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SALVATORE MANNUZZU


Torino, Giulio Einaudi Editore, 1995
Il terzo suono
Salvatore Mannuzzu

Polaroid

Non ho mai visto Piero Weiss, neanche da morto. O meglio l’ho visto in fotografia: sulla sua patente, sul suo passaporto, sulla sua tessera di pubblicista; pubblicista era la professione registrata in quei documenti: e non credo ne esista una più vaga. Quegli occhi grandi e neri che guardavano di lato – si trattava di un’unica posa – continuarono a essere reticenti sino alla fine. Del resto come poteva venirne l’indicazione che a me serviva? In seguito ho visto del personaggio anche alcune istantanee: sono diligente; e mi ci sono soffermato con un po’ di curiosità. Magari senza la curiosità giusta: esserne privo è un grave difetto, nel mio mestiere.
Istantanee balneari, persino “spiritose”, prese quella stessa estate da un certo Marcello Dessì, che chiamavamo o si faceva chiamare Marcel, alla francese. È difficile che il costume da bagno giovi, specie a una certa età: e rendeva poca giustizia al Weiss; o era la giustizia che gli spettava? Comunque, lì su quella barca, lui non pareva scherzare come altri della compagnia, al momento dei sette, otto frivoli scatti. Che lo “immortalavano”, s’usa dire, e il termine risulta stranamente appropriato. Ma può darsi fosse – in genere – un uomo noioso: l’impressione mi si è poi rafforzata. Per quanto io non sia legittimato a muovere simili rimproveri; e Piero Weiss si trovi soggetto ormai a ben altri, se hanno corso e li ha meritati.
Nonostante il nome, era italiano: origini triestine, capitato qui in vacanza per via di certe parentele. Media età (considerando come questa media cresce), piuttosto magro, aspetto qualsiasi; e assai abbronzato: a nascondere gli occhi lenti scure, che dovevano essere graduate – perché era miope, risultanza sicura fra tante dubbie o mancanti.
Incontestabilmente, non fotogenico. Ma in ogni caso adeguato alla compagnia di cui faceva parte: «Si divertiva, quel giorno», la signora disse a commento delle immagini che mi mostrava.

 
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