Attraversamenti
La mia nuoresità
Due date segnano il tempo cronologico del mio vivere in questa città: 1939-1969; ma la mia nuoresità, se esiste, è costruita di tempo interiore, con alti ritmi e altri sussulti.
Orune, il paese dove sono nato, sembra a portata di mano, ma la sua distanza da Nuoro ha seguito sempre variabili psicologiche più che coordinate geografiche.
Noi orunesi siamo divoratori di spazi; le distanze che non possiamo attraversare fisicamente le percorriamo con la mente o con lo sguardo, che pare mosso da un istinto di rapacità. Questo nostro modo di essere ci ricollega agli antenati pastori, ma è anche un riflesso della solitudine di Orune, arroccato su quell’altura, dove i venti hanno scarnificato le pietre e gli uomini.
Prima della parola abbiamo appreso a guardare lontano e io credo di aver aperto gli occhi della mente guardando Nuoro, ch’era lì, davanti alla mia casa, col suo monte, la sua cattedrale e il fumo del suo trenino, unico segno di vita in quell’immobilità di sasso. Il nome l’ho appreso dopo, quando Nuoro era dentro di me come estremo polo di un muto dialogo e meta di una possibile proiezione. Attorno al nome si costituirono i nostri poveri miti. Tutto ciò che proveniva da Nuoro aveva gli echi di un altro mondo. Mio padre modellava le trachiti e i graniti dell’ufficio postale e a ogni rientro in paese raccontava delle sue fatiche e di Nuoro, che mutava dentro e fuori espandendosi oltre ogni confine.
I servi pastori raccontavano altre storie, insensatamente paghi di essere assoldati dai predatori nuoresi che avevano inventato il furto su “mandato”, tirocinio scellerato per la promozione a balente. Anche i ladri di Orune avevano ragioni di dipendenza da quei predatori che negli uffici dell’Abigeato riuscivano a compiere prodigi trasformando in lecito l’illecito.