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ENRICO COSTA


Realismo. Scopo dell'arte e della letteratura
Enrico Costa

A Giacinto Stiavelli 

Amico mio - io non vengo oggi a te come un frate cappuccino che abbia in animo di ottenere il tuo ravvedimento - né come un missionario che voglia sedurre il tuo cuore per convertirti alla sua fede. Iddio mi guardi da simili tentazioni! - ho ancora un bricciolo di buon senso per capire da me, che tutti abbiamo dinanzi agli occhi una lente speciale, o concava o convessa, attraverso la quale vediamo le cose ingrandite o impicciolite. - D'altra parte, né io oserei farti una predica, né tu ti lasceresti sedurre da me - per la semplice ragione che le tue idee valgono le mie... e viceversa.
Così alla buona, quasi in risposta al tuo articolo sul Realismo in Poesia, pubblicato nel passato numero della Stella, voglio esternare alcune mie opinioni su questa benedetta Scuola, la quale oggigiorno vien cantata e decantata in tutti i toni maggiori e minori della scala cromatica.
Lasciando le pompose definizioni sulle buone o cattive qualità dello spirito umano; sulle tendenze naturali in rapporto coll'esigenze sociali; lasciando le lotte più o meno accanite tra lo spirito e la materia, tra gli scettici filosofi e i credenti poeti - tutte ciance che occuperebbero molto spazio senza alcun risultato - io getto addirittura la questione sul tappeto, senza pretensione di sorta - proprio alla popolare - come si farebbe con un uditorio di buon contadini che frequentano le scuole serali della domenica.
- Qual è lo scopo dell'arte e della letteratura? - Quali sono gli obblighi dell'artista e del letterato?
Rispondo al mio piccolo uditorio, il quale non si preoccupa affatto di separare lo spirito dalla carne, l'uomo dalla scimmia, l'angelo dall'uomo.
Supponiamo che tutta l'umanità si componga di soli cento individui, i quali un giorno, lasciati gli antri, i boschi e le foreste vergini, dove vivevano come le bestie, rubandosi a vicenda le donne e gli averi, abbiano avuto in animo di riunirsi in società per comporre una Nazione in sessantaquattresimo.
Convocati in assemblea generale, il più vecchio di loro prende la parola:
« - Cittadini! - anzi: forestali! - invece di fare questa vitaccia da orsi, pensiamo da una buona volta a formarci una patria. - Bisogna lavorare, se vogliamo esser ricchi - bisogna aiutarci l'un l'altro, se vogliamo godere un po' di pace - bisogna essere uniti, se vogliamo esser forti - bisogna istituire il matrimonio, se vogliamo avere una buona famiglia - bisogna infine essere onesti, se vogliamo che questa famiglia sia conservata.
« - Forestali! Di cento che noi qui siamo per formare la società, novantasei debbono zappare, seminare, tessere e fabbricar case - uno farà il carabiniere e l'esattore - gli altri tre saranno mantenuti a nostre spese, perché si dedichino alle scienze, alle arti belle ed alla letteratura, collo scopo di perfezionare, di raffinare la nostra piccola civiltà. Questi ultimi devono studiare i nostri bisogni - debbono analizzare le nostre terre per renderle produttive, inventeranno macchine per renderci più facile e meno penoso il lavoro; faranno leggi per governarci - nei momenti del nostro riposo essi devono esilarare il nostro spirito colla pittura, colla musica, e con quei geniali trattenimenti, i quali, per mezzo del diletto, tendano sempre al nostro miglioramento, destando nei nostri cuori sentimenti gentili, e nel nostro animo affetti generosi. Insomma, noi risparmieremo loro i lavori di schiena, purché ci sappiano condurre progressivamente nella via del dovere e della felicità: ben s'intende, di quella felicità possibile nel mondo. - A noi il dovere di mantenerli convenientemente - ad essi l'obbligo di renderci meno dura la vita. Se tradiscono la loro missione noi li scaccieremo dal nostro consorzio, perché, oltre a vivere alle nostre spalle, sfruttando i nostri risparmi, sarebbero essi dannosi alle nostre famiglie - e per conseguenza alla nostra piccola Nazione.
« - Forestali: diventiamo cittadini! All'opera dunque! - Voi, o novantasei, alle vanghe, all'incudine, al martello! - voi, o tre mantenuti, alla penna, allo scalpello e alla tavolozza! - e tu, carabiniere, fa l'esattore e sorvegliaci! - »
E la piccola società viene legalmente costituita col capitale della fede, dell'onestà e del lavoro.

***


Dimmi ora, amico mio: non ti par forse che sia un perfido colui, artista o letterato, che non ha per meta il perfezionamento sociale: che invece di recar vantaggio reca danno ai suoi simili: che invece di ingentilire gli animi e di condurli nella via del dovere, tradisce il proprio mandato inneggiando ai ginecei, gettando il dubbio, lo sconforto e l'immoralità nel seno dell'umano consorzio? - Non ti pare che costui viva alle spalle della società, pagandola perfidamente coll'ingratitudine?
E ti pare che il realismo - questo realismo scollacciato fino... ai ginocchi - risponda proprio all'alto scopo? che sia sceso in campo (come tu scrivi) per richiamare la letteratura al suo vero indirizzo? - Ma come dovrebbero comportarsi i novantasette che lavorano (compreso l'esattore-carabiniere) con i tre mantenuti ribelli? - Essi avrebbero diritto di dire: « - Cittadini ex forestali! postocchè i nostri mantenuti invece di giovarci ci recano danno, facciamoli lavorare come noi. Tutti i cento alla zappa! - saremo meno immorali, e più ricchi!! - »

***

Tu però dici: « - Dobbiamo ritrarre la società qual è - la donna qual è - gli uomini quali sono; dobbiamo insomma ritrarre il vero. - »
Sì - tu hai ragione - bisogna ritrarre il vero; ma solamente quando il vero è buono, e quando il buono è onesto! Altrimenti il vero lasciamolo nei canali di spurgo e nelle fogne!
- E se la società è cattiva, corrotta, incorreggibile, gettiamo un pietoso velo sopra di lei, non ritrattiamola per il crudo piacere d'irriderla.
Tu non vuoi mettere l'arte a servizio di chicchessia: non vuoi dimandarle uno scopo; e con tutto ciò, la tua arte ottiene indirettamente, e forse involontariamente, uno scopo: quello di pervertire. - Ond'è che questo Realismo mi fa ricordare quel povero matto che si divertiva a gettar sassi dalla finestra della sua abitazione. Interrogato del perché, egli rispose:
- Lo faccio senza scopo.
- Ma tu rompi la testa ai passanti!
- Che ne so io? Peggio per chi passa sotto alle mie finestre. Non ci sono forse altre vie nella città? - »
Boucheron lasciò scritto:
« Lo scopo dell'artista non è riposto nel solo diletto dei sensi; ma suo primo dovere è tendere al perfezionamento morale. È indegno dell'uomo dotato di qualche altezza di ingegno il non aspirare a sì nobile meta; è indegnissimo di chi può col mezzo di una bella arte divenire l'arbitro di tutte le volontà, prostituire l'arte propria alla corruzione. - »
Ed io credo che non abbia scritto una corbelleria!

***

Ritrarre la società qual è!
Forse prenderò uno di quei granchi che son fatti... per essere presi; ma parmi appunto questo l'errore madornale in cui si cade!
Noi non dobbiamo ritrarre la società qual è in massima - ma bensì la società quale dev'essere. Mettere in evidenza le virtù e non i vizi; salvo che questi ultimi non si ritraggano coll'intendimento di combatterli. - A che dunque questa smania di ritrarre la società qual è, se la società è tutta corrotta? Abbiamo noi bisogno delle riproduzioni fotografiche, quando ogni giorno, ogni ora, ogni momento ci cadono sotto gli occhi i quadri originali?
Credilo pure, Giacinto - e se non lo credi tu, lascialo credere a me: l'arte e la letteratura devono ritrarre la società come deve essere; non con tipi impossibili, ma con tipi possibilissimi che al mondo non mancano di certo, se vogliamo cercarli, o meglio, se vogliamo creder loro, poiché oggigiorno la moda ci costringe a far professione sistematica di dubbio, su tutto e su tutti! - ond'è, che il Realismo non crede (come tu asserisci) senza toccar con mano, o senza aver prove autentiche. E di chi la colpa se il Realismo, invece di toccare le carni sane, mette sempre il dito e la mano sulle carni guaste e sulle piaghe schiffose? - Se tu persisti a credere che il mondo sia composto di sole sgualdrine e di cattivi soggetti, uniamoci almeno in società, per far credere ai nostri lettori che noi due non siamo poi tanto birbaccioni!!
Io non parlo di Mitologia - non parlo di Arcadia - non parlo di forme e concetti convenzionali, né di vecchiumi che conciliano il sonno ai polli; - dico solo che per certe feccie dell'umanità esistono i canali di spurgo - e se questa roba è molto utile per ingrassare le campagne di certuni, non è buona ragione perché noi dobbiamo decantarla in versi e in rime, ponendola sull'altare!
E per oggi basta.
Se la pazienza non mi farà difetto, continuerò nei numeri venturi le mie meditazioni.

 
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