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ENRICO COSTA


Una notte d'inverno
Enrico Costa

I

 

Inoltrava la notte — su nel cielo,

Come un drappo funereo,

Stendean le nubi un velo:

E un velo ancor, qual funebre lenzuolo,

Disteso avea la neve

Che, lieve lieve,

Cadeva spessa e a larghi fiocchi al suolo.

Era Deserto il loco — e da un superbo

Palagio signoril, che in bruno aspetto

L’ombre sfidava e il ciel, si dipartìa

Un’onda d’armonia

E un murmure incessante

Di confuse favelle. Era un alterno

Succedersi di suoni, e canti, e risa;

Un bisbiglio, un fruscìo,

Come di gente in seno all’esultanza. —

Sotto il patrizio tetto,

Fra i profumi e le musiche,

E i sussulti d’amore,

E le innocenti colpe di desìo,

Nel più vivo tripudio e nella danza

Ratte volavan l’ore.

Tenebre dense intorno — e sol fra l’ombre

Un fil di luce, tremulo,

Alle imposte sfuggìa

Per guizzar sovra il candido

Cristallo della via.

Addossato ad un breve muricciòlo,

Mesto, pensoso e solo,

Stava un fanciul coll’occhio fisso e intento

Su quelle illuminate

Splendide invetrïate.

Laceri i panni e scarsi, e avea il sembiante

Pallido e macilento;

Le piccole sue mani intirizzite

Sul nudo seno ei raccogliea tremante,

Tentando invan coll’alito affannoso

Di riscaldarle – Due furtive stille,

Agghiacciate dal gelo,

Immobili parean sotto le intente

Nerissime pupille

Che a quando a quando si volgeano al cielo.

 

Fioccava, ognor fioccava – e il poveretto

Dai panni e dalle chiome

Scuotea la neve – pari all’augelletto

Che ansante sbatte l’ale

Allor che il nembo in suo furor lo coglie,

E fra le spesse foglie

Si appiatta invan d’un platano ospitale.

Il tenue raggio che cadea rifratto

Sovra il gelido suolo

Si riflettea sul pallido sembiante

Di quel mesto figliòlo

Esposto al soffio rigido

D’una notte d’inverno.

Era forse uno scherno

Quello sprazzo di luce in quell’istante?

Oppur quel raggio, quasi senso avesse,

Additava al signore

Il figlio della colpa e del dolore?…

Ma la notte inoltrava,

E fioccava… fioccava.

Al suono delle musiche festose

Gemea l’aura commossa,

E fremevano i vetri

Sotto l’assidua, tremebonda scossa.

Pari a taciti spetri,

In voluttuosa danza, ad una ad una

Passavan l’ombre rapide

Traverso gli appannati

Cristalli colorati…

Fioccava… ognor fioccava,

E, tutto solo, nella notte bruna,

Il fanciullo tremava;

E mentre un vento rigido

Il volto a lui pungea,

Egli invidiava un angolo remoto

Nella ricca dimora,

Dove forse a quell’ora

I veltri del signore,

Sdraiati nella cenere, e fumanti,

Russavano al tepore

De’ tizzi crepitanti.

Soffria qul poveretto, eppur del gelo

Ei parea noncurante;

Fisse le sue pupille

Teneva in quel castello, e a mille a mille

Passavano i pensier confusamente

Nella piccola mente;

E, come in sogno, a lui facean ritorno

Le più soavi immagini

De’ suoi giorni infantili;

E una pallida donna egli vedea

Di sembianze gentili

Che vigile si stava al capezzale

Della misera culla.

Al cader d’ogni sera

Quella santa fanciulla

A lui giungea le piccole manine

In atto di preghiera,

E la pace del cor chiedeva al cielo;

Indi, con dolce cura,

Per salvarlo dal gelo,

Di scarsi panni il corpo ne coprìa,

E, con un canto

Rotto dal pianto,

Fra le lagrime e i baci l’addormìa.

In quel tugurio, povera e romita,

Una bella tradita

Celava il suo rossor… Da quelle porte

A cui volgea lo sguardo,

Un dì, torvo e beffardo,

Uscì un infame… e non fe’ più ritorno…

Il plauso a lui – lo scorno

S’ebbe la madre che non fu consorte!

Coll’ali del perdono ha Dio voluto

Cuoprire il primo fallo

D’un angelo caduto;

Ma disse al figlio: “Invan tu chiedi aita!

“Vanne a espiar la colpa

“Dell’infelice che ti die’ la vita!”

 

Fioccava… ognor fioccava,

E ai sogni lusinghieri

Degli anni suoi primieri

Il figlio della colpa ognor pensava.

Quelle care sembianze, quella culla,

Quel canto di dolore,

Eran tutta la storia

Della sua prima età! – mai altro il core,

Altro mai la memoria

Richiamar non potero dal passato.

Chi gli rapì quell’angelo

In forma di fanciulla?

Qual nome avea fra gli uomini?

Ei non seppe mai nulla;

Ma da quel dì fu sempre sventurato!

 

Fioccava… ognor fioccava…

E la notte inoltrava

Rigida, fosca, avvolta in bruno velo.

Fra il bianco suolo e il lugubre

Nero manto del cielo,

Come fiammelle intorno ad un avello,

Splendean di luce squallida

Le faci del castello…

Ma la danza fervea, ferveano i suoni;

E mentre una brïaca

Gente nell’orgia consumava l’ore

Sacre al riposo – là, sotto la sferza

Della neve e del vento,

Scioglieva il suo lamento

Il figlio della colpa e dell’amore:

 

II

Io piango – ma le lagrime

Nessun rasciuga al misero reietto:

Ho fame – ma fra gli uomini

Non trovo chi ristora un poveretto:

Gelo dal freddo – ma il seno materno

Or più non mi ripara dall’inverno…

Che faccio or dunque in questo crudo mondo,

Orfano e vagabondo?…

 

Siate pietosi – ditelo,

Ditelo a me: - dov’è la madre mia?

Perché mi espose ai triboli,

Povero e solo, in mezzo ad una via?

M’han detto ch’io son figlio dell’amore

E che il babbo fu crudo e senza core;

Ma se per lui così infelice io sono,

È un padre… e lo perdono!

 

Ma una madre, oh, impossibile,

Abbandonar suo figlio non potea!

Io la ricordo – un angelo

Era la mamma, e bene mi volea…

Se è morta, deh, recatemi da lei,

Chè vo’ narrarle tutti i casi miei…!

Io le dirò, ch’or degli affanni stanco

Dormir le voglio al fianco!

 

A sette anni folleggiano

Tutti i fanciulli… e questa è la mia etade!

S’io scherzo mi discacciano,

Dicendo che son figlio delle strade.

Li ho chiamati fratelli e m’han deriso,

Perché laceri ho i panni e scarno il viso…

E mi fu detto: - Va! che un trovatello

Non può avere un fratello!

 

Vedo talvolta un piccolo

Fanciullo passeggiar presso la mamma;

Ha un abitino candido

E una cintura rossa come fiamma.

Io lo seguo con gli occhi, e invidio tanto

Quell’abito e la donna che ha da canto:

Perché madre non ho che belle vesti

Nella festa m’appresti!

 

Io chiedo a tutti, supplice:

“Datemi un pane! non ho alcuno al mondo!”

E tutti mi rispondono:

“Non accattar! lavora, o vagabondo!”

Lavorare? buon Dio! ma non san loro

Ch’io sono un bimbo e non mi dan lavoro?

Ditemi or dunque, che far deggio mai?

Ho fame… e soffro assai!

 

Dolci, confetti e ninnoli

Io vedo nelle mani dei fanciulli:

Duolo, sospiri e lagrime

Son tutte le mie gioie e i miei trastulli.

Perché lacero sono, e ognun mi sprezza…

Io non so che sia festa e che sia riso:

Ho mesto il core e il viso!

 

Quando ogni anno festeggiasi

Il giorno della Pasqua, o del Natale,

Vedo dovunque il giubilo

De’ miei compagni – a me ogni giorno è uguale.

Io non ricevo dalla mamma in dono

L’uovo di Pasqua! – Un orfanello io sono,

E me ne vo soletto ad un altare

A piangere e a pregare.

 

Nel dì dell’onomastico,

O quando si festeggia il Capo d’anno,

Tutti i fanciulli corrono

Dai genitori… e bei regali essi hanno!

Io, vergognoso e muto, sto in un canto;

Invidio tutti e mi disciolgo in pianto.

Io, che fui condannato a un duol perenne,

Non ho baci, né strenne!

 

Oh me infelice! – il lastrico

È il mio giaciglio – e quando spunta il giorno

Non mi risveglia il fervido

Bacio materno. Tutto il dì d’attorno

Corro a una gente sorda alla preghiera;

E quando afflitto e stanco io torno a sera

Al mio covo, non veglia al fianco mio

Donna che preghi Iddio!

 

Sette anni ho appena, e invidia

Porto ai figli de’ ricchi e dei felici:

Nutro rancor per gli uomini

Che con lo sprezzo mi si fan nemici…

Deh, salvatemi voi! – potrei cogli anni

Essere un tristo apportator di danni…

Pietà di me! – togliete un derelitto

Dalla via del delitto!

 

Stamane ho visto un feretro

Con un serto di fiori e un roseo manto,

E m’hanno detto: – “È un angelo

Che torna dal Cielo!” – Io l’ho invidiato tanto!

E ho fatto una preghiera: o buon Signore,

Toglimi tu dal mondo del dolore:

Quell’angelo che dorme, il cor mel dice,

È  di me più felice!

 

III

Di un incerto chiaror l’alba tingea

Il cielo all’orïente, e lieve lieve

Fitta cadea la neve –

Nei tepidi saloni

Del superbo castello

Le faci impallidivano:

Non più danze, non canti, non più suoni!

Avvolti nel mantello,

Pallidi, stanchi, a passi concitati,

Tornavan gl’invitati

Alle proprie dimore.

Due giovani patrizî, a cui l’ebbrezza

Destava il buon umore,

Si reggean, barcollando, al muricciòlo,

Là dove il trovatello

Chiedea conforto a’ suoi precoci affanni.

Un corpo inerte al suolo

Giacea disteso. Urtò del piede in quello

L’un dei compagni; e l’altro, per trastullo,

Scostando i rozzi panni

Col giunco signoril, scuoprì un fanciullo.

“– Che fai tu qui, monello?

“Freddo è il guancial su cui riposi il capo…

“Sorgi, sordido ghiro,

“O ch’io la neve da’ tuoi panni scuoto!

Gelido, senza moto,

Era quel corpo. Non gli uscì dal labbro

Un lamento… un sospiro.

“– Ma tu lo sgridi a torto!

Disse il compagno – andiamo:

“A casa io fo ritorno.

“Non vedi tu che è morto

“E che più non si desta?

“– Oh sta a veder che ti commuove questa

“Commedia d’ogni giorno!”

 

Si mossero quei due – Regnava intorno

Il più alto silenzio – sol si udia

Per la deserta via

La monotona pesta

Dei passi in sulla neve, e un cicaleccio

Misto a scrosci di risa in lontananza:

Era la rimembranza

Del passato tripudio e della festa!

E intanto sovra il lastrico

Giaceva il trovatello.

Dagli umani una lagrima

Non ebbe in vita – e or posa senz’avello.

O felici, esultate!

Alla sventura il poveretto crebbe,

Ma un sorriso non ebbe:

Soffrì la fame – e un pane gli negaste:

Il freddo lo gelò – ma non gettaste

Un cencio mai su quelle ignude membra:

Or giace – e niun rimembra

Che un’ora sola abbia vissuto al mondo!

Chi mai dunque si cura

Di un tristo vagabondo?

Vera giustizia è questa!

A lui miseria e lutto…a voi la festa!!

E gli negaste fin la sepoltura!

Ma, di voi meno ingrata,

La provvida natura,

con u manto di neve,

A lui compose un funebre lenzuolo:

E mentre ella vi mostra

Quelle tenere membra irrigidite,

A voi dice sdegnata:

“O felici del mondo, or su! gioite: –

“Ecco l’opera vostra!

 

Sassari, luglio 1876.

 
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