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ENRICO COSTA


Le feste di Oristano. Note di un viaggiatore
Enrico Costa
Le tanto sospirate feste per l’inaugurazione del monumento ad Eleonora d’Arborea, già da gran tempo preparate dal Comitato esecutivo e dal Municipio di Oristano, erano imminenti. Un diffuso programma le aveva annunziate per i giorni 22, 23 e 24; la Compagnia delle Ferrovie sarde aveva accordato il ribasso del 50 per cento, stabilendo treni straordinari; e le popolazioni tutte dell’isola aspettavano ansiosamente quei giorni, bramosi di recarsi in Oristano per assistere ad una festa nazionale.

Fin dalla mattina del giorno 21, assegnato ai treni straordinari… ed economici, i cittadini sassaresi si erano recati in buon numero alla stazione per prender posto nei vagoni. Era uno spettacolo tutto nuovo. Quindici vagoni carichi di passeggieri uscivano dalla stazione accompagnati dalle grida entusiastiche d’una folla curiosa che si era colà recata per vederli partire. Un buon numero di passeggieri erano rimasti a terra, e se ne tornarono a casa, confidando di essere più fortunati col treno della notte, che doveva partire alle 10.

E alla sera, una folla più compatta e più curiosa di quella della mattina, ingombrava la stazione per veder partire altri 15 vagoni gremiti di passeggieri, fra i quali lo scrivente.

Un fischio acuto, due squilli di corno, e un sonoro partenza! diedero il segnale; e il pesante convoglio uscì borbottando da quel recinto, fra gli urli, le grida, le risa e le esclamazioni di chi partiva e di chi restava; gioia nei primi, un po’ d’invidia nei secondi.

Le tenebre esercitano uno strano prestigio. Una locomotiva che nel cuore della notte attraversa i campi, boschi, fiumi, trincee, gallerie, ha qualche cosa di misterioso che esalta l’immaginazione e dà alle cose un aspetto fantastico. Quell’urlo, quei fischi sussultuosi, quel cielo color di piombo, quei tronchi d’alberi sopra un fondo nero che ti passano rapidamente davanti, quelle faccie dei macigni sinistramente illuminate dai due occhi rossi della macchina, quel monotono e cadenzato rumore che mandano i vagoni sulle rotaie, ti fanno una strana impressione; tu senti il bisogno della compagnia – diresti che, come i bambini, hai paura del buio; senza saperne la ragione ti ritornano alla mente le storielle di sinistri ferroviari letti in sui giornali! È un viaggio nel mistero, nell’ombra, nell’ignoto; si presente l’abisso.

Ho detto: si ha bisogno di compagnia – ma non di troppa compagnia. Noi eravamo letteralmente stipati; ero stato ultimo ad entrare nello scompartimento, e i miei compagni di viaggio mi stesero la mano e mi salutarono con un sorriso di limone, che io contraccambiai con un sorriso d’aceto. In quel momento eravamo tutti egoisti ed ipocriti; perché in vagone non vi sono amici. L’uno all’altro esternava il piacere di essere in buona compagnia, mentre forse, in fondo, ognuno di noi avrebbe voluto esser solo, per godere comodi maggiori. – Quello stare impalati, stretti fra i gomiti dei cari vicini che ti rompono le costole, colla prospettiva di otto lunghe ore di viaggio, colla certezza di non poter dormire, tutto ciò è orribile, raffredda l’amicizia, ci fa bestemmiare i viaggi e le ferrovie, e ci rende ingrati, ipocriti, egoisti. Ma che fare? Pazienza! – si sa bene che le feste costano sempre dei sagrifizi!…

Il treno volava – dirò meglio, camminava. Dai 100 finestrini del lungo convoglio usciva un chiacchierio vivace; erano grida, canti, suoni; si mangiava, si beveva, si urlava, si pestavano i piedi, e non si lasciava chiuder occhio a quei pacifici viaggiatori che amavano la tranquillità. Supplizio che bisogna subire con evangelica rassegnazione; nei vagoni, come nei teatri, chi ha pagato il biglietto ha pur diritto di fischiare, e di far perdere la notte e la pazienza al prossimo, che non sempre amiamo come noi stessi!

Dopo due ore si arrivò a Chilivani, dove avevamo 30 minuti di fermata. Tutti i passeggieri si precipitarono nel Ristorante di Moraccini, che il proprietario aveva illuminato a palloncini, e decorato con deliziosi festoni di frasche, con bandiere, e che so io. Si mangiò, si bevette, si fè nuovo chiasso, si pagò bene, e si uscì contenti, dopo aver reso contento il fortunato albergatore.

A Macomer altra illuminazione, frasche, fiori e bandiere come sopra – col relativo chiasso, reso più sensibile dalle libazioni continue.

Alle 6 e mezzo ant. del giorno 22 entrammo trionfanti nella Stazione di Oristano, che pur essa era stata per la circostanza vestita a festa con bandiere, frasche, palloncini, e … detti.

C’incamminammo verso il centro della città, distante un venti minuti dalla stazione. Eravamo un reggimento in marcia – vi erano rappresentate tutte le classi sociali di Sassari; dal nobile signore al più modesto operaio. Una nebbia di sottilissima polvere ci avvolgeva nelle sue spire graziose e importune, dorate da un sole arrabbiato. Lungo la via, di tratto in tratto, erano lunghe aste rivestite di stoffe a tre colori, su cui erano bicchieri colorati, pronti per le illuminarie della notte.

Le vie tutte di Oristano erano gremite di gente di ogni colore, di ogni qualità, e di ogni paese. Era un concorso inaspettato, imponente. Dappertutto bandiere, drappi alle finestre, preparativi di illuminarie.

Arrivammo alla Piazza del Mercato. Vicino alla gran torre si era eretto un grande arco trionfale che conduceva al Corso, lungo il quale erano un numero infinito di lampadari, bandiere di ogni nazione, arazzi damascati, fiori, ghirlande; e ciò fino alla Piazza, dove si offrì ai nostri occhi il grandioso monumento della figlia di Mariano, la cui statua era coperta, dal capo alle piante, da un bianco lenzuolo, lasciando solamente scoperto il braccio destro ripiegato, con una mano il cui indice segnava il cielo, quasi volendo darci la ragione di quel suo travestimento, coll’accusare il sole che la corteggiava con troppo calore.

Pochissime parole sopra Oristano. È una città antichissima; conta circa 7000 abitanti: ha fabbriche speciali di terraglie, di stoviglie, di cui provvede quasi tutta l’isola. Le pianure sterminate che le stanno d’intorno, il suo cielo infuocato, le sue donne dalla carnagione color perla e dagli occhi tagliati a mandorla, l’abbondanza favolosa dei fichi d’India, e il ciuffo di qualche palma che si mostra qua e là, le danno una tinta tutta orientale. È una città pulitissima, e così estesa che potrebbe contenere per lo meno il triplo degli abitanti che oggi conta. Gli oristanesi sono ospitali, molto sciolti ed alla buona; non si danno importanza alcuna, amano i divertimenti, hanno un carattere leale ed aperto, e sono in buonissima relazione con tutti i fratelli dell’isola, perché non si riscaldano troppo per questioni di municipalismo. – Oristano ha tre cose ragguardevoli: Eleonora d’Arborea – la Carta de logu – e l’originalissimo campanile della sua Cattedrale. Ha tre cose buone e speciali: la vernaccia – il pane, e gli amaretti. Ha due cose curiosissime: case fabbricate senza pietre né calce, ed uomini sbarbati, col fazzoletto in testa come le donne. Ha due cose brutte: troppe gambe nude, e troppe pelli di montone – le prime ti mettono il freddo addosso nel guardarle – le seconde invece ti mettono il caldo!

Ritorno alle feste.

Verso le dieci tutte le rappresentanze si recarono al Municipio, luogo di riunione, dove furono trattate con molta dolcezza; intendo dire, con paste, vini, rinfreschi, e simili.

Su tre palchi molto eleganti, eretti attorno la Monumento, erano un gran numero di signori e di signore che volevano assistere alla cerimonia della inaugurazione. La piazza era letteralmente stipata, e vi si stava troppo a disagio, perché non si potevano sfuggire in alcun modo i cocenti raggi del sole. Tutte le finestre ed i balconi delle case vicine erano pur gremite di signore. Erano migliaia di teste e di braccia che si muovevano, si agitavano come un campo di grano su cui soffi un po’ di vento.

Verso le undici le autorità mossero tutte dalla casa comunale verso il monumento, dove era apprestato un tavolo. Prefetti, Rettori d’Università, Sindaci, colonnelli, società operaie, studenti con bandiere, ecc., ecc., tutti erano là, sotto la sferza di quel sole importuno, curioso, che frugava fra i panni di tutti gli astanti, i quali non potevano, anche volendolo, togliersi alle sue insistenti carezze.

Un mortaretto, con una forte detonazione, diede il segnale; il Sindaco Comm. Corrias tirò a sé i tre nastri che assicuravano il sudario, ed agli occhi della folla curiosa si svelarono alfine le belle forme di una statua di marmo, la quale aveva un cuore di donna – a differenza di certe donne non troppo rare, le quali invece hanno un cuore di marmo.

Gli astanti salutarono con vivi applausi quella statua che doveva stare lassù immobile, Dio sa per quanti secoli; mentre le due bande intuonavano un inno ad Eleonora, scritto appositamente dal Maestro Lario, Direttore di quella banda cittadina, sopra parole dell’avv. G. Fara Musio. L’inno venne cantato da 35 studenti d’ambo i sessi (20 donne e 15 maschi) accompagnati dalle due bande musicali; cioè , da quella di Oristano diretta dal Lario, e da quella del 52mo Fanteria, fatta venire da Cagliari per quella solennità. Con questo lavoro il Lario si rivelò provetto maestro. L’inno da lui composto è grandioso, e al tempo stesso semplice e popolare; è scritto con talento artistico, e venne eseguito con inappuntabile precisione. Le voci di quei 35 allievi, vestiti la maggior parte con costumi sardi, erano belle, intuonatissime, e produssero una buona impressione nel pubblico, il quale, commosso, proruppe in frenetici applausi al maestro ed agli esecutori – e vi so dire che erano ben meritati.

Venne quindi la volta della cerimonia – e si cominciò coi discorsi. Primo fu il Sindaco d’Oristano, poi il Prefetto di Cagliari, a cui tennero dietro il Sindaco di Cagliari, il Sotto Prefetto di Oristano, e in ultimo il Cav. Satta Musio Presidente del Comitato esecutivo per le feste di Eleonora. I discorsi furono tutti belli, e di circostanza; ma fra tutti fece grata impressione quello del Prefetto di Cagliari, lavoro pieno di erudizione, elegante per forma, e che toccava con studio profondo della vita di Eleonora, e delle carte d’Arborea. Il signor Luigi Solinas lesse dei versi molto belli e ispirati a concetti patriottici.

Credo inutile dirvi, che per il pubblico questa cerimonia non tornò troppo gradita; esso non udì una sillaba di quanto fu detto, o letto. Rimase lì colla bocca e colle orecchie aperte, pigiato, sudato, e un po’ seccato di quelle ore lunghe lunghe che non finivano mai! Negli intervalli le bande suonarono parecchi pezzi, tra i quali una marcia in onore di Eleonora, composta dallo stesso Lario, il quale, musicalmente, ha illustrato in tutti i toni della scala cromatica la bella e valorosa figlia di Mariano.

Durante l’inaugurazione si dispensavano al pubblico o si vendevano, diversi opuscoli e poesie, fra cui la vita di Eleonora già scritta da S. A. Decastro, diversi inni del Mameli, un’ode di 70 stroffe del parroco di Bidonì, l’inni del Mossa e del Fara, ed una poesia sarda il cui autore ebbe la prudenza di chiudersi in un’incognita.

Alle 4 precise di sera tutte le rappresentanze invitate movevano alla volta dell’ex convento dei Filippini, trasformato dalla bacchetta magica di Caldanzano in un elegante albergo, mercè il concorso del Municipio che si sobbarcò in ispese non lievi per poter offrire agli ospiti i maggiori comodi possibili; lodevole proposito che sventuratamente non poteva essere coronato da un pino successo, come diremo in seguito.

La sala da pranzo e la tavola erano preparate con molto gusto; non vi mancavano certo le ricche decorazioni i grandi vasi di fiori, i trofei, la statua di Eleonora, ecc. ecc. Ben 120 erano i coperti già preparati, col relativo nome di tutti gli invitati; una cinquantina però non risposero all’appello – motivo per cui il pranzo si era ristretto al numero di 70 commensali… che non erano certo pochi!

La banda del 52o, disposta in un cortile interno, rallegrò le mense con scelti pezzi. Per 2 ore la cosa andò liscia; non si udiva che il rumore delle posate dei bicchieri e dei piatti, che tratto tratto si confondeva colle melodie della Lucia di Donizzetti, e con quelle dei Masnadieri di Verdi. – Al solito scoppio, però, dello champagne, tutti si scossero, e ognuno pensò a quel che doveva dire. Riassumere i discorsi sarebbe un’impresa troppo ardua e bisogna rinunziarvi. Basti il dire, che l’argomento era uno solo, svolto in diversi toni: la festa di Eleonora – la bella riunione – i destini della nuova Sardegna – le ferrovie – con qualche saluto, di tanto in tanto, al nostro amato re, ed alla nostra amata sovrana; saluti molto a proposito in quella circostanza, perché Eleonora ora Regina di Arborea. – Darò solo i nomi di coloro che presero la parola:

Il Sindaco di Oristano, Comm. Corrias – il Prefetto di Cagliari – il Reggente la Prefettura di Sassari – il Presidente del Consiglio Provinciale di Sassari Avv. Manunta – il Prof. Scano – il Deputato di OristanoCommend. Parpaglia, che pur lesse un telegramma del Circolo Costituzionale di Sassari – il Prof. Cav. Filippo Vivanet – il poeta Melchiorre Mameli – il Direttore del Gazzettino Sardo – il Conte Nieddu Presidente della Corte d’Appello – il Comm. Piercy ingegnere delle ferrovie Sarde – il Cav. Guillot per il Municipio di Alghero – il medico Dott. Leo per il Municipio d’Iglesias – e il Procuratore del Re d’Oristano.

Alle sei e mezza lasciammo le mense e ci recammo nella piazza del monumento, dove una folla compatta e impaziente aspettava la premiazione delle donne che vestivano il miglior costume dell’isola. La banda rallegrava la serata. – Montammo sul palco in cui erano esposte in bella mostra le donne che aspiravano al premio. A dire il vero io mi aspettavo un risultato più soddisfacente; avrei creduto che il felice pensiero del Comitato nello stabilire i premi ai migliori costumi, dovesse far accorrere da ogni villaggio molte paesane – ma non fu così. Le donne che si presentarono non furono che una ventina in tutte, e dirò francamente che i costumi che vestivano non avevano per la maggior parte nulla di notevole; ne vidi molte che indossavano male quegli abiti, – mancava direi quasi il vero tipo, la sveltezza, quella grazia tutta paesana che dà risalto alle belle forme; in una parola, avrei desiderato che le stesse paesane si fossero presentate al premio coi loro migliori abiti ed in buon numero. Non voglio con ciò dire che le fanciulle che indossavano quei costumi non avessero grazia, né mancassero di bellezza – il Ciel mi liberi da questa imprudenza che mi costerebbe un occhio! – dico solo, dico solo che non è l’abito che fa il monaco – e dentro gli abiti dei contadini ci vogliono i contadini, perocché le donne signorili non sagrificano mai intieramente tutto; e specialmente nelle pettinature e negli ornamenti vogliono sempre lasciar trasparire… il vero loro stato sociale, pregiudicando così i costumi sardi nella loro elegante semplicità…

Mentre però, sopra quel palco, si era tutti intenti a passare in rassegna le pezzuole ricamate, le gonnelle di scarlatto, i corsetti dorati, e le camiciette candide, che celavano quello che non si vedeva, uno scricchiolìo improvviso, a cui seguì uno schianto fortissimo fece mandare un leggiero grido alle donnine, e con ragione. Un travicello si era spezzato ed una tavola aveva ceduto. Si abbandonò subito il palco dall’esposte e dagli esaminatori, e si rimandò la premiazione al doman l’altro. E per quel dì… non vi leggemmo avanti.

Sono in grado pertanto di darvi oggi l’elenco dei costumi premiati, col nome delle donne dalle quali furono indossati:

1. L. 90,00 sorelle Cambilargiu (Osilo).

2. L. 80,00 a 5 donzelle d’Oristano e sobborghi.

3. L. 50,00 Lia Satta Musio (Dorgali).

4. L. 45,00 Satta Musio Antonica (Oruni).

5. L. 40,00 Cocco Rosa (Alà dei Sardi).

6. L. 35,00 Satta Verina e sorelle Chessa (Ploaghe).

7. L. 30,00 Maoddi Antonica e Cichi Angela (Gavoi).

8. L. 30,00 Aneris Gerolama (Samugheo).

9. L. 30,00 Oliveri Angela (Nuoro).

10. L. 30,00 Denegri Giovannica (Busacchi).

11. L. 30,00 Azzara Antonica (Iglesias).

12. L. 30,00 Sedda Carmelina (Sorgono).

Ebbero premio d’incoraggiamento di L. 25 caduna quelle dei Comuni di Ossi, Fonni, Terralba, Ozieri, Bono e Benetutti. Fra le premiate erogarono a favore dell’Asilo ed Istituti di beneficenza locali, l’importo del proprio premio, le signorine: Satta Verina e sorelle Chessa di Ploaghe, Lia Satta Musio di Dorgali, Satta Musio Antonica d’Oruni, e Sedda nobile Carmelina di Sorgono.

Seguì l’illuminazione, e questa riuscì splendida; merita lode la società dei napoletani, che si addossò l’impresa di farla.

Lungo tutto il corso, dell’arco trionfale alla piazza del monumento, si erano disposti tratto tratto dei pali traversali adorni di stoffe a vario colore, da cui pendevano tre lampadari con globi smerigliati e bianchi che facevano un bell’effetto. Tutta la via sembrava un lungo salone decorato per una festa da ballo; e se invece delle stoffe (che sapevano un po’ troppo di Chiesa e di Novena) si fosse pensato di ornare i pali di frasche e di ghirlande lo spettacolo sarebbe riuscito veramente stupendo. Nullameno non lasciò nulla a desiderare, e il Comitato può andar superbo della bella riuscita, e può ringraziare il vento, che in quella sera non uscì di casa.

Indescrivibile la folla che girava per le vie illuminate e imbandierate, e quella che faceva ressa nella piazza per ascoltare le due bande musicali.

La giornata del 22 si chiuse col ballo dato al Teatro S. Martino, che riuscì abbastanza soddisfacente, se non per tutti, almeno per la ventina di coppie che ballavano con tanto gusto, con molto sudore della fronte, ma senza urtoni e con tutta comodità.

La musica soltanto lasciò qualche cosa a desiderare; essa non era all’altezza del trattenimento; ma che si ah da fare? – Qualche cosa vi è sempre da lamentare, e la maldicenza del critico, come la polvere, penetra dappertutto.

Sentendomi stanco me ne andai al Convento di Caldanzano, mi gettai sul letto, e mi lasciai vincere dal sonno, per poter poi godere con maggior comodo la seconda e terza giornata delle feste di cui vi parlerò domani.

 

 

II

La mattina del giorno seguente, 23, era stata designata per un pubblico saggio e premiazione dei bambini e bambine dell’Asilo infantile, nella Chiesa che trovasi nella piazza del Monumento; Chiesa adattata convenientemente per la circostanza. Per i teneri scolari si era improvvisato, con molto buon gusto, un ampio palco inclinato nella cappella centrale, dove sedevano oltre un centinaio di piccoli alunni dai 4 ai 12 anni.

L’istruzione in Oristano è bene impartita e dà ottimi risultati. Vi basti sapere, a conferma di queste mie parole, che sopra 7000 abitanti che compongono questa città, nell’anno decorso si contarono ben 1177 alunni, di cui 150 appartenevano al Ginnasio, e 1027 agli asili, scuole elementari, serali e festive.

L’istruzione e l’educazione di questi asili infantili vennero affidate a due suore di carità, le quali in brevissimo tempo hanno saputo operare veri miracoli. E ciò che più sorprende è che l’istruzione data da queste maestre ai teneri allievi è molto liberale, com’ebbi campo di convincermene assistendo ai diversi saggi dati dai bambini e dalle bambine in quella festa solenne. Essi diedero prova di sapere, e di molto progresso nello studio, con esercizi di ogni genere: un po’ di ginnastica; declamazioni; canti; dialoghi; scenette istruttive sulla geografia, storia, morale, ecc. insomma fecero tante e tante di quelle belle cose, che finirono per esser troppe.

Assistevano a questo saggio quasi tutte le autorità e rappresentanze, e moltissime signore erano concorse per rendere più geniale il trattenimento.

Si cantò quindi, da una Suora e da altre tre signorine, un pezzo di musica sacra del Rossini – la qual musica lasciò molto a desiderare per intonazione. Il pezzo era troppo difficile essendo concertato per quattro diverse parti, e per di più mi sembrò molto immaturo di prove; non so comprendere come nessuno abbia sconsigliato quelle allieva dal cantarlo. Ebbe un esito più felice un altro bellissimo coro in onore di Eleonora di Arborea, composto ed accompagnato al cembalo dal maestro Lario, sopra parole di Suor Elisa, una delle Suore preposte all’insegnamento delle bambine, la quale ha una voce simpatica, un ingegno non comune, due occhioni da Andalusa, 32 denti d’avorio, dieci dita di fata, e non più di 25 anni. Totale, 70 pregi che la rendono simpatica a tutti gli Oristanesi.

L’ispettore scolastico Cossu lesse un forbitissimo ed elaborato discorso sull’istruzione in Oristano e nella Provincia ai tempi di Eleonora; toccò a larghi tratti della vita di questa eroina, e si fece vivamente applaudire da quanti assistevano a quella festa.

Venne la volta dei premi che furono moltissimi, e di tutte le categorie – dal ricco libro di preghiere fino all’umile bambola di cartapesta. Le tenere creature premiate gongolavano di gioia, e fu quello per esse un giorno di schietta allegria che non potrà più cancellarsi dalla loro memoria.

La musica del 52o – destinata sempre, come tutte le musiche, a rallegrare tutte le feste del mondo – rallegrò la festa delle bambine suonando alcuni pezzi, oltre la marcia reale di apertura e di chiusura.

La sera di questo stesso giorno era dedicata alla corsa dei cavalli, per la quale i sardi sentono un indicibile e istintivo trasporto.

Una festa senza corse è come un giorno senza sole, o un giardino senza fiori – e gli isolani ci tengono!

Sopra due palchi eleganti, appositamente costrutti, erano sedute un buon numero di signore e di Rappresentanti, i quali, viceversa, erano invece spettatori delle gare che si sarebbero impegnate fra gli intrepidi cavallerizzi.

Il popolo ingombrava tutto lo stradone, aspettando ansiosamente i campioni che dovevano divorare la via, uniti in pariglia. Dal canto mio confesso, che non ho mai assistito con piacere ad una corsa di cavalli, avendomi l’esperienza dimostrato sempre, che ben raro è il caso in cui non capiti qualche disgrazia. Per dire il vero però, le corse di Oristano non presentavano un serio pericolo, perocché non si trattava di fantini che, abbandonati alla furia di un focoso corridore, cercassero di arrivar primi alla meta per guadagnarsi un premio; ma bensì trattavasi di correre in pariglia, abbracciati l’un l’altro, per far mostra di valentia nel cavalcar bene e nel mantenersi in equilibrio. – Questo genere di corse è molto usato nel capo meridionale; nel settentrionale invece, è quasi sconosciuto.

Diversi erano i costumi che indossavano quei cavalieri; ma i più originali, o meglio quelli che attiravano la pubblica attenzione, erano veramente due: - l’uno quello che vestiva il costume di Mamoiada, avente il cappuccio sugli occhi, il corsetto di scarlatto, la pipa in bocca, il coltello alla cintola, e la scuppetta col calcio appoggiato all’arcione; l’altro era colui che vestiva il costume di vasellaio di Oristano, con abiti eleganti e con una treccia a due colori che contornava il suo lungo berretto.

Due o tre squilli di tromba avvertivano la folla che il gruppo di due o tre cavalieri era in vista; e allora la folla, lungo lo stradone, si spartiva in due per lasciar passare i cavalli e i cavalieri, tornando poi a serrarsi compatta, dietro agli intrepidi campioni, all’indirizzo dei quali si mandavano grida di gioia, d’incoraggiamento e di congratulazioni.

Vi era uno fra gli altri (credo vestisse il costume di Abbasanta) il quale faceva sul cavallo prove di valentia, reggendosi ora sopra un ginocchio, ora sopra un piede, ed ora correndo col… dirò meglio colla faccia verso la coda del cavallo. Quantunque queste bravure abbaino la loro parte di merito, credo però che esse non siano nell’indole dei nostri isolani; il sardo, fiero ed intrepido, monta sul proprio cavallo – gli serra i fianchi colle ginocchia come in una morsa, e così si spinge coraggioso in avanti, divorando valli monti e pianure, e sfiorando i più terribili precipizi. Quelle posizioni acrobatiche sul cavallo mi pare si convengano meglio ad un Circo equestre che ad una corsa sarda. Il nostro isolano, lo ripeto, si attacca tenacemente alla cavalcatura, in modo quasi da fare di due corpi un corpo solo; - tutto uomo, o tutto cavallo, come meglio vi torna.

I cavalli presentati erano veramente stupendi, e si ebbero la generale ammirazione. Non meno di venti coppie di cavalli errano passati alla gran carriera a noi dinanzi, al suono della banda che… che era sempre fedele al suo compito di rallegrare cioè tutto il rallegrabile.

I costumi che vestivano quei cavalieri erano quelli di: Mamoiada – Fonni – Pauli – S. Lussurgiu – Tula – Oristano – Abbasanta – Milis. – I premi pei vincitori delle corse furono concessi nel pomeriggio del terzo giorno, e i meritevoli furono: Tolu Ambrogio d’Oristano che prese il primo premio di L. 250; Argiu Giovanni di Narbolia che prese il secondo di L. 200 – e in ultimo Sanna Efisio di Cuglieri a cui toccò il terzo di lire 150.

La notte si ripeté l’illuminazione della sera precedente, e da ogni angolo della piazza, dove suonavano le due bande, si accendevano fuochi di Bengala, che illuminavano con diversi colori la folla immensa che passeggiava, si urtava, sudava, ma ammirava tutto, e si divertiva!

A questo punto corsi all’albergo Caldanzano, vi presi la mia valigietta e m’incamminai frettolosamente alla stazione perché dovevo trovarmi a Sassari alla mattina seguente, e temevo di perdere il treno straordinario che partiva alle 10. arrivai insieme a sette od otto miei compagni alla stazione e mi presentai allo sportello per acquistare il biglietto. Un impiegato mi rispose secco secco: - non si parte più! il numero dei passeggieri non è tale da staccare un treno apposito.

Felicissima notte! – Rimasi con un palmo di naso per l’inaspettato annunzio, e con un palmo di lingua per la corsa di 20 minuti fatta fino alla stazione. Mi volsi indietro come una furia, mandai un accidente alla ferrovia, e mi posi di nuovo in cammino per Oristano, attraverso a un buio pesto che non mi lasciava vedere a un palmo di distanza. L’amico Intina dell’Avvenire, ben a proposito rammentò quel Monsignore, che per difetto di pronuncia, invece di dire ferrovie sarde, diceva sempre ferrovie tarde! – E durante le feste d’Oristano le ferrovie tardarono apposta per nascondere pietosamente la difettosa pronuncia del detto Monsignore!

Mi presentai nuovamente al convento di Caldanzano, e quel buon frate mi accolse freddamente dicendomi: Figlio mio, la stanza non ce l’ho più! – Capite? io aveva perduto la corsa, avevo perduto la camera, ed ero sul punto di perdere anche la pazienza. Fortuna volle che il Caldanzano, da evangelico religioso, mi cacciasse in una cella con altri due compagni che al pari di me avevano tutto perduto: treno, camera e pazienza.

Prima però di mettermi a letto tornai alla piazza del monumento di Eleonora per godere gli ultimi sgoccioli della festa della seconda giornata.

I fuochi di Bengala si succedevano con rapidità – la banda cittadina suonava l’inno ad Eleonora del maestro Dessì, e la folla era sempre là, indecisa se in quella notte dovesse o no andare a letto.

La serata terminò col famoso ballo sardo di Gonnella, suonato dalla banda militare con molta accuratezza. Alle armonie del nostro ballo tradizionale si elettrizzarono tutti – le gambe non vollero più star ferme, le mani si cercavano per istinto, e si finì per improvvisare un circolo di danzanti attorno al Monumento. – Il divertimento era così nuovo, così attraente, e così geniale, che io, illuso, aspettavo da un momento all’altro di vedere l’Eleonora di marmo scendere dal piedistallo per unirsi ai ballerini suoi compatriotti.

E questo ballo pose fine alle feste del 23. Io mi ritirai nel solito Convento, per cercare un po’ di riposo in mezzo ai due compagni di sventura che mi aspettavano… in letto.

Vi narrerò ora brevemente le feste del terzo giorno, quali mi vennero comunicate da un amico da me incaricato.

L’estrazione della lotteria, che doveva aver luogo alle 9 del mattino, fu invece protratta alle 6 pomeridiane perché giunsero in ritardo i telegrammi di parecchi spacciatori di biglietti che si trovavano fuori di Oristano.

Le ore antimeridiane si occuparono invece nella premiazione delle signorine e dei cavalieri che indossarono i migliori costumi sardi.

Abbiamo già dato i nomi degli uni e delle altre; aggiungiamo solo che il Sindaco di Oristano, con felice pensiero, chiamò a raccolta nel giardino della sua casa le donzelle in costume e ne fece fare un bellissimo gruppo in fotografia per memoria delle feste fatte.

La sera verso le ore 6 ebbero luogo le due Lotterie; l’una dei premi stabiliti e donati dal Comitato – l’altra di tutti gli oggetti raccolti nell’Isola dai Sotto-Comitati.

I primi consistevano:

1o In un quadro ad olio con cornice dorata, rappresentante Eleonora d’Arborea – bellissimo lavoro dell’artista romano Bernini. Questo quadro merita un encomio, tanto come disegno e colorito, quanto per fedeltà di costumi e accuratezza di dettagli. Fu esposto al pubblico durante i tre giorni di festa, e il pubblico non cessava mai dall’encomiarlo e dall’ammirarlo.

2o In un altro quadro di più piccole dimensioni e di buon pennello, rappresentante Eleonora che strappa la lancia dalle mani della sentinella del suo palazzo, desiderosa di esercitarsi nelle armi, episodio di cui è cenno nelle Carte d’Arborea.

3o In un bellissimo mezzo busto in gesso che ritrae le sembianze della festeggiata Eroina oristanese.

Il primo premio toccò in sorte al No 34 della nona Serie – il secondo spettò al No 43 della 17ma Serie – il terzo al No 35 della 11ma Serie.

Si fece in seguito il tiraggio degli altri numeri rappresentanti gli 81 vincitori, pari al numero complessivo dei premi; e di questi pure vi dò qui sotto i numeri, facendo voti che molti di essi si trovino nelle mani degli abbonati del Gazzetino.

Numeri: 546 – 1787 – 333 – 1820 – 1589 – 1399 – 683 – 1153 – 332 – 474 – 1215 – 674 – 1223 – 938 – 680 – 70 – 615 – 504 – 272 – 1648 – 136 – 81 – 1012 – 115 – 1863 – 1580 – 348 – 1391 – 1682 – 608 – 132 – 847 – 1047 – 1561 – 1691 – 1367 – 529 – 1339 – 65 – 1605 – 190 – 1469 – 1537 – 1545 – 1254 – 647 – 1789 – 476 – 230 – 696 – 587 – 364 – 1607 – 1907 – 1799 – 812 – 96 – 107 – 904 – 989 – 109 – 757 – 125 – 1572 – 1797 – 857 – 400 – 1256 – 1953 – 1766 – 1253 – 1208 – 1480 – 1562 – 388 – 665 – 961 – 196 – 365 – 1417 – 752.

I tre alberi della cuccagna ebbero un esito infelice, perocché uno solo fu il fortunato che poi poté toccar premio; gli sforzi degli altri non furono… coronati!

I fuochi pirotecnici, la illuminazione, i fuochi di Bengala, il ballo nazionale, tutto andò a meraviglia e la festa non poteva chiudersi con maggior imponenza, né lasciare una più gradita impressione nell’animo dei forestieri. Alla fine della premiazione il prof. Scanu improvvisò un discorso veramente inspirato ai più altri sensi d’ardente patriottismo dopo il quale fu intuonato un inno nazionale fra le più entusiastiche ovazioni all’Italia, ad Oristano, ad Eleonora, ed al valente oratore.

Ho dato brevemente la relazione dei tre giorni di festini fatti in onore di Eleonora d’Arborea; mi resterebbe ancora a dirvi poche parole sul Comitato e sul Municipio che li prepararono, nonché darvi un cenno critico sul Monumento ma lo spazio mi manca; ed avendo forse abusato un po’ troppo della pazienza dei lettori, rimando il tutto ad un terzo articolo… che sarà proprio l’ultimo. Dunque, a rivederci a domani!

III

Il Monumento testé inalzato nella Città di Oristano è opera di due diversi scultori; la statua fu eseguita dallo scultore fiorentino Prof. Ulisse Cambi, dopo esser uscito vincitore in un pubblico concorso; la base invece è stata elaborata dal Cav. Mariano Falcini, uno dei più bravi architetti di Firenze. - Riporto la breve descrizione che fece della base monumentale l'Ingegnere Filippo Vivanet, parecchi anni or sono, nella Stella di Sardegna.
"Il piedestallo, non compresi i due gradini che lo girano attorno, raggiunge la bell'altezza di metri quattro e cent. 76.
"Esso è essenzialmente formato da due prismi a base ottagona a lati alternanti, di diversa lunghezza, l'uno sull'altro, e di cui l'inferiore è molto più grande del superiore, che per mezzo di un plinto sostiene direttamente la statua. Ambi questi basamenti sviluppano le loro leggiadre membrature con molta ricchezza di ben intesi dettagli. Due bassorilievi in bronzo, relativi alla vita dell'eroica donna, abbelliscono le due principali faccie del gran dado inferiore, mentre nel superiore vi corrispondono alcuni riquadri con entro trofei allegorici. Di fronte alle faccie più strette del maggior prisma si levano diagonalmente quattro pilastrini smussati negli angoli con base attica ed un grazioso capitello improntato allo stile delle decorazioni del tempo. Essi sono alquanto distanti dal nocciolo principale, nell'intento assai razionale di alleggerire l'intiera massa. È su questi pilastrini angolari che si appoggiano vagamente quattro leoni cogli scudi, o, come si suol dire , marzocchi. - L'ornamentazione di tutti i particolari è sobria e grandiosa allo stesso tempo; l'equilibrio fra le partiture orizzontali e verticali assai bene combinato, gli oggetti convenienti ad ottenere quel movimento che sorge dal giusto digradare dei piani. L'effetto dell'insieme poi, è grandioso, e armonizza colle linee della statua... Non esitiamo a dire, che fra le molte basi monumentali che in questi ultimi tempi si sono ideate, questa del Falcini ci pare una delle più belle. La ristrettezza delle somme di cui poteva disporre il Comitato impedivano all'artista di pensare ad uno di quei piedestalli decorati di statue, qual'è quello, per esempio, del Demidoff a Firenze e l'altro di Cavour a Torino. Ciononostante l'abile artista seppe adottare un partito conveniente, sviluppando con semplicità, non disgiunta da ricchezza in tutte le sue parti, ed ottenere uno di quelli effetti che dimostrano la vera forza dell'arte consistere meglio nella buona scelta delle proporzioni, che nella profusione inconsiderata degli ornamenti..."
Mi unisco pienamente la Vivanet, e dico che il piedestallo della Statua di Eleonora è un'opera pregevole, e merita encomio, e per la bell'architettura e per la precisione del lavoro, e sovratutto poi per aver ritratto in quasi tutte le sue parti lo stile architettonico del secolo XIV - epoca in cui visse Eleonora d'Arborea.
In quanto alla statua diremo, che nell'insieme è ben fatta. Forse ha qualche cosa di tozzo, ma in compenso è eseguita scrupolosamente, è ricca di panneggio (e forse anche troppo!)ed armonizza molto bene col piedestallo. Eleonora è rappresentata in piedi; regge colla mano sinistra la famosa Carta de Logu, ed ha il braccio destro ripiegato in su, avvertendo o forse minacciando i suoi sudditi, quasi per dire: - badate veh? io farò rigorosamente osservare la mia carta, e sarò inesorabile!
La statua però ha un difetto - un grosso difetto: non è Eleonora di Arborea, neppur per ombra! - Non gli abiti, non il tipo della faccia, non la pettinatura; insomma essa può rappresentare l'Italia in qualunque paese della nostra cara penisola; oppure, veduta da lontano, con quella corona da regina che sembra un aureola, e con quel dito che vi mostra il cielo, potete benissimo prenderla per una santa, vergine e martire.
Un altro difetto nota il pubblico; ed è che i leoni sembrano quattro cagnolini. Gli architetti difendono tecnicamente queste sproporzioni, affermando che i leoni formano parte ornamentale del piedestallo e non hanno niente da vedere colla statua; perché se si dovesse tener conto di tali osservazioni si potrebbe pur dire che l'Eleonora rappresentata nel sottostante bassorilievo in bronzo è una marionetta, in rapporto colla statua. Con buona pace degli Architetti che avranno tutte le ragioni del mondo, io dico che i profani che osservano non hanno tutti i torti. L'occhio, abbracciando l'insieme del monumento, trova subito quel distacco, e non è soddisfatto. Nel vedere quella donna molto più grande del naturale, ed ai suoi piedi quattro leoni così piccoli, non si può fare a meno di compararli a cagnolini; e per i profani sono cagnolini - e saranno sempre cagnolini!
Insomma, lasciando i quattro re della foresta, e tornando alla statua, noi ci domandiamo meravigliati: ma perché il Prof. Cambi non ha voluto ritrarre le sembianze ed il costume della famosa eroina di Sanluri? Non esiste forse il ritratto di questa donna: un ritratto così originale, con lineamenti così marcati, che è rimasto impresso nella memoria di tutti i sardi?
Un tempo, è vero, si udiva celebrare il nome di questa gran donna, ma nessuno poteva immaginarne le sembianze, perché non si aveva un ritratto di lei.
Dopo la scoperta delle Carte di Arborea, il desiderio del popolo di conoscere questa Eroina si fece più ardente; e fu allora che il cittadino sassarese Conte Boyl, o che veramente fosse stato tratto in inganno, o che lo facesse col patriottico scopo di contentare i sardi, battezzò col nome di Eleonora una statua, e la collocò nel Giardino Pubblico di Cagliari; e il pubblico l'andava sempre a visitare, e la trovava bella quanto il sole, risplendente quanto la luna, amabile quanto una rosa di Beranu - come diceva una poesia di Donno Giovani Cubello di Oristano, rinvenuta nelle carte di Arborea.
Fatto è però, che il valente archeologo Giovanni Spano svelò a tutti che la famosa statua di marmo che era nel Giardino pubblico di Cagliari non era già Eleonora di Arborea, ma bensì una statua antica rappresentante una sacerdotessa di Giunone di Nora, chiamata Favonia Vera.
Ed ecco di nuovo i sardi senza il ritratto di quella gran donna.
Il caso, però, portò nuovamente la gioia nel cuore dei sardi. Verso il 1837 si distrusse la Chiesa di S. Francesco dei Conventuali, e furono vendute moltissime tele o tavole appartenenti a quel convento. Lo Spano comprò una parte di questi quadri, e li pulì. Qual non fu però la sua meraviglia e la sua soddisfazione quando in uno di essi vide comparire il nome di Donna Leonora? Lo mandò subito ad Alberto Lamarmora a Torino, questi lo fece esaminare da valentissimi pittori, i quali giudicarono il ritratto essere antico, e la pittura del secolo XV. Lamarmora fece fare a sue spese una ricca cornice dorata, colle armi di Arborea, e lo restituì così allo Spano, il quale ne fece dono alla Galleria della Biblioteca di Cagliari, dove oggi si trova.
Di questo ritratto furono fatte centinaia di copie ad olio, in litografia, in incisione, in oleografia, ecc. ecc., e ben poche sono le famiglie sarde che non ne abbiano una copia in casa.
Le sembianze di questa donna sono ormai passate nel dominio del pubblico - oramai tutti i sardi sanno a memoria i lineamenti di Eleonora, il suo modo strano di vestire, l'espressione del suo volto ecc. ecc., motivo per cui non è a stupire se dinanzi alla statua testé inalzata ad Oristano, ognuno abbia esclamato con meraviglia: ma questa non è la nostra Eleonora!!
Lo scultore potrebbe osservare: - "ma chi vi dice che il ritratto di Eleonora da voi posseduto sia proprio quello di Eleonora; e non invece quello di una gran dama di quei tempi, chiamata donna Leonora?" Ciò però non significa nulla: il ritratto è creduto della figlia di Mariano, e i sardi lo venerano per tale. - È questione oramai di fede, e basta così. Invenzione per invenzione, è sempre migliore quella già accettata dal popolo, che quella che ci dà il professor Cambi.
Perchè non imitare l'autore del famoso quadro regalato dal Satta Musio, messo in lotteria dal Comitato? L'autore di quel quadro ha conservato rigorosamente il tipo, il carattere della nostra eroina, il taglio dell'abito, la pezzuola che ha sulla testa, e il vezzo d'oro che scorgesi nell'antico ritratto - ben inteso abbellendolo.
Perchè non ha fatto altrettanto il Cambi? Avrebbe per certo risparmiato molte dicerie sul conto di quella statua, che non si vuol riconoscere dai suoi compatriotti.
Vero è, se vogliamo, che nell'antico ritratto Leonora è un po' bruttina; quantunque gli ammiratori, nell'entusiasmo, vi abbaino trovato quella bellezza cantata dal poeta Cubello... Ma si sa bene in una regina, in una buona legislatrice ed in una coraggiosa guerriera, si trova tutto bello - anche un viso stranamente ovale, un naso stranamente lungo, ed una fronte stranamente spaziosa.
Ma della statua ho abbastanza parlato. Mi resta ora di far rilevare il patriottismo del Municipio di Oristano, e la solerzia del Comitato, i quali fecero ogni sforzo, e moltissimi sagrifizi, per eternare la memoria dell'illustre figlia di quella terra, che ha ben dritto all'ammirazione di noi tutti.
Le feste non potevano riuscire più belle; esse lascieranno sempre un grato ricordo nell'animo di tutti i forestieri che visitarono la città di Oristano in quella circostanza; e tanto il Municipio, quanto il Comitato, non potranno che insuperbire della loro opera patriottica.
Si calcolano a più di 15000 i forestieri intervenuti alle feste; e ciò che è degno di menzione, e che dimostra l'indole pacifica di quelle popolazioni si è, che durante quei tre giorni di festini, non un furto, non una rissa, non il più piccolo inconveniente si ebbe a lamentare.
Oristano ha collocato sopra un piedestallo la statua della sua grande eroina, appagando finalmente un suo desiderio, che era pur vivo nell'animo dei sardi, ed anche degli stranieri.
Valery, quando nel 1836 visitò la Sardegna, scrisse: "Mi rincrebbe assai di non aver potuto rinvenire ad Oristano né la tomba di Eleonora, né alcun vestigio che la rammentasse. La grande statua di marmo bianco, che va perduta in un boschetto di un piccolo giardino pubblico di Cagliari, sarebbe stata assai meglio collocata nell'antica capitale del Giudicato di Arborea" - (Valery né altri, non sapevano ancora che quella statua era invece di un'antica sacerdotessa).
La città di Oristano - lo ripeto - ha fatto un'opera patriottica; ed io chiudo questo mio terzo ed ultimo articolo colle parole scritte dal Mantegazza, a proposito della statua del nostro Domenico Alberto Azuni: "Quando una città ha la fortuna di aver dato la luce ad un grand'uomo e di ornare una delle piazze colla sua statua, rammenta al viaggiatore una pagina gloriosa della sua storia, e può uscirne onestamente superba. È la civiltà moderna che demolisce il castello del feudatario e colle vecchie pietre rizza una nuova scuola; è la nuova generazione che ai santi del calendario sostituisce le statue dei santi del progresso!"
 

 
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