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CARLO BRUNDO


Cagliari, Tipografia Timon, 1882
Lucrezia Montanina
Carlo Brundo

La guardava fitto fitto con gli occhi infiammati dalla passione, accosciato sul ceppo d’un frondoso leccio. Il gomito destro appoggiava sul ginocchio, la guancia bruna sopra la palma della mano; mentre lei, lontana appena un trar di sasso, attingeva alla fonte.
Erano soli.
I rosei riflessi d’un tramonto primaverile, rotti qua e là dalle ombre projettate dalla selva vicina, lumeggiavano un quadro stupendo per varietà ed armonia di colori digradanti senza fine. La voce umana non si mesceva ai segreti bisbigli della natura. Il mesto murmure del ruscello povero d’acque, il garrulo cinguettare degli uccelletti ritornanti al nido materno, i rumori confusi del prossimo villaggio, le cui case disseminate sul dosso del monte, a mò di mandria in traccia della fresca pastura, col rendere uno spettacolo assai pittoresco destavano nell’anima un indefinibile sentimento di malinconia.
Egli era un mandriano di Gairo appena ventenne, alto e ajtante della persona, vigoroso, traverso, bruno e bello di quella bellezza ingenua e poetica, ma rozza e primitiva, che tanto piace a chi il similoro della città, la folla cascaggine, i sorrisi mentiti, i colori artefatti e tutti lenocinj, onde la moda ci rende falsi e scettici, abbiano con la sazietà fatto venire li stomachini.

 
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