egli venisse, ci apparve dinanzi una vita mirabile, vita di pensiero e di lavoro, solenne e sonora come il canto del lavoratore del campo, il cui ritmo dovea certo aver foggiato con possa tenace una virtù d’amore per la patria: poiché erano dinanzi a noi, invidiabile simbolo pazientemente composto dall’affetto del suo concittadino che era ed è nostro capo, tutte le opere di lui, dalle prime cose in versi del ’68, agli ultimi lavori storici della maturità: quarant’anni di operosità varia, molteplice, intensa che ispirava all’animo nostro la parola dell’ammirazione e diceva in cuore tutta la poesia che racchiude una fede che si vive e si serve con pura devozione. Quella poesia sentì anch’Egli – forse mai come quella sera – quando vide l’omaggio gentile: quando colse nella nostra gioia d’essere con lui l’intimo senso di reverenza per la sua ben lunga veglia di fatica; quando intese che noi sapevamo, che noi si capiva perché s’erano incanutiti i suoi capelli, perché nell’occhio suo fosse il timore della vecchiaia sopravveniente, nemica dell’opera cui mancava l’ultima strofa, la più luminosa: e nella commozione che lo colse dallo scrittore si disvelò a noi l’uomo: allora tutt’intiero, letterato operoso, carattere forte, animo buono conoscemmo in quella sera Enrico Costa.

Oggi, a poca distanza di tempo, siamo qui a ricordarlo: in questa Sassari sua, cui dette il palpito più alacre del suo spirito, della quale visse così intimamente la storia da farne parte necessaria della sua vita intellettuale, che amò com’Egli sapeva amare; - qui, pellegrini della religione della patria che esalta le sue glorie, e sventola al sole con orgoglio le bandiere dei suoi eroismi, fiera di sé e dei suoi figli. Non il pianto sterile dei deboli, né l’invettiva al destino dei timidi; ma l’impeto gagliardo e sacro d’una gente che nella sua corsa millenaria seppe la sventura e ha la certezza della vittoria: ma l’esaltazione cosciente e franca delle sue forze mai dome, o fiaccate dalla fatalità. In Lui, in Enrico Costa, oggi, si assomma il grido di migliaia d’anime che dei loro morti possono farsi serti di onore, che agli eroi rappresentativi della loro possanza possono accender fuochi di gloria per rischiarare il cammino dei venturi fino alla mèta. Diciamola dunque ai monti rocciosi della Gallura e di Monte Acuto, del Goceano e della Barbagia, alle piane sconfinate della Planargia e del Campidano, del Sarrabus e della Marmilla, ai cieli di fiamma dell’Ogliastra e alle marine cerule del Sulcis, ai cuori che sognano e a quei che sperano, diciamola la vita d’uno dei nostri, la sua fede, la sua fatica; quantunque non ignota a uno dei Sardi, quantunque il nome suo desti fremiti d’orgoglio e di gratitudine in quanti videro tutte le bellezze di quest’isola illuminate dall’arte sua sincera e schietta, il rammemorarlo or che si compie l’annuale dalla morte non sarà solo onoranza al Valoroso ma cerimonia di civile virtù.

Grazie a Voi, cittadini di Sassari, del consentimento ospitale a chi non ha altro merito che di sentirsi Sardo e di aver voluto e volere la Sardegna nostra quale deve divenire da sé e per sé: grazie per la cortesia onde la Vostra accoglienza si fa bella in un significato di fratellevole affetto. Voi tutti perdonerete chi a Voi viene protetto dalla benevolenza con la quale Egli concesse al giovine da lui dissenziente le impazienze della gioventù: e nel suo ardimento ritroverete solo – ché grande, e lo so, è la Vostra gentilezza – il desiderio del cittadino di unire la sua alla voce che suona debita onoranza ai maggiori.

Disse bene di lui uno storico egregio poco dopo la sua morte: non fu in Enrico Costa, fra la vita pratica e quella strettamente intellettiva, uno sdoppiamento o un contrasto; l’una s’accordò con l’altra, rinsaldate dalla brama del lavoro che desse all’uomo l’indipendenza materiale e allo spirito il nutrimento prima, la gioia poi del sapere. Giovinetto seppe il dolore e conobbe la povertà, ma delle sofferenze si purificò nello studio: il quale dovette temprarne lo spirito siffattamente da ritrovarvi conforto per il presente e lume per l’avvenire. Io mi penso che in esso sin dalla prima giovinezza Egli vedesse chiaro il cammino della sua vita: poiché lo percorse senza disviarne mai, con passo diritto e sicuro, con l’occhio esperto della strada e consapevole del suo termine: onde un’armonia sola d’intendimenti e di opere, svoltasi con mirabile saggezza, che dalle prime note modeste quasi timide si fece via via gagliarda, e, allargando la tessitura, fondendo i toni e le voci, affrettando i tempi assurse a un impeto bello di sonorità, a un’alta significazione ideale. Vedete: nella novella e nel romanzo, da Paolina, un racconto semplice nel disegno e nella forma, si va su su per i Bozzetti e le Rovine di Trequiddo, al Muto di Gallura, alla Bella di Cabras, ai Racconti, a Rosa Gambella, più meditate, dov’è esperienza d’arte, certo dell’arte sua è segno manifesto di maturità; - nella storia dal primo volume del Sassari, traverso ricerche sempre più sagaci, induzioni che acquistano di volta in volta in ardimento e lavori di piccola mole, al concepimento organico, compiuto, quadrato del secondo volume che l’altro rifà veramente. E così con quest’opera egli congiunge i capi del cerchio d’arte rappresentativa, sincera che aveva voluto dedicare alla esaltazione della sua terra e nel quale avea partitamente, passando da una all’altra regione, e con la poesia, e con la novella e col romanzo, racchiuso tutta l’isola: l’affetto che ebbe più caro – la sua città – gli dà la meglio lega per saldarlo armoniosamente. Altrettanto nella vita: l’ascesa lenta, tranquilla, continua che non conobbe riposo, da uno ad un altro officio, fosse privato o pubblico, raggiunse il termine degno della sua attività studiosa, e si compose della serena dignità dello storico che trae dal passato gli ammaestramenti per l’avvenire. Una rispondenza, dunque, sempre piena tra le molte tappe del suo quarantenne viaggio, che non sarebbe stata né noi ne potremmo ricavare oggi la più bella lode per la dirittura della sua mente, se non l’avesse guidata la luce chiara e viva d’un’idea: quell’idea della bellezza e grandezza della patria che doveva essere rivelata ai suoi stessi figli che l’ignoravano, e illustrata con palpito d’amore e senso d’arte - e non l’avesse prima preparata con vigilia studiosa, attenta certo ed intensa.

Nei quasi tre lustri che corsero da quando a quattordici anni lasciò la scuola alla pubblicazione dei primi versi, il giovine dové educare all’arte la sua mente: e se le prime prove sentono dell’esordiente, dimostrano pure che quel modestissimo impiegato che ammucchiava numeri e faceva conti, s’era già scelto una forma estetica o per lo meno ne avea assimilato l’indole. Ciò per la prontezza del suo ingegno, abile a cogliere i diversi aspetti delle cose e a provarsi nei vari generi: una versatilità manifesta in tutta l’opera del Costa che spiega perché dalla poesia passasse alla novella, e l’amena letteratura accompagnasse con le discipline erudite. Oggi cotesta dote dell’intelletto s’è fatta rara, o rara l’abbiamo fatta noi con la cosidetta specializzazione (temo sia barbara la cosa quanto la parola) che divide come a spicchi d’arancio il campo delle attività mentali e agli orizzonti dello spirito ha posto tante siepi che quegli che è di qua da una di esse per quanto faccia non riesce a vedere qualche cosa al di là. Un eccesso questo come quello, è giusto riconoscerlo: ché in meno rivoli si sperde l’onda d’un fiume, più forze conserva, più provvidenza apporta; ma un temperamento del bello col vero è pur diletto allo spirito, e l’uno giova all’altro quanto l’olio di cedro ai codici della poesia d’Orazio e di Catullo.

Il che avvenne al Costa: non v’ha dubbio che se in più stretti confini avesse limitato il suo lavoro, maggiore eccellenza avrebbe attinto: ma è da riconoscere che alla eccellenza nell’arte si arriva col contributo di molte generazioni, che a grado a grado salgono, e che al Costa la sorte aveva conteso di poter attendere agli studi con quella serenità e con quelli strumenti che sono necessari per approfondire i solchi segnati nella mente; non basta guidar l’aratro se non si ha tempo o modo o non si sa affatto premer sulla stiva perché più capace e più vergine il seno della terra accolga il buon seme: e purtroppo a noi Sardi niuno insegnò in passato l’arte di coltivare le immense distese dei nostri piani. Ed è questa – se non m’inganno – la ragione del perché i fiori dell’opera nostra letteraria bene non allignano, né eccellono: quanti tesori di energie fresche e feraci sono in noi e come si sperdono o si sciupano perché non v’ha chi li éduchi! Oh! se vivace è l’intelletto nostro, se d’alto volo è capace, se ha in sé le virtù fattive dell’opera d’arte! Esso è ancora in tutta la sua sacra verginità: ne ha i fremiti misteriosi, sente le ansie arcane di ignote gioie, intravede lontane fiamme luminose che chiamano e attendono: e dà germogli che restan virgulti, dà fiori che son di campo, vegeta e odora come il piano sterminato di cisto e di lentischio sotto il sole di Messidoro. Ma non vien su la selva canora che mormori od urli e spanda la sua voce e affidi ai venti le sue canzoni perché vadano lontano oltre i mari: vestirono esse un tempo i dorsi di questa terra solitaria, e forse allora le melodie selvagge della prima gente rampollarono dall’anima fieramente: oggi – fatale accordo di leggi eterne che non dovrebbero essere violate dalla passione dell’uomo - son brulli i monti e brulla è la nostra vita spirituale. Tutto ciò che abbiamo creato è miracolo di natura, la quale ha bisogno di amare e di generare: ma i segreti della sua bellezza li ritroveremo solo quando avremo imparato a cercarli. E a questo si dette il Costa; al quale d’altra parte non si può rimproverare di non averci precorso con audacia di innovatore. Ché, come dissi, ben limitati furono gli studi che poté compiere da sé, privi affatto di quella sostanza che arrobustisce e riscalda dell’arte classica; eppoi non poté uscire dalla sua isola e mischiarsi con altre vite: Egli dovette seguire il tempo e alle forme allora predominanti ausare il suo ingegno. Donde il romanticismo spiccato che è in tutta l’opera sua.

Già; per quel concetto mio che ho accennato sulla presente natura dell’operosità letteraria isolana, è facile intendere che il romanticismo non può a questa non essere ingenito. Ogni letteratura nelle sue origini è romantica, se romanticismo vale espressione spontanea e facile dei sentimenti comuni a tutto un popolo, fatta senza gli artifizi che le tolgano con le fronde la naturalezza, ma in guisa che ciascuno vi ritrovi se stesso: o la stessa letteratura classica non dovette nei suoi primi passi esser romantica? O non è romantica tutta la letteratura popolare, anche quella d’oggidì, per la perenne fonte di poesia e d’arte che fiorisce di conforto e di bellezza la vita dell’umanità? Non è sano romanticismo nel canto dei pastori di Gallura o dei montanari di Logudoro quando esprimono la passione d’amore e effondono in imagini fresche e luminose il loro cuore ancora pieno di fremiti selvaggi? O come chiamarla se non romantica la poesia di Sebastiano Satta che canta le bardane e racconta i colloqui dei boschi elcini e rapisce all’Ortobene e alla cima ventosa di Gonare le loro leggende, e la scultura di Francesco Ciusa che ritrae il dolore della madre dell’ucciso con la più schietta verità? Direte che arte e romanticismo allora si equivalgono, ed è così o quasi: ché se a noi riesce difficile ad ammetterlo gli è solo perché di codesti ismi abbiam fatto delle scuole e vi abbiamo distillato le teorie che la saggezza dei secoli ci concesse di raccogliere, quelle teorie che hanno per iscopo la bellezza e vogliono all’opera dell’ingegno umano dar sembianze che paiano copia dal vero: gli è perché sappiamo che in un dato momento storico al classicismo di cui c’è nota la natura si contrappose il romanticismo; ma questo non fu altro che la teoria del fenomeno artistico originario al quale si dovea fatalmente ricorrere per rinfrescarsi e rinvigorirsi dopo le maravigliose creazioni che avevano attinto il culmine del Bello, concepita da noi con tutte le dovizie del nostro ingegno e della secolare esperienza, e divenuta forma d’arte. Naturalmente tra popolo e letterato è una distanza: e l’espressione artistica dell’uno sarà tanto ingenua e semplice quanto meditata e elaborata sarà nell’altro: la prima poco o niente cambierà, mai, senza speciali ragioni – l’altro e dal temperamento individuale e dalle circostanze e dal tempo trae sempre un carattere che si sovrappone a quello del popolo, dal quale sorge il letterato. Gran ventura se non lo snatura del tutto: ed ecco il segreto di ciò che sentiamo di bello nel verso di Sebastiano Satta, nel marmo di Francesco Ciusa, nel romanzo di Grazia Deledda: ma è fatale che l’artista, pur volendo essere popolare nella vera accezione del vocabolo, dia all’espressione di ciò che ha visto entro e attorno a sé un’impronta sua propria, frutto dello studio e della preparazione nella quale s’è fatto.

Il Costa venne educando l’ingegno suo quando del primo Romanticismo – quello d’Alessandro Manzoni – si spengevano gli intensi bagliori, e gliene succedeva una seconda forma che alle virtù dell’altro più non bastava e doveva contentarsi, per rubare imagine d’altri, delle briciole del grande banchetto. Succede sempre così: gli epigoni vivono dei difetti dei maestri, e nel coltivarli, ingrandirli, renderli mostruosi pongono il segno della loro valentia, non avvedendosi che al fenomeno vitale è successo fatalmente quello morboso e che adempiono per tal modo il compito pietoso sì ma non illustre di necrofori. Son cose note perché non lontane da noi, ché ieri si è spento il Grande che li sferzò spietato e dalla miseria nella quale l’avevano costretta fece risorgere la poesia nostra: ciò che era delicatezza di sentimento divenne languore e si pervertì in commozioni che toccarono il ridicolo; la naturalezza cedé il posto alla maniera, gli idealismi divennero vuota metafisica: un periodo insomma di vera degenerazione artistica (come si è soliti dire), dalla quale ben pochi si salvarono. E furon quelli che in cotesto Romanticismo bolso e malato trovarono un’eco che rispondeva alla bontà onde era materiato il loro spirito, e la cui esuberanza volevano effondere in opere che a bene mirassero; esempio Felice Cavallotti, romantico in arte perché tale nella sua natura e Edmondo De-Amicis, al quale fu fatta la più vera lode col chiamarlo “lo scrittore della bontà”. Chi di voi non sa l’affetto immenso che il popolare autore del Cuore ebbe pei suoi, l’adorazione che sentì per la mamma sua, chi non ne ricorda i versi teneri, direi anzi soavi? E a chi a lui non ritorna leggendo questo sonetto?:

Li sento ancor! – nell’anima li sento

quei sordi colpi dati sulla bara!

Tristo annunzio per me! – da quel momento

più non rividi la sembianza cara.

Li sento i passi e le voci straniere

giù per le scale!.. e poi la salmodia

del prete, che intonava il miserere

quando il convoglio scantonò la via…

Tristo momento! – sotto a la Madonna

ardeva ancor la lampa: e i miei bambini

dietro l’uscio chiamavano la nonna…

Ma la nonna quel dì se n’era andata

lasciando per ricordo ai nepotini

gli occhiali ed una calza incominciata…

Sono versi di Enrico Costa: poesia buona, venuta dal cuore. E se v’è chi ricorda le Lacrymae di Giuseppe Chiarini in cui disse lo strazio del padre per la morte del figlioletto, ne sentirà l’eco chiara – non perché imitata, ma perché generata da uno stesso artistico stato d’anima – in questi versi “a una bambina” che rassomigliava tanto alla sua Elvira morta a quattro anni:

Curava anch’essa con materno affetto

una bambola, dono della nonna;

e la metteva a letto

recitando le preci alla Madonna.

Tenendola vicina

la chiamava col nome di sorella;

con essa si svegliava a la mattina

ed a la sera si addormia con ella.

Quando ti vedo andar co’ libri a scuola,

cerco sempre al tuo fianco

la mia bionda figliuola

col nastro rosso e l’abitino bianco;

ed a la svolta d’una nota via

mi par teco vederla in sul balcone;

ma è inganno, è un’illusione:

sola tu sei… non c’è la bimba mia!

Volete la bella Bohême romantica che non è di Murger né di Giacosa, ma di chiunque ebbe una gioventù?

La Nina ha un bel visino che innamora,

e bionda ell’è come le spiche in giugno;

ha due bianche manine da signora

e due piedi che stanno nel mio pugno.

Da un sottil nastro di velluto nero

le pende al collo una crocetta d’oro.

Dolce ha lo sguardo, il portamento altero,

ed ama il canto, il riso ed il lavoro.

Un cardellin che tutto il di gorgheggia,

una macchina inglese da cucire

e pochi arredi, forman la sua reggia

in tre stanzucce da dugento lire.

Nina sta in casa con la vecchia nonna

(che è cieca) e con un biondo fratellino.

Va a messa il dì di festa – e alla Madonna

ogni sabato accende il lumicino.

Se un giovine l’adocchia, o una parola

le sussurra all’orecchio, ella, commossa,

serra lo scialle, aggiusta la pezzuola,

affretta il passo, e si fa rossa rossa.

Poesia non tutta spensierata questa, come farebbero credere i versi che ho letto: v’è anzi poi una nota profonda di dolore, di quel dolore che piange le miserie umane che sono tante, e tanto oscure, e assai tristi. La povera sartina finirà nel fiume, il suo poeta all’Ospedale, mentre la ricca dama che le abita d’accanto e che si sfogava con la sarta perché non le aveva schiuso abbastanza la veste, si sposa un generale. E non questa solo: leggete Il piccolo saltimbanco e sentirete il sarcasmo del poeta per l’ingiustizia sociale che vuole una vittima pei suoi svaghi. Romanticismo, sì, e nella fattura del verso, e nelle imagini, e in tutto il componimento: ma non di maniera; ed egli ne ebbe coscienza: sì che nel raccogliere nell’”autunno” della vita i suoi versi li dicea “generati da senso di dolore” e domandava che li perdonasse quell’amor stesso che li avea concepiti. Egualmente, per la passione per la musica che dovette avere grandissima e che gli dette la fortuna di aprir coi versi del “Davide Rizio” le vie della nominanza a un suo concittadino ch’è pura gloria di Sardegna e dell’Arte, Egli dedica il suo canto a quei che del romanticismo nella musica furono i più sinceri interpreti, il Bellini e il Donizetti: ma della loro vita così tumultuosa coglie quei momenti supremi di dolore che furono come il lavacro delle molte passioni dei loro spiriti: pel Donizetti la fase ultima della pazzia che interruppe per un istante la divina melodia della Lucia, pel Bellini la morte nel bacio della donna amata.

Vi sono dunque le lagrime nei versi del Costa: e sono più amare, dànno vita a forme più squisite nella loro sostanza ideale se non nella veste esteriore, trasandata spesso specie per la tecnica, quando si nascondono sotto il riso. Un carattere originale, questo, dell’arte sua che è proprio del popolo dal quale nacque: è di voi, Sassaresi, la nota mordace che coglie delle cose l’aspetto meno serio, non per sollazzo o per spirito malvagio ma per indole mentale alla quale poi s’è prestata la lingua, tanto da ricavarne speciali atteggiamenti formali che altrove, nell’isola stessa, non si ritrovano: tale indole io credo si sia formata per senso immediato della realtà: epperò è nella vostra poesia il vero umorismo. Ed è quindi nel Costa: ride spesso e bene. Come non ammirare “Le quattro età della politica”?

NELL’ADOLESCENZA

(s’è sul piazzale e la triplice accende gli animi)

Due schiere di minuscoli scolari

vengono a sfida, uscendo da le scuole.

Buttati a terra i libri e i cartolari

si prendono l’un l’altro a sassaiuole.

Un dice: – Il re son io degli italiani!

E un altro: – Imperator son dei tedeschi!

– Alle armi, dunque! – E qui botte da cani

con pugni, calci, e chi ne vuol ne peschi!

Nell’aspra lotta fu l’Imperatore

ch’ebbe la testa ed i calzoni rotti:

il re fu salvo, e salvo il patrio onore.

Ma il Preside, piombato in sull’arena,

al vincitor diè quattro scappellotti,

e al vinto un calcio dove muor la schiena.

 

II. NELLA GIOVINEZZA

(Al Caffè – Contro i monarchi)

Una schiera di giovani spavaldi,

serrati in crocchio attorno a un tavolino,

strapazzano Mazzini e Garibaldi

tra il fumo delle pipe e il bicchierino.

– La Monarchia ci guasta! – dice l’uno;

– …E ci tarpa le idee (grida il secondo)

come ai bei tempi di Giordano Bruno!

Danton ci vuole!! – esclama un furibondo.

E un altro: – d’un tiranno coronato

Siam le bestie da soma! – E dove andremo…?

– Capeto informi! – grida un esaltato.

– Ben detto!… ai re noi schiuderem le tombe!

– E come…? – Zitti! c’è un rimedio estremo.

– Le barricate? – No: meglio le bombe!

 

III. NELL’ETÀ VIRILE

(Si è nella sala sociale e si ferraglia… a parole contro gli avversari)

In sala angusta e poco illuminata

si son raccolti gli uomini più seri

a combinar la scheda combinata

dei nuovi Deputati e Consiglieri.

Tra il e il no tumultua l’Assemblea.

Più che di parte, l’odio di persona

gli animi scalda e accieca: una è l’idea:

Purché si vinca – e più non si ragiona.

– Mi promise un impiego, e avrà il mio voto!

– Mi negò cento lire: io mi ribello!

– Nei dazi mi osteggiò: dunque m’è ignoto!

Votiam Gilberto? – E un ladro, un vile, è malva!

– Che importa? egli è dei nostri: è un confratello

– Dei nostri? allora sì! – La patria è salva!!

 

IV. NELLA VECCHIAIA

(Alla farmacia – Contro i tempi presenti)

Lenti sfilando per la nota via,

a testa bassa, avvolti nel tabarro,

giungono all’ora stessa in Farmacia,

annunziati dall’asma e dal catarro.

Siedono gravi in giro ad uno ad uno,

sbirciando lo spezial che spalma unguenti:

sono essi i pensionati del ventuno,

ed è lor vita l’esser maldicenti.

L’un dice: – Or non si crede in Dio né in Santi!

L’altro: – A ben governar ci vuol la forca!

Il terzo: – E gli operai son governanti.

– Ma il re causa è di tutto! – un quarto dice.

– Perché? – Coi democratici ei si sporca…

– Tornasse il tempo di Carlo Felice!!

Il vostro sorriso dice chiaro che il poeta è stato efficace dipintore di verità: ma più ancora con “Lo Specchio della Verità”, i cento sonetti che ritraggono la vita d’un giornale. Per certa esperienza riconoscetemi in ciò giudice competente, e lasciatemi dire che il giornalismo di provincia è tutto in quella centuria gustosissima, dove passano le rubriche del giornale con tutti gli alti e bassi dei momenti buoni e dei cattivi, dei sussidi che vengono e di quelli che se ne vanno, degli umori felici e delle antipatie profonde: una vita triste la nostra, che può avere parvenze simpatiche ma che ci lascia giorno per giorno più scettici, più tristi. Ed Egli che era stato nel giornalismo lo sapeva: però gli vennero facili i quadretti umoristici. Se avesse fatto altrimenti, non sarebbe stato sincero: come fu, a proposito del verismo, la mortale eruzione pustolosa della poesia romantica. Quell’ismo non gli piaceva e non avea torto: v’era troppo ideale nell’anima sua, troppe bellezze scopriva l’occhio suo nella vita, o nebbia o sole che gli adugiasse o riscaldasse il cuore sempre schietto era il palpito suo, e pensava giustamente che non c’era bisogno di rimestare le cose turpi per offendere ciò che è grazia dell’Arte: alla quale non per niente si è attribuito il sesso femminino. E come è felice nella parodia degli stecchettiani! come bucano le sue punture di spillo! Non più: non era capace Egli di sferzare a sangue: “ho sempre professato rispetto verso le opinioni altrui e gli altrui sentimenti: e se risi e scherzai lo feci sempre senza fiele e senza rancori di sorta”. E alcuno, poeta, ti vorrà male del sorriso triste nel quale si specchiò la tua anima buona. Nessuna delle dodici città sarde gli serberà il broncio per le festevoli pitture che gli dettero qualche noia immeritata e che hanno per converso il merito raro d’aver osservato felicemente lo spirito d’ogni luogo che prese a tratteggiare con studiata disinvoltura e con fare largo e spigliato. Non era in lui dispregio per la sua terra: l’amava anzi teneramente: e alle accuse rispose bene: “Non è con le ridicole apologie né con le stupide adulazioni che si ama la patria! Riprovevole convenzionalismo…che noi Sardi dobbiamo intieramente lasciare ai deliri del secolo XVII”. Era la natura sua: o meglio la Vostra, o Sassaresi, che dovevate attribuirVi la paternità diretta delle arguzie leggermente beffarde che Vi toccavano. E a buon conto, quanto la licenza della “Caricatura” se la compra la naturalezza della descrizione e la buona pittura del vero! Cagliari di vent’anni fa è tutta in quella quartina:

Sui balconi foggiati alla spagnola,

tra i fiori e la distesa biancheria,

stan le fanciulle, e scambian la parola

con chi langue d’amore in sulla via.

E non è un quadro questa “agricola città” che “circondata di fonti e dolci rivi” giace prostesa

sovra un letto di pampini e d’ulivi?

E Oristano con le sue cornacchie e il paesano scalzo e raso in faccia che va a passo cadenzato, e Alghero la ciarliera città, balda ed arguta, e Iglesias, e Bosa, e Ozieri “neglettamente altera”… Tempio, Nuoro, Lanusei – carina tanto: Non può dirsi villaggio e non città né femmina né maschio; - è messa lì sotto una prefettizia autorità, non so perché, non come, né da chi! Siam venuti così ritrovando e segnando a larghi tratti – più non mi permetterebbe la Vostra cortesia – i caratteri dell’arte di Enrico Costa: romanticismo della seconda maniera, ma sincero e buono; nota mordace, originale e vivace ma non acre né intinta di malignità: la pittura di paese, nella quale se non abbonda sempre il colore e manca talora l’affinità che è pur necessaria tra lo sfondo e il primo piano del quadro, tra lo stato della natura e quello psicologico del personaggio che se ne stacca, è tuttavia il senso squisito della bellezza, ed è più che tutto una giusta intelligenza della natura isolana. Possiamo ora per tal guisa discorrere la sua opera novellistica e romantica.

Essa fu assai copiosa (e ciò nocque allo stile che da maggiore meditazione avrebbe acquistato certo correttezza e eleganza), e quasi tutta di carattere storico: e per quel che V’ho detto intenderete subito donde tale predilezione gli venisse. E quando anche la favola non è tale, quella cultura storica che s’era formata con gli studi dei nostri scrittori a cominciare dal Vostro Giovanni Fara – vero padre della storia sarda – gli prende la mano, e a torto o a ragione fa capolino fra le pagine del romanzo; come nella Bella di Cabras che racconta d’una povera tradita rimasta fedele al suo sogno d’amore e che a questo sacrifica la vita, ora Cabras, ora Oristano, ora l’antica Tharros dànno occasione a quelle divagazioni storiche delle quali dette l’esempio il grande Manzoni, ma che non è detto si dovessero imitare. Una sola eccezione: quella Paolina che ebbe fortuna ma che ha i difetti d’un primo lavoro. Già vi accennai: è un racconto semplice, assai tenue e la cui favola si stempera in una narrazione troppo prolissa, zeppa degli artifizi della scuola alla quale s’era tenuto troppo accosto. Fu scritto affrettatamente per l’appendice di un giornale: vi manca la misura. Del che si avvide lo stesso autore e ne scrisse a Filippo Vivanet nel dedicarglielo con l’arguzia che gli veniva spontanea:”Tu ben sai che, essendo io stato sempre in lotta con le cifre, ogni mio lavoro può dirsi nato tra un’addizione e una sottrazione. Non devi quindi maravigliarti se i miei parti risentono spesso di queste due operazioni aritmetiche: vi si trova sempre qualche cosa in più, e qualche cosa in meno.” Parecchio in più in Paolina, conveniamone: una divagazione sui partiti nei villaggi, vera, verissima, ma che nell’economia del lavoro è a pigione: un’altra sulla musica donizettiana che tradisce l’artista ma non giova al novellatore: e esuberanza di sentimento. Quanto dei languori della Maria di Aleardo Aleardi nella lettera di Paolina, nell’ultima segnatamente fatta nella notte che precedette il dì delle nozze: questa è maniera. Verità invece nel capitolo che descrive la morte dell’eroina, buona pittura di paese nella descrizione d’una festa campestre e del ballo tondo, qualche tocco felice nella figura d’un disgraziato, di Giovanni lo scemo. Lo dovettero a Victor Hugo in ispecie i romantici quell’essere a metà ch’è in tutta la loro letteratura: guai a mancarci; e non volle venir meno alla scuola anche l’esordiente: ma ecco l’uomo buono che ve ne fa una creatura di sentimenti gentili e vi invoca pietà facendola morire all’ospedale per una disgrazia. La stessissima cosa nella Bella di Cabras: un gobbo ci voleva, anche per certi effetti che giovavano allo svolgimento dell’azione: e ha da dipingerlo cattivo, petulante, odioso; ma è inutile: gli fa male quell’essere così costrutto e alla fine ve lo purifica nel pianto del pentimento, in un senso di pietà che desta in lui la morte della vittima un po’ anche dei suoi giambi velenosi.

Ma da Paolina e dai Bozzetti come si va su, presto e bene!: e Voi avrete inteso che se ho insistito nelle mende del primo lavoro è perché più chiara appaia la virtù che è negli altri. Con le Rovine di Trequiddo si inizia – mi pare – il suo apostolato artistico – tale io lo definisco – a favore della Sardegna. Oggi le cose son cambiate: ma allora! Qual dilagare di errori – i più per ignoranza – su questa povera isola: e con quale facilità la si battezzava barbara e si parlava di banditi, di aria malsana e di pericoli da non dirsi. A niente eran valsi i libri del La Larmora, più sardo dei sardi e incarnazione della vera amicizia: a niente i banchetti ai rappresentati del Parlamento venuti per scoprirci e i lirismi a fin di pranzo di Paolo Mantegazza; a niente le belle tradizioni letterarie che vantavamo con quel lucido intelletto di Giuseppe Manno la cui storia pregiò uno che sapea giudicare, il Manzoni; a niente il bel fuoco di patriottismo dato alla causa dell’indipendenza con nomi degni della corona di quercia – santa memoria di Efisio Tola! –, la generosa partecipazione a tutte le prove per la libertà, il sangue nostro per la patria, le battaglie geniali nel giornalismo letterario dall’indimenticabile Farfalla del Sommaruga alla Stella di Sardegna di Enrico Costa. Doveva pesarci addosso come cappa di piombo la leggenda della barbarie! Noi?… inerti, rassegnati: e non sorgevamo né ci ricercavamo perché l’un l’altro ignorava. A scuoterci, a mettere a sesto qualche circonvoluzione del cerebro di quei di là dal mare, valse l’opera di pochi: tra questi Enrico Costa. Egli sentì profondamente l’anima isolana: ne intese la poesia che la fa cara a chi la conosca, ne amò il patrimonio ideale: un amore continuo, fedele, che mai si smentì, con delicatezze che rivelavano l’animo gentile, con passione che manifestava l’artista vero. E ritrasse tutta l’isola: qua una regione, là un paese; ora una costumanza, ora una leggenda; eroismi di virtù e passioni malvage: il lato buono e il lato cattivo della nostra vita raccolta e oscura: copiando sempre dal vero, con sincerità tale che talora gliene venne un difetto, quello della minuzia, del più di cui scriveva al Vivanet. Ecco nel Muto di Gallura le leggende del Limbara, la vita degli stazzi, l’usanza nuziale dell’abbraccio: nell’Alla grotta di Alghero la descrizione di quella maraviglia: come nella Bella di Cabras la festa popolare sarda in campagna – le case rustiche – la peschiera di Mare Pontis - la festa di Sant’Efisio in Cagliari – gli sponsali in Campidano…. Proponendomi in principio di questo mio discorso di esaltare la sua memoria presso tutti i Sardi, accennai fugacemente alle regioni dell’isola che dovrebbero venerarla come la venerano; ebbene, le trassi da una prefazione a un suo romanzo, nella quale si vanta d’averle tutte illustrate. Di fatto non è in due libri la stessa scena: sempre aspetti nuovi, usi e costumi vari: tutte le luci di questa terra che è un inno alla Bellezza. E questo pensò di raccogliere in un libro solo negli ultimi anni: per la munificenza d’un editore che fu un galantuomo e un signore creò l’Album pittoresco che porta in fronte il nome di Margherita di Savoja: ma le strofe di quell’inno le avea ad una ad una tessute prima coi suoi romanzi.

Di questi, se il tempo me lo avesse concesso, avrei voluto dire con larghezza: mi è d’uopo invece ricordarli rapidamente. Voi li conoscete tutti: popolare divenne Il Muto di Gallura, dove la verità storica serve a artistica espressione della natura di quel popolo forte e leale: e conoscete i Viaggi sulle reti delle Primarie e delle Secondarie, nei quali il gaio novelliere dà la mano all’erudito: e le Roccie di Santa Lucia e Rosa Gambella ed Adelasia di Torres col paesaggio del Goceano reso con senso di poesia. Accenno, ché il tempo ne sospinge, e non posso per brevità far preferenze poiché uno compie l’altro e sono in ciascuno particolari qualità degne di attenzione. Converrà perciò che mi soffermi ai Racconti, una delle sue cose migliori, a mio giudizio. Li rilessi in questi giorni amorosamente, compiacendomi di riveder sembianze mai dimenticate e più che mai care a me ché per primi mi avean fatto conoscere lo scrittore. L’ho riveduto Il suonatore di violino, l’artista che ogni sera ad ora tarda diceva sul suo strumento il dolore che lo straziava per l’agonia lenta della sorella minata dal mal sottile: e i vicini sui terrazzini del cortile ad ascoltarlo con affetto. Per parecchie pagine lo scrittore non ce lo presenta: poi dalla pietà che desta l’infelice nasce il romanzo d’amore: una agiata ragazza sente simpatia pel violinista e gli getta sul terrazzino le gardenie: e al dono floreale si intreccia da parte di lui l’omaggio di una sonata poetica: ‘Il canto degli angeli’. Ma il destino incalza i disgraziati: la povera sorella si spenge, il violinista se ne va da Savona lasciando disperata la sua ragazza che solo col tempo si riconforta nell’affetto d’uno sposo autentico. Il racconto è finito? No: lui malato d’occhi diventa cieco e va in giro col violino a domandare pane: in un caffè una sera suona ‘Il canto degli angeli’, presente colei che quella melodia avea ispirato. Lo so: il critico qui scaraventa un ismo lesto lesto e Vi parla di sentimentalismo, di maniera, di fantasia malata: e potrà anche dimostrarvi di aver ragione ché le teorie son fatte pei critici e questi son nati per tenere in piedi quelle, come gli avvocati per la legge: ma chiunque sente, si commuove al racconto della tenera storia d’amore. E come mi crescono gli anni mi vado persuadendo che non l’arte solo, ma la vita tutta è romanticismo: poiché tutti si piange per il dolore nostro o per l’altrui, tutti si ama con la stessa tenerezza, le stesse letterine zeppe di sospiri, di lagrimette, di fiori appassiti, di giuramenti eroici e di proponimenti foschi alla Jacopo Ortis.

Curioso! - avrete detto fra voi – una novella del Costa in cui non è la nota umoristica! C’è, accennata sobriamente per non apparire una dissonanza: come c’è quella seria in eguale misura introdotta negli altri due racconti del Garofano e del Bombardone: due gioielli di umorismo. Proprio viva è la figura del povero sonatore di quell’elefante di ottone nel quale quasi si perde: ci par di vederlo andare di casa in casa, randagio, sempre per colpa dei boati che fanno balzar nel sonno i disgraziati vicini, acceso sempre della stessa fede, anzi sempre più eroe, per il suo strumento, fino a che non gli offre pace un sottoscala. Il poveretto, che tutta la prima gioventù aveva dedicato ai misteri cavernosi del bombardone, un giorno vede due occhi assassini, uno sguardo che gli rivela d’un colpo un mondo nuovo; batte l’amore alla porta dell’abitacolo delle ragnatele sole auditrici delle virtuosità in fa basso dell’artista: e questo sogna le gioie più caste della vita, tra quei due esseri l’uno luccicante come l’oro, l’altro promettente come la Terra Promessa. L’idillio fiorisce: il disgraziato non sa il vocabolario galante ma è dotto nelle teorie scientifiche dell’audizione colorata: e le serve a tutto spiano alla figlia del fabbro ferrajo che resta a bocca aperta come dinanzi al mistero dell’infinito. Più a bocca aperta, anzi atterrita, senza poter cavare una parola dalla gola resta una sera ch’egli se ne viene da lei col fido strumento e attacca imperterrito l’aria dei ‘Due Foscari’: “Questa è dunque l’iniqua mercede…” Bisogna leggere quella pagina:

“Teresita era là, immobile, con gli occhi spalancati, trattenendo il respiro, e come in preda a uno spavento mortale. Sembrava colta da un primo attacco d’apoplessia fulminante.

Gli occhi di Geromino, orribilmente spalancati: il moto convulso delle sue mani: le guancie gonfie come se custodissero due pesche: le narici dilatate; le labbra compresse dentro al bocchino; il sudore che gli gocciolava dalla fronte scivolando per le guancie infocate: il collo gonfio come quello di un tacchino; e finalmente il piede che batteva il tempo con una nervosità da cane in agonia – tutto ciò aveva riscaldato l’immaginazione di Teresita, la quale non riconosceva più il suo amante.

Pareva che un temporale si fosse scatenato sulla casa. Il bombardone di tanto in tanto lampeggiava, sotto la tremula fiammella delle due steariche.

Geromino era trasfigurato – era un mostro! Aggiungete quei boati rauchi, striduli, metallici che straziavano le orecchie e facevano tremare i vetri della camera, e potrete imaginare i patimenti della bionda creatura che aveva sperato una dolce parola d’amore dallo strumento del suo amante.

Lo stesso fabbro ferraio aveva lasciato la bottega, ed era salito su a precipizio credendo fosse per crollare il soffitto della stanza.

Intento alla musica, Geromino non s’era accorto della sgradevole impressione che facevano le sue note sull’animo di Teresita. Terminato il pezzo, egli andò a posare il bombardone sulle due sedie, dopo averne sgocciolato la bava nell’angolo della stanza. Messo al sicuro lo strumento, si asciugò il sudore che grondava copioso dal suo volto, e si gettò sopra una sedia per tirar fiato. Ansava come un mantice.

Cercò finalmente coi suoi occhi gli occhi di Teresita, ma non li trovò: erano chiusi. Si avvide allora dell’emozione e della pallidezza della fanciulla, e cercò nuovamente interrogarla con uno sguardo.

Teresita era di sasso – fulminata; non potè alzar gli occhi né pronunciare una sillaba - credeva sognare. E Geromino ascrisse quell’apoplessia fulminante all’effetto dell’ammirazione profonda per il suo genio.

La bionda fanciulla stette alcuni minuti cogli occhi a terra – riflessiva. Geromino si accostò a lei, e le strinse la mano con muto trasporto, come ringraziandola di quell’emozione che lo rendeva fiero della sua valentia artistica.

Comprese che non era quello il momento di chiedere spiegazioni sull’iniqua mercede: la modestia non gli permetteva un’inchiesta. Prese lo strumento in braccio, salutò la bella fanciulla, ed uscì dalla stanza.

Questa volta Teresita non lo accompagnò alla porta per aprirgli i due battenti. Non lo avrebbe potuto perché le tremavano le gambe.”

 

Il resto si capisce: Teresita non vuol più sentire di quel romorosissimo amante: Geromino ne soffre atrocemente ma si rassegna e creda di aver vinto sagrificandosi pel suo strumento. Ma lo scrittore vuole che col cuore non si scherzi di troppo: Geromino si ammala e ne muore: muore spirando nel seno enorme del bombardone in un fa naturale che ne porta l’anima in Cielo. Quanto umorismo di buona lega in questo racconto, e quanta arte, sia pur semplice, ignori pure gli artifizi dello stile e non ricerchi le eleganze formali!

Perdonatemi se vado per le lunghe e più del necessario: ma fu tanta l’attività letteraria del Costa e così geniale! Ed ho ancora da dire, per tralasciare il giornalista benemerito della Stella di Sardegna, il biografo di Giovanni Baraca, il critico d’arte, l’espositore della vita avventurosa di Giovanni Tolu, ho ancora da dire dello storico.

Nessuno gliene aveva insegnato le discipline: si formò da sé, auspici il proponimento suo di illustrare la Sardegna, e il romanzo che l’aveva indotto a ricercar nella storia il materiale per le sue invenzioni. Consultando gli scrittori delle nostre vicende, si persuase come tutto era da rifare: troppa imaginazione si era abbarbicata attorno alla verità, e ritrovar questa era difficile. Poteva esser di guida la sagace prudenza del Manno che dove le frasche gli impedivano il passo, dichiarò sempre le difficoltà e se si arrischiò in ipotesi non le decantò più che tanto. Ma non era tutto: specie perché dopo la classica ‘Storia di Sardegna’ eran venute quelle maledettissime Pergamene d’Arborea che ci fecero passar tutti per falsari e per briganti anche nella storia, mentre, se Dio vuole, fu uno solo a ordir l’inganno e a mettere a soqquadro anche quelle poche notizie vere che allora si avevano. Mi par quasi inutile dire che il Costa se vide la grande impresa che spettava alle nuove generazioni, non esagerò nella fede della sua fatica; è un’opera quella del rinnovamento della storia sarda che domanderà tempo ancora e ancora intelletti pazienti e amorosi: sono anni oramai che ci si è messo mano e ne passeranno di molti prima che si possa aver rischiarato compiutamente il passato: né può uno solo bastarvi, ma occorre il contributo di parecchi. Epperò il Costa si limitò alla storia sassarese.

Che si sapeva della Vostra città? La stessa gloriosa età del Vostro Comune si ritrovava confusa nelle narrazioni dei maggiori, e le ragioni del fatto storico si potevano intuire, non bene ricostrurre nella selva selvaggìa delle cronache dell’epoca dei Giudici. E il resto? Trattandone a linee assai sommarie si poteva rischiare di non cadere nell’errore: ma a farcisi un po’ addentro….buio pesto! Le aprì il Costa le impannate e fece irrompere la luce e l’aria fresca nelle stanze chiuse a scacciarne le tenebre e il tanfo: ma per ritrovarle prima e poi aprirle fu una fatica singolare. La sorte, amica di questo benedettino che rimescolò archivi da cima a fondo e aguzzò gli occhi su scartafacci indecifrabili e frugacchiò nei documenti con acume e con pazienza infinita, ne lo compensò permettendogli di condurre a termine l’opera prima del dì fatale del riposo: e oggi, quantunque non del tutto edita, possiamo ammirare la somma di lavoro spesa nell’erezione del solido edifizio. Solido veramente: le mura il Costa le ha piantate su fondamenta di granito, e l’architettura alcuno potrà cambiarla. Di aperture se ne faranno ancora, ci saranno nuovi adattamenti, si dovrà certamente correggere qualche particolare: lo previde l’autore stesso il quale d’altra parte non poteva inventare i documenti quando mancavano: ma il più dell’opera è compiuta. Oggi, Voi, Sassaresi, avete la Vostra storia. Una storia originale, ben diversa dalle altre: un rétore non saprebbe come classificarla: ché le manca quel paludamento classico che ritroviamo nei grandi modelli e non è una vera e propria Cronaca: è un ibridismo garbato, riuscito bene, secondo si prefisse l’autore. Il quale (non dimentichiamo mai la sua fede letteraria) volle che la storia servisse di educazione per il popolo, e quindi adattò la materia all’intelligenza comune, togliendole o industriandosi a toglierle quel carattere erudito che potea farla apparire noiosa o pedante, e indurre a metterla da parte. Questo, tuttavia, non basterebbe a spiegarci le ragioni della forma speciale da lui usata: ce le rivela invece la sua natura d’artista. Era un poeta e sentiva dolcissima la poesia delle memorie. “Un semplice aneddoto (scrive nella prefazione al primo volume del Sassari), una piccola notizia, una via dimenticata, ed anche pochi sassi, bastano per far battere il nostro cuore. Perché ciò? Chiedetelo alle fila misteriose che ci avvincono alla terra dei nostri padri. Chi è colui che, nella vecchiaia, dopo un’alterna successione di liete e tristi vicende, passando per caso dinanzi all’umile casetta dove è nato e dove son morti i suoi cari, non vi getta uno sguardo ed un sospiro? Quelle pietre sono corrose dal tempo, eppure per noi soli conservano l’affettuoso linguaggio che ci richiama ai giorni spensierati della fanciullezza!… La povertà di quelle mura screpolate, che il forestiero non degna d’uno sguardo, racchiude per noi una ricchezza: le prime memorie; - rinnova nel nostro cuore un affetto: quello della famiglia; - ci strappa dagli occhi una lagrima: la lagrima della riconoscenza, per colei che ci diede la vita!” Ed era anche un novelliere; nell’arida fatica della ricerca, quando divorava i volumi e la polvere, e sospirava e si intestava a ritrovar la notizia cui teneva, l’aneddoto che improvviso gli sbucava da uno scaffale, un viso ignoto che si affacciava ad una porta, uno scenetta che gli balenava dinanzi anche in iscorcio, lo distraevano festosamente; l’artista si pigliava la rivincita sullo storico e si dilettava del tocco in penna che poteva fiorire i marginali della grave dissertazione. “La storia sassarese – gli scappa detto un bel momento – è una donnetta allegra che dà retta a tutti, ed a tutti dà ragione: è un caleidoscopio che cangia le combinazioni di linea e di colore, ad ogni scossa che riceve da un nuovo documento.” Quanto deve essere stato Egli contento quando gli vennero tra mani il diario di Domenico Usai e le memorie di Padre Sisco: con quale voluttà li avrà scorsi, facendo quelle argute osservazioni che gli scappano nel rivivere nel tempo passato ad ogni notiziuola del previdente antenato! Di ciò avrebbe potuto non fare ad altri parola: la severa dottrina storica vuole il risultato dell’indagine ma non domanda dove, come, quando e perché uno all’indagine s’è accinto: ma Egli che era stato sincero in arte, non poteva mutarsi nella storia: e così mette a parte gli altri di tutto il suo lavoro e si indugia nel racconto di particolari che alla Storia non si attengono. Il guaio si è che vi si indugia bene: e Voi non potete dargli sulla voce e rimproverarlo aspramente, perché quel suo intervento continuo nella narrazione col comento ora scettico, ora vivace, ora pungente vi ha dilettato e vi ha fatto dimenticare le offese ai rigidi precetti della retorica.

Questo il merito primo della sua storia, la piacevolezza; che sia compiuta ne sono testimonianza le decine d’anni che vi spese attorno. Se non era andato a scuola di filologia, aveva pure cognizione dei nuovi metodi scientifici: e dopo pubblicato il primo volume Egli seguì con occhio attento il lavoro degli studiosi, si accompagnò ad esso, fece ricerche per conto suo, vagliò i fatti con sereno discernimento, forse con eccessivo zelo di critica tanto da dar qualche volta nel sofisma: ma era la coscienza della dignità dell’officio assunto e del cómpito che doveva fornire. La parte antica della Vostra storia mi assomiglia a una matassa arruffata in modo strano e i documenti che abbiamo non bastano a dipanarla: quando sembra di aver toccato il segno, salta su un ma a scompigliar tutto. Della qual cosa il Costa non si doleva: ci prendeva gusto a scervellarsi negli indovinelli del periodo che precedette la formazione del Comune; la fortuna l’aveva anche aiutato una volta svelandogli in un momento un errore nella data degli Statuti, la cui scoperta sopprimeva parecchie pagine di punti interrogativi del suo primo volume: e come se ne vendicò allora col podestà Cavallino De Honestis che scroccò una piazza al Comune senza meritarsela! E’ questa la parte che più studiò: le figure di Ugone Visconti, di Adelasia di Torres (quante leggende per questa donna!), di Re Enzio, di donno Michele Zanche e di Branca Doria ebbero da lui le cure di un critico appassionato che vuole spuntarla col tempo che ci contende la verità: non riuscì del tutto e non poté, perché i miracoli di raziocinio restan tali quando non un brandello di carta, un coccio, quattro lettere magari graffite non ci sovvengano del loro lume: ma pose chiari i termini della questione e chi la riprenderà troverà la strada bell’e spianata. Il rammarico di non potermi trattenere ancora sull’opera sua maggiore è attenuato dal convincimento che essa è nota a tutti Voi: che malamente direi ciò che già sapete, malamente vi farei passare dinanzi le belle figure che vi campeggiano, i giorni di gloria e quelli di lutto, la lunga e aspra teoria delle vostre vicende, dall’aurora luminosa di libertà del Comune sorto come impeto di ribellione contro nefasta tirannia con statuti che sancirono principî di diritto e crearono coscienze, - al fiorire presente di attività morali ed economiche che preparano e affrettano la Rinascita della Sardegna.

Vecchia Sardegna nostra! Passarono su te le bufere dei secoli, impetuose: stirpi e civiltà si incalzarono e apparvero e sparvero apportatrici or di fortuna or di danno: ti illuminarono albe ridenti e ti funestarono fosche notti: poi… i dì della speranza bandì il dominio fattosi eterno e spietato del dolore: e vedesti ingiustizie, infamie, crudeltà: fosti preda di ambizioni e di ingordigia: ti strapparono i tuoi tesori, ti dissanguarono, fecero di te ‘la landa dell’eterno oblio’ e, come volle il Nostro, ti dettero la sorte di Niobe dannata al pianto… Eppure non sei vinta, ma vittoriosa: vittoriosa delle forze cieche del Destino, della malvagità umana, della debolezza tua stessa. No, son sempre rigogliose le tue forze, fiera e onesta è sempre la tua schiatta: alacre è la mente e vigoroso il braccio. La Rinascita è già nel succhio della sua sacra primavera e darà frutti e darà glorie; ti vedremo un giorno bella come nel tempo che la stirpe ethea emigrando dalle divine rive dell’Egeo veniva qui a gettare i semi d’una discendenza di Giganti: ricca come quando dai mannelli piovean sulle aie rivi d’oro: fiera di te stessa quanto ai tempi che ricacciavi gli invasori. E’ in tutti gli animi nostri ora un sol consentimento: non plorare perché è vergogna, non disperarsi perché è viltà, non cedere perché è la morte: ma con impeti nostri conquistar l’avvenire, con gli impeti stessi con i quali in questa città appunto sul finir del Dugento gridasti a libertà. Non si è spenta la grandiosa tradizione del Vostro Comune, cittadini di Sassari; perpetuatasi nel tempo ora ha riacceso la vampa sulla fiaccola che il cittadino con magnifico gesto riprese e levò in alto, e dietro la scia di fuoco s’avanza animosa la gente nuova per la strada sulla quale s’era fermata per secoli stanca, dubitosa. E ci guardano da lontano… e ammirano la nostra fede… e ci incuorano nell’ascesa: merito di quelli che rivendicarono il Vero. Per questo, per questo solo la breve tappa d’oggi: onorare l’Apostolo della Rinascenza, il cursore che agitò la fiaccola della Vostra libera gloria, fregiarne il nome con la corona del valore, esaltarne l’opera con la voce della gratitudine: salutare con memore affetto il Valoroso. Non altro: ora riprendiamo il cammino, ché Egli ci scorge, verso i nuovi destini!

 
Centro di Studi Filologici Sardi - via dei Genovesi, 114 09124 Cagliari - P.IVA 01850960905
credits | Informativa sulla privacy |