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GIUSEPPE MARCI


Nuoro, Poliedro, 2004
Il tesoro di Todde
Giuseppe Marci
CAPITOLO PRIMO
22 dicembre 198...
Il professor Giuseppe Torres scese dal taxi, porse una banconota all'autista, raccolse dal sedile posteriore la borsa e con un cenno della mano significò che non attendeva resto.
L'auto ripartì emettendo un soffio di fumo che aleggiò sotto la pensilina dell'aeroporto sollevandosi lentamente per svaporare nell'aria grigia.
Torres lo guardò evoluire finché fu del tutto scomparso.
Solo allora s'accorse di provare freddo, posò per terra la borsa e indossò il trench che teneva piegato sul braccio. Chiuse i bottoni e allacciò la fibbia per sostenere il bavero rialzato.
Non aveva voglia d'entrare nell'aerostazione. Frugò in una tasca interna, prese una sigaretta e l'accese aspirando profondamente la prima boccata.
Per un attimo pensò alla miscela di fumi prodotti dallo scarico delle auto e dal tabacco. Sorrise e continuò a fumare.
In due passi fu fuori dalla pensilina.
L'aria era impregnata di piccole gocce che si condensavano sui baffi. Allungò il labbro inferiore e sorbì quell'umidità come una medicina buona che consola.
Milano era perduta nella foschia e anche i monti lontani restavano discretamente celati alla vista. Cominciava a piovere fitto.
Riunì il pollice e il medio per far volare la sigaretta; osservò la parabola luminosa e con soddisfazione vide il mozzicone infilarsi sfrigolando nella pozzanghera verso la quale l'aveva indirizzato.
C'era un gusto straordinario nell'accendere una sigaretta e un piacere altrettanto forte nel separarsene con violenza.
Così è la vita, sempre, che tanto ci affanniamo per ottenere ciò di cui dopo poco vogliamo liberarci.
Il mozzicone galleggiava volgare nell'acqua increspata dalla pioggia.
Gli sarebbe piaciuto entrare in quella pozzanghera, e sguazzarci, come faceva quand'era bambino, la madre inutilmente disapprovante.
Anche il ricordo della madre lo fece sorridere, con affetto.
Sorrideva ancora quando scosse la testa e si accorse dell'acqua che gli bagnava i capelli lunghi scivolando poi sul bavero rialzato.
Non avrebbe approvato, sua madre, quella testa scoperta sotto la pioggia.
Si sentì adulto e forte, libero di camminare a testa alta anche dentro una bufera.

Le porte scorrevoli gli cedettero il passo. Sbottonò il trench e lo scosse per far scivolare le gocce di pioggia.
L'orologio sopra il bancone segnava le 16,30, un'ora esatta prima del volo.
Era riuscito ad arrivare puntuale e lì si chiudeva ogni sua azione autonomamente determinata. Tra breve un impiegato lo avrebbe preso in carico, videosistemato nella memoria del computer, assegnato a una poltrona - zona non fumatori che sempre chiedeva in odio alle altrui sigarette -, cartellinato con etichetta adesiva, lui e la sua borsa rimessi nelle mani della compagnia aerea, fino allo sbarco nell'isola.
Aveva lasciato la stanza d'albergo di buon mattino, nella città in cui lavorava. Un ultimo sguardo all'armadio e ai cassetti. La porta chiusa. La porta riaperta per l'insopprimibile bisogno di controllare sotto il letto.
Cosa diavolo si potesse dimenticare sotto un letto non avrebbe saputo dirlo, un miserabile paio di ciabatte, al più. Ma non riusciva ad abbandonare una stanza d'albergo senza compiere quel gesto scaramantico: si sentiva al riparo dall'angoscia che gli procuravano le partenze.
Aveva riconsegnato la chiave e sistemato il conto.
- A rivederla, professore, buon viaggio e molti auguri.
- Buon giorno - aveva risposto brevemente, e solo allora aveva capito che non desiderava vederlo mai più, quel servile portiere d'albergo, e l'albergo intero con lui, e la città con dentro l'albergo e l'università nella quale insegnava.
Aveva riflettuto, mentre viaggiava in treno diretto a Milano e per la prima volta aveva pensato che volentieri avrebbe fatto a meno di vedere anche i libri sui quali aveva trascorso gran parte dell'esistenza.
Una bestemmia. Possibile che rinnegasse i suoi studi, le matematiche delle quali s'era nutrito, l'essenza stessa dei ragionamenti e delle visioni generali che lo animavano, la forma della mente sulla quale aveva costruito una vita?
L'armonia e la proporzione dei numeri, la bellezza segnica delle loro fisionomie, innanzi tutto. Il 3, equilibrato e simmetrico, il 7, così agile e svelto, virile, mentre il 2 mostra un tratto femmineo che lo incantava, ogni volta, a vederlo scritto con quell'andare sinuoso e ammiccante, del tutto seducente.
Non aveva aperto un giornale, per l'intero viaggio immerso nelle numeriche fantasticherie che l'avevano preso, nel gioco delle combinazioni moltiplicatorie e divisorie sempre più ardite, nella consolante certezza di poter sfidare qualunque meccanico attrezzo e di batterlo per rapidità e precisione di calcolo.
Poi l'arrivo a Milano, la chiamata di un taxi, il trasferimento a Linate. Hoc est quod unum est pro laboribus tantis: la dolcezza di affidarsi alle mani altrui, quando volizioni non possono essere più espresse e solo resta da attendere.
- Bagaglio, prego?
- Una borsa.
L'impiegato gli porse la carta d'imbarco:
- Il volo sarà ritardato di un'ora.
- Grazie - disse come se non gli importasse.

Scartò l'idea dell'ascensore che l'avrebbe costretto a incongeniali compagnie. Salì due rampe di scale e raggiunse il bar.
La sala non era molto affollata. Commessi d'affari parlottavano di fronte alle ventiquattr'ore aperte, con il tono di chi ritiene che le sorti economiche della nazione dipendano dal proprio operare.
Gruppi di ragazzi discutevano a voce alta e ridevano, multicolori nelle giacche sgargianti, gli sguardi nascosti dagli occhiali specchiati. Chissà perché li portavano, se il tempo era scuro.
Una orribile vecchia signora aggiustava la cipria nello specchio del suo beauty case.
Torres cercò il posto più lontano, accosto alle ampie vetrate che affacciavano sulle piste. Strinse il nodo della cravatta e passò la mano sul tweed della giacca ricavandone una confortante sensazione di benessere.
Sedette e cominciò a bere il caffè appena macchiato di latte.
Prese dalla borsa un libro e una pipa. Caricò con precisione il fornello e accese.
La pioggia batteva sui vetri con insistenza. Cercò un curapipe e sistemò il tabacco.
Sprofondò nella poltrona come chi si prepara a una lunga attesa, aprì il libro e cominciò a leggere:

Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti

Dicevano parole di poesia, le antiche donne della sua infanzia, nelle notti di primavera che il glicine coloriva di profumo estenuato.
Giungeva presto il caldo, laggiù, tiepide arie africane che invitavano sotto il cielo stellato.
Lo tenevano in braccio perché le asprezze del suolo riarso e i graniti che formavano i quadri delle aiuole fiorite non gli ferissero i piedi già scalzi per la notte.
Appoggiati alla barandiglia della grande scala stavano a lungo a parlare. Il bambino guardava le stelle e resisteva al sonno che incalzava:
- Dormi, bambino.
Accennava di no con la mano e si lasciava cullare dall'aria calda, dai profumi, da quelle braccia affettuose che lo reggevano:
- Dormi, bambino, i tuoi sogni li veglieranno le stelle.
E ancora lottava con l'abbraccio del sonno che voleva chiudergli gli occhi:
- Quante stelle risplendono su questo giardino - diceva la dolcissima nenia.
Sprofondava nel sonno, ma percepiva i profumi, il glicine e il gelsomino, la nota più fresca del fiore d'arancio:

... e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo.

S'erano incisi nella coscienza, i suoni e i profumi, uniti in maniera inestricabile alla percezione dei sentimenti.
Mai più nella vita, ormai fatto adulto, avrebbe distinto gli aromi dell'aria, lo scintillio delle stelle, le affettuose parole di donne dal ricordo di quel giardino paterno dove abitava fanciullo.
La stessa idea di paternità, il sentirsi figlio delle generazioni pensose che gli stavano dietro le spalle da quegli ambienti lo derivava, da quegli spazi di libertà, dall'austera costruzione e dall'alto muro che racchiudeva il giardino della sua infanzia.

L'aveva trovata, la casa, quando la prima volta era giunto a C., ancora in fasce, ultimo erede del nome di famiglia, unico maschio. Come un'investitura.
L'antico complesso era stato diviso, in parte passato alle mani distratte di gente che non era turbata dall'incannucciato privo di tegole, dalla pittura slavata per l'acqua filtrante, dalle malve che avvinghiano la superba rosa e ne intristiscono il germoglio.
Soltanto l'ala in cui abitava la sua famiglia conservava i segni del passato decoro e ne perpetuava la nostalgia.
Nel giardino che il nuovo muro di cinta rimpiccioliva aveva mosso i primi passi. A piedi nudi sulla terra calda, le mani posate sui graticci dove seccavano i fichi e i pomodori cosparsi di sale.
Profumi e rumori dell'infanzia, il ritmico battere delle donne accovacciate sotto il porticato, intente a sgusciare le mandorle. E lo scuro magazzino al cui interno gli uomini scaricavano i sacchi delle carrube portate dai carri tremolanti. Una piramide di dolcissimo odore sulla quale saliva, allentata la sorveglianza nell'ora pomeridiana quando nonna Sofia e le zie riposavano, fino a un'altezza vertiginosa. Le gambe nude affondate nel fresco contatto dei baccelli carnosi, voluttà proibita da cogliere furtivamente, prima che una voce di adulto ponesse fine a quel gioco.
Tutto profumo, gradevole sensazione del tatto, brusìo che accarezza l'orecchio, istinto contento di sé: poteva muoversi nei grandi spazi di un'assoluta libertà.
Quieta invece la casa, e riflessiva nell'oscurità delle cortine socchiuse. Fresca per l'ombra degli spessi muri, le persiane incrociate. Finivano sulla soglia le rumorose corse, prevalente l'obbligo di non turbare il sommesso conversare dei suoi.
C'era, in quel silenzio, l'immagine della decadenza.
Da tre lustri morto il vecchio padrone Torres, cessati per sempre il via vai dei servi, l'operosa veglia nella notte, il nitrire dei cavalli. Tutto smorzato.
I campi avevano perso le messi, i muri a secco crollati sotto l'incalzante passo di orde pastorali in cerca di più comodi accessi, i rovi superbi sulla buona terra della vigna, molte tanche vendute e parte della casa con esse.
Quello che era rimasto consentiva una vita sicura. Ma passiva, disgiunta dal moto vitale del paese, imbalsamata.
Così la famiglia trascorreva il suo tempo, le quattro chiacchiere coi vicini, il bicchierino offerto all'ospite di riguardo, l'esazione dei fitti. E la nostalgia della potenza perduta, l'albagia nei confronti della piccola gente, dei nuovi ricchi che avevano creato rapide fortune. Gente da tenere alla larga, da non ammettere alla confidenza, il bicchiere lavato accuratamente dopo che avevano bevuto.
Lì era cresciuto, misurato nelle parole, dissuaso dal gioco con i coetanei, estraneo alla vita del paese.

CAPITOLO SECONDO
Nonna Sofia era alta, e bella negli occhi azzurri che avevano continuato a risplendere fino all'estrema vecchiezza. Nonna Sofia era forte, regina che governa la casa e niente può accadere, nelle stalle e negli appartamenti ombrosi ch'ella non guidi con mano ferma.
Gliele accarezzava, le mani, seduti alla sera accanto al camino nella cucina appena rischiarata dal lume a petrolio posato sugli alti fornelli.
La seggiola della nonna era come un soglio regale che nessuno poteva occupare, neppure in sua assenza. Bruciavano in silenzio i ciocchi del lentisco che i carri avevano portato faticosamente. Il gatto dormiva in un canto e sognava la pentola che borbotta dal primo mattino sulle braci nuovamente attizzate.
Sere d'inverno che non finivano mai. Al primo buio rientrava dalla campagna dove aveva vagato per l'intera giornata osservando i mandorli che il vento raggricciava e la scure diminuiva, anno dopo anno, senza speranza di resurrezione.
Tutto diminuito, in quel mondo, rispetto ai ricordi che affioravano dai racconti. Come non ci fosse più vita, o uno scopo.
Attesa per secoli l'ultima grande impresa aveva sancito la fine, quando avrebbe dovuto salutare l'inizio di un'era nuova. Li aveva visti passare, gli uomini scuri con i loro macchinari, pompe che irroravano medicina contro le larve della zanzara e sui muri restava la scritta a caratteri cubitali DDT, con la data fatidica, 1953.
Della malaria diceva, la nonna, dei brividi della terzana, il freddo che non vincevano le coltri pesanti, il chinino. Fatti di un'età remotissima che non riusciva a figurarsi ma che gli inviava un'immagine di insicurezza e miseria: l'uomo fiaccato dalla febbre che doveva zappare egualmente, l'insidia celata in ogni pozza d'acqua verdastra. Ora tutto diverso: una forza nuova scorreva nelle vene e i bambini neppure sapevano di quell'antica minaccia che sempre aveva prostrato le popolazioni dell'isola: soltanto vedevano le calicerte, gli uccelli e le bisce che il veleno uccideva nelle scarpate lungo lo stradone terroso.
Un presagio, quelle morti incolpevoli di ciò che stava per avvenire, o forse era già cominciato, senza che nessuno se ne accorgesse.
Venivano in processione a toccare il portale di Todde, chi soltanto per salutare, raccolti gli stracci e pronto a partire scalpellino emigrante, chi per domandare se mai non fosse possibile trovare una buona parola che aprisse le porte della fabbrica d'auto, in Piemonte.
Aveva conservato, la padrona, legami d'affetti con la sua famiglia lontana. Di tanto in tanto arrivava un fratello, avvocato importante che si guardava intorno stupito per quella grande miseria.
A lui s'indirizzavano le preghiere e mai aveva mancato di rispondere alle richieste della sorella. Non era neppure difficile, in quegli anni, fatte salve le ragioni della moralità e della fede politica, trovare lavoro nel nord. Così il paese a poco a poco sminuiva e quasi più erano gli abitanti di C. trasferiti lontano, di quelli che campavano dove erano nati.
Troppo pochi, per l'asprezza dei luoghi che restavano tali quali sempre erano stati, rocce riarse dal vento capaci di spaventare l'uomo più ardito. E con quali mezzi combatterla, poi, quella dura battaglia, se ancora camminavano lenti i carri trainati dai buoi e l'aratro era quello che s'affondava di poco così come avveniva nella notte dei tempi?
Terre abbandonate sulle quali vagavano greggi di pecore affidate alle incertezze della fortuna, e un anno era freddo, un anno poco piovoso: quando l'erba non era vinta dall'incrudelire delle stagioni arrivava una malattia che uccideva gli agnelli o toglieva il latte alle madri. Il risultato era sempre lo stesso.
Vagava per le campagne dove i perastri s'ingrovigliavano ai rovi e i carrubi crescevano piegati dal vento, deserte di uomini, se non fosse stato per qualche solitario pastore che tornava al paese sul cavallino rossiccio oppresso dai bidoni del latte.
Campagne malinconiche di una bellezza struggente, incontaminate come dovevano essere quando il Padreterno le aveva create e i pochi segni discreti che l'uomo aveva tracciato la vegetazione li sommergeva inglobandoli e rendendoli suoi.
Ruscelli di chiarissime acque che discendevano mormorando e spezzavano i sentieri affondati dentro i canneti: bisognava guadarli saltando sulle pietre disposte a cercare il debole appiglio del fondo.
Spiagge che nessuna orma segnava se non quella d'uccello, traccia d'egizia eleganza che decorava la rena muovendo dalla riva in morbide evoluzioni fino al ruscello nascosto dalla cortina di tamerici.
Profumi sobri dell'inverno e aromi solari d'estate: il giglio della sabbia che nessuna mano coglieva, l'elicriso. Più in alto, dove la costa digrada improvvisa col suo odore di terra calda, il ginepro.

La voce dell'annunciatrice affastellava con tono metallico notizie di voli in arrivo e in partenza. Diceva d'aerei che andavano verso mete lontane delle quali assolutamente non gli importava, luoghi nei quali era stato e che non gli muovevano in cuore un ricordo pulsante di sentimento, città che un tempo avrebbe amato vedere e che ora gli sembravano morte in un'assoluta estraneità.
Mille scuse in italiano e in inglese per dire che il suo volo aveva subito un nuovo ritardo: partenza prevista ore diciannove, circa.
Si comandò di non fare un solo gesto d'impazienza, chiuse il libro e cominciò a svuotare lentamente la pipa, come se in quell'atto potesse racchiudere l'essenza del vivere. Cenere e carbonella incrostata al fornello, con metodo e infinita pazienza.
Altro non era in suo potere di fare, se non concentrare in quel microscopico scavo ogni energia e il più totale interesse.
Il resto non gli apparteneva, governato piuttosto da regole cosmiche che una volta potevano essere favorevoli, più spesso rivolte a turbare i piani degli uomini.
Così si diverte il destino a scherzare con le nostre speranze e forse soltanto desidera vederci imprecare o cadere in ginocchio vinti d'affanno. Partirà, questo volo, oggi o domani, fosse anche fra una settimana. Nella busta ce n'è di tabacco. Non bisogna dargliela vinta né offrirgli la soddisfazione che cerca. Per un ritardo d'aereo, poi.
Aveva visto di peggio, nella sua vita a cavallo tra l'antico e il moderno: affondava nella preistoria l'infanzia che aveva conosciuto i ritmi e i modi di un'umanità ormai perduta, prima che la ruota del tempo cominciasse a girare vorticosamente cancellando ciò che era stato per migliaia di anni e imprimendo altre tracce, del tutto impensabili.
Era scomparso il pancrazio marittimo che da sempre cresceva sulle spiagge ed era l'essenza stessa della bellezza. Al suo posto le ville, a schiera disposte secondo gli orientamenti architettonici faticosamente raggiunti con l'inesausta ricerca dell'uomo.
Sarà.
Valeva la pena di aver tanto vissuto per arrivare a vedere ciò che vedeva?

Si era protratta per tutta la sera la conclusiva riunione del consiglio universitario alla quale aveva partecipato senza parlare, alla pipa aggrappandosi come a un certissimo punto di riferimento.
Ore di vita impiegate per stabilire se effettivamente avesse presenziato al seminario di studi in terra di Francia un giovane aspirante docente cui il consiglio aveva concesso, a mo' di viatico, una manciata di lire. Conti servili nei quali il decano s'ingaglioffava preso da un'insondabile voluttà; confrontava ricevute d'albergo e scontrini di mensa con i biglietti di viaggio a tariffa ridotta secondo quanto previsto dalle disposizioni vigenti. Un'infinita sapienza contabile profusa sul più miserabile oggetto: le avrebbe versate di tasca le lire in questione, se fosse stato in tal modo possibile comporre la disputa che appassionava quel consiglio di dotti.
La moralità e la dottrina del collega più giovane l'anziano insegnante le aveva rivoltate fin nel profondo per dimostrare la tesi della frode con inganno perpetrata, a svantaggio del pubblico peculio e della dignità del consiglio: tutt'al più infrascato con una ballerina di fila in qualche locanda della Provenza, non certo assorto nelle algebriche speculazioni che negli stessi giorni Parigi ascoltava, come da programma allegato alla richiesta di finanziamento a suo tempo prodotta.
E quel meschino, che al convegno aveva assistito timidamente in disparte senza perdere una sola battuta e senza essere visto da alcuno, non trovava il coraggio per proclamare una verità che contrastava il castello teorico dell'augusto insegnante dal quale dipendevano troppe progressioni in carriera.
- Crobu non pappa crobu -, avrebbe detto Cristòlu, avendo, come spesso accadeva, torto e insieme ragione. Perché è vero che si salvavano, l'uno con l'altro, appartenenti a una corte alla quale non si può sperare di essere eletti se non per innate virtù, e il giovane una volta unto non sarebbe stato bollato, semplicemente ricondotto alla più rigorosa disciplina che doveva avere violata, se un'ira tanto profonda aveva potuto accendersi. Ma insieme era vero che si distruggevano l'uno con l'altro strappandosi di dosso ogni brandello di dignità. Altro che corvi.

Suo nonno li avrebbe cacciati, due servi così, vecchio e giovane indegni di impugnare la zappa sulla terra ben ordinata di un padrone che sapesse il mestiere.
Indubitabile progresso dei tempi, se almeno si dice che nessuno deve più dipendere dal capriccio di un uomo. Se poi questo sia vero, sembra essere un altro discorso.

CAPITOLO TERZO
Il camino lo accoglieva alla sera, fradicio per l'umidore dell'erba, per l'acqua dei rii che vinceva ogni accortezza di guado.
La preoccupazione oscurava i chiari occhi della nonna, una serva chiamata a gran voce perché portasse i gusci di mandorle serbati nel cesto per ravvivare la fiamma.
Le vesti bagnate fumavano e un calore non meno intenso gli nasceva dentro per quelle attenzioni, così che taceva il primo impulso per il quale avrebbe voluto dire non essere niente, un po' d'acqua, per uno che si sapeva uomo, e forte, deciso a fronteggiare il più sfavorevole evento.
Ma va là che hai solo dieci anni. E le zie a trafficare con il carbone sotto le pentole del pasto serale.
Lo restituivano taciturno alla famiglia in città, dopo ogni vacanza trascorsa al paese.
Vacanze dell'inverno e vacanze dell'estate, pomeriggi assolati quando soltanto le mosche hanno il coraggio di volare e gli uomini tacciono, vinti dal sonno.
Allora poteva, in silenzio, dedicarsi alla straordinaria alchimia della resina strappata dai tronchi dei mandorli e fusa nei barattolini di latta per ottenere un'inutile mistura di trasparente luminescenza: speranza di arabiche gomme che mai era riuscito a creare, e che non sarebbero servite a niente, ma cui pure dedicava un'infinita attenzione, attratto dagli effluvi di quel ribollire aromatico, magma infuocato di una creazione della quale era l'artefice.
Oppure si rintanava in un magazzino, buio, finché gli occhi non riuscivano a ritrovare i contorni delle cose. Le damigiane del vino vuote, avanzi di un'età tramontata, gli inutili attrezzi di legno che avevano cercato di scavare nel ventre della terra, le pesanti chiavi di ferro per aprire i magazzini destinati all'ammasso del grano e delle carrube.
Nel fondo della vasca, sul parastaggio sbilenco che i tarli finivano di rosicchiare aveva trovato i libri buttati alla rinfusa, ricoperti di polvere, rosi dal dente acuto del topo che i gatti non volevano cacciare.
Sensazione tattile della carta, profumi di muffe fiorite nei cuoi delle costole. Frusciava la stuoia sulla quale giaceva immerso in quelle impossibili letture che un'età lontana a lui mandava per commuoverlo:

Come diverso tu rivedi questo
palagio mio

Si sentiva celato nella parte più segreta del suo palazzo, il castello di tutti i sogni sognati che dormiva il sonno del pomeriggio afoso.
Nel tempo antico nessuno conosceva il riposo pomeridiano e il padrone andava a cavallo, quando il sole era a picco sul mondo, attraverso le tanche battute dal vento venuto dal mare.
Nonna Sofia lo ricordava così, l'uomo accigliato che aveva seguito in quella terra abissina dove le parole costano fatica e vanno spese con parsimonia.
Lunghi silenzi dell'ira che ribolliva per giorni e giorni, forma in cui si esplicava una suprema concentrazione del pensiero nella interiore ricerca delle forze necessarie per la quotidiana battaglia.
Cos'altro era, in quei posti, la vita?
Una parte ostile del mondo che negava il diritto di progettare la più piccola azione. Sembrava non esserci spazio, per l'uomo.
Il groviglio di rocce, le ventose giornate di sole, la sterilità della terra li aveva forgiati una natura che non amava le creature viventi e solo sopportava gli uccelli di passo che si fermavano un breve momento.
Per tutti gli altri la promessa di una magra esistenza, quotidianamente contrastata e resa precaria.
Dicevano che in antico i marchesi di Q., ai quali spettava la signoria della terra, non volessero vederla abitata, questa contrada marina, per poter discretamente far progredire il contrabbando dei grani nottetempo imbarcati in totale esenzione di tasse dovute alle regie dogane. Ma che razza d'idea, come se un uomo potesse stabilire che le formiche non abitino il campo e riuscisse a impedirlo, con chissà quali strumenti di coercizione e minaccia.
Figuriamoci. È che nessun uomo nella storia del mondo aveva mai avuto la sfortuna di nascere qui, o di capitarvi e di sentirsi irretito nell'orgoglio di una sfida che non può rifiutare, chi ha sangue.
E Torres sangue ne aveva davvero. Il padre di tuo padre. Anche quindici giorni senza dire una sola parola, ma gli parlavano gli occhi che si chiudevano piccoli tra le palpebre strizzate. Gli erano venute le rughe, così, e una profonda l'aveva in mezzo alla fronte, che compariva quando volgeva sul mondo uno sguardo accigliato, come se odiasse. Lui, che tutt'al più amava. Ma bisognava capirlo quel modo scontroso di rappresentare i sentimenti. Un bambino.
Adulto e forte, però, quando decideva un'azione e niente poteva fermarlo finché non riusciva. Allora i suoi occhi ridevano appena, come se ciò che aveva fatto fosse niente, non gli avesse richiesto il minimo sforzo.
Così sono gli uomini, figlio, quelli che valgono, degli altri ne è piena la terra, inutilmente.
Sono così gli uomini che poi muoiono presto, per un colpo di cuore improvviso, dopo che un intero mondo hanno celato, nel cuore, fino a farlo scoppiare. Una donna è diverso: può piangere, può gridare, può stracciarsi le vesti per il dolore e nessuno trova niente da dire.

Aveva gridato poco, però, anche nonna Sofia, nel corso della vita, figurarsi se poteva farlo, da vecchia, per chiamare la servitù.
La campanella suonava alle nove in punto, ogni giorno, tirato con vigore il cordone di raso che la notte prima era stato disposto accanto alla spalliera del letto. Il moto si propagava attraverso il filo, usciva dalla stanza che le cortine ombreggiavano, percorreva l'andito oscuro, svoltava nello studio passando sulla scrivania misteriosa per i suoi nascondigli segreti, raggiungeva la sala da pranzo che bisognava attraversare con passo discreto per non far vibrare il piancito di legno, scendeva veloce la scala di ardesia e comandava la campanella che dominava dall'alto l'ammattonato della cucina.
Un moto di eguale intensità da lì si avviava in direzione contraria, versato il caffè nella chicchera ornata di foglie e di fiori pallido azzurri, golosamente dolcificato col lait concentré sucré Nestlé che per nonna Sofia si custodiva nel barattolo riposto all'angolo estremo della cappa, il più lontano dal fuoco, per buona conservazione. Premio per il bambino il permesso di introdurre avidamente un cucchiaio in quella matière grasse, extrait sec lactique dégrassé, esotica bontà importata dalla terra di Francia, douce, come più non sarebbe potuta essere, cremosa che si scioglieva in bocca per scendere fino al cuore evocando materne carezze. E civiltà sconosciute in quel paese in cui il latte di pecora aveva una gialla copertura di panna che faceva storcere il naso alla nonna e al nipote legati dalla complicità raffinata.
Saliva la tazza fumante, saliva un'ancella con la brocca dell'acqua per il catino della toilette rosso ciliegio.
Saliva il bambino che arrivava per primo ad augurare il buongiorno, a dire che il sole splendeva nel cielo, azzurro, come sempre, con appena una nube bianca che sembrava un cavallo alato pronto a volare sul mare.
A lui era concesso di stare, sprofondato nella bergère, mentre l'acqua ruscellava dalla brocca nella caraffa azzurrata di morbidi tralci e poi nel catino incassato nell'incavo della toilette. S'illuminava la stanza per il profumo dei saponi e delle creme estratte dalle scatole che ornavano il piano di marmo, dei morbidi soffi che il piumino spandeva di borotalco Robert's.
Rito che ogni mattina rinnova, una donna a spazzolare i capelli per formare la crocchia con le forcine di madreperla, un'altra che porge la veste di scurissimo blu ravvivato dai fiori bianchi nel disegno sottile.
Specialissimo privilegio di assistere in silenzio, fintanto che i pizzi delle candide sottovesti sparissero sotto l'austera veste e la nonna fosse pronta a uscire.
Lo prendeva per mano, alta e imponente a offrire certezza di protezione e insieme passavano nella galleria segnata dagli archi sui quali s'attorcigliavano i rami del gelsomino.
In primavera il profumo li assaliva dolcissimo e camminavano su un tappeto di fiori bianchi che il vento muoveva.
Il giardino a quell'ora era fresco e segnato dall'ombra degli alberi. Una voce giungeva, di giovane donna che accompagnava il lavoro col canto:

Gelsomino d'Arabia
gelsomino cinese
i miei sogni li ho dati
a chi me li chiese.

Nonna Sofia scuoteva la testa con un sorriso e s'affacciava alla finestra ricavata nel folto con l'opera sapiente delle forbici che avevano aperto un varco tra i rami perché dall'alto potesse vedere il giardino.

La notte era scandita dal battere del pendolo, due, anzi, nelle stanze contigue che rimandavano i suoni. Lo chiamava moderno, la nonna che lo aveva acquistato mezzo secolo prima, quello di foggia squadrata, i numeri tagliati svelti e precisi, computo matematico del tempo ricondotto alla misura essenziale.
Il suono amplificava la purezza di questa astrazione: l'ininterrotta musica della macchina che sdipanava i secondi con i suoi ingranaggi tac tac rigorosi, senza concessioni all'ascolto, perfetta funzionalità che si mostra per quello che è, con orgoglio.
Musica anche il battere delle ore, suono di campana, ma bassa, con una risonanza che rimaneva nell'aria, più a lungo, aleggiava nella stanza, si spostava in quella contigua dove l'altro pendolo, lievemente in ritardo, cominciava solo allora a suonare.
Le mezz'ore segnate da un tocco, le ore ritmate con un crescendo di colpi, fino al mezzogiorno che si prolungava negli echi per un tempo infinito.
La mezzanotte, piuttosto: di giorno interdetto l'ingresso negli appartamenti del piano superiore, e, d'altra parte, chi avrebbe voluto restare all'interno quando urgevano il sole e il giardino, i fiori e le piante, i profumi, gli uccelli sui rami e i piccoli gatti?
Altra cosa, la notte, intanato nel gran letto freddo.
Alle volte non li sentiva interi, i nove rintocchi che dovevano essere il segnale del riposo, salutate la nonna e le zie, le cugine affettuose, ripulito alla meglio nell'acqua del lavamano, coperto dalle coltri che sua madre rimboccava prima di spegnere la candela.
Talvolta bastava un'ombra che attraversasse la mente, un pensiero gioioso, l'attesa dell'indomani: il sonno tardava a venire. Di quelle notti era padrone il suono del pendolo; il battito tesseva i secondi, legava le une alle altre le mezz'ore che scivolavano trascinando le ore fino all'alba lontana.
Echi che si rincorrevano stemperandosi e acquistando risonanze più ricche. Quelle metalliche dell'orologio moderno e quelle più morbide del pendolo antico e barocco. Il ridondare della poesia contrapposto all'asciuttezza dei calcoli matematici che giorno per giorno scopriva sui banchi di scuola. L'una e l'altro necessari, ma questi più di quella capaci di descrivere le infinite combinazioni dell'universo, con termini propri, senza personali e devianti suggestioni, come faceva il pendolo antico che non trasmetteva informazioni sul trascorrere del tempo ma concertazioni di note, inutili, per quanto gradevoli.
Le dieci, le undici, mezzanotte paurosa con la testa nascosta sotto il guanciale, il passo rapido del topo sull'incannucciato del tetto, il grido della civetta.
Verrà infine la luce del giorno a stemperare questo tormento. Basta saper aspettare, immobili e rannicchiati finché non cominceranno a cantare il gallo e l'incudine di maestro Zanda, annunciatori dell'alba.

Sarà stato il Cinquantasei, quando il miracolo della luce notturna si è realizzato al paese. Allora soltanto siamo usciti dalle tenebre della preistoria e abbiamo cominciato a conoscere il volto nuovo del mondo.
Uomini e macchine venuti da fuori per realizzare l'impresa di tirar su gli altissimi pali legati dai fili.
Nessuno poteva disturbare l'elettricista chiamato dalla nonna che eseguiva il suo compito nella stanza a lui destinata. Per sbirciare solo il momento in cui la porta si apriva, a mezza mattina, e una donna entrava reggendo il vassoio con il bicchierino di marsala e i savoiardi.
Le foglie slanciate del lampadario di Murano giacevano scomposte sul tavolo e chissà se sarebbe riuscito a montarlo, e come, e in che modo sarebbe stato possibile accendere una per una tutte quelle luci delle quali le fantesche dicevano con meraviglia.
Destinato al salotto buono, il lampadario di vetro, altra porta perennemente serrata con cura, che un bambino non aveva nulla da fare, là dentro, tra quelle antiche ottomane e gli alabastri dei lumi a petrolio. Solo concesso entrare un momento in compagnia degli adulti per imparare a pregare la Vergine di Pompei troneggiante sul tavolino ricoperto dalla coperta damasco.
Poi fu la luce, gialla, ma sembrava d'aver conquistato la luna.
Piccoli cerchi sbiaditi, malinconicamente appesi agli alti travi del tetto, ai pali che il vento faceva ondeggiare. E buio, da basso, nelle vaste stanze che il gioco degli angoli complicava, il sottoscala e le dispense immersi in un'eterna penombra. Buio nelle strade tortuose dove il vento fuggiva cancellando lo sforzo dei fanali.
Spenta la triste abat-jour che imitava le valve di una conchiglia rosata rimaneva soltanto il rumore del vento che squassava il lampione sospeso allo spigolo della terrazza. La notte più paurosa di prima.
Tutte le notti, al di fuori di quella della vigilia. Allora la gente andava per strada e le voci si rincorrevano, salivano piroettando nell'aria fredda, raggiungevano la sommità del comignolo, discendevano lungo la cappa e arrivavano come un allegro brusio nella cucina dove era in corso il gioco sognato nel corso di un intero anno.
La dotazione di mandorle la costituiva, come giusto, la nonna: l'incremento o la perdita del patrimonio li stabiliva la fortuna, sotto forma del trottolino squadrato cui spettava di dire se la posta era vinta o in tutto o in parte perduta.
Poveri giochi giocati nella penombra, mentre ancora aleggiava l'odore dei mandarini che avevano chiuso la cena festiva, in attesa dell'ora di uscire diretti alla chiesa in cui padre Perseu stava per celebrare la messa.

Non può vincere niente, di materiale almeno, chi ha cominciato sperando in una così modesta fortuna.

CAPITOLO QUARTO
Si era fatto buio senza che se ne accorgesse e le piste rilucevano nei sentieri tracciati da un numero infinito di lampade. Le scie degli aerei la pioggia le ingrandiva e deformava sui vetri bagnati, le rendeva per un istante abbaglianti. Bastava socchiudere gli occhi per vederle frantumate in miriadi di stelle, bianche e rosse, come sono le gemme poste sulle ali, lontanissime della carlinga così che quando sei dentro hai l'impressione d'avere al tuo fianco un altro aereo che insegue.
Non era mai riuscito a creare la gomma dalle resine che i tronchi dei mandorli trasudano, ma i prodotti delle sue pomeridiane fusioni avevano il fascino della bellezza. Belli perché assolutamente inutili. Come i segni che le luci descrivevano nell'aria buia, linee spezzate o serpenti, che duravano l'attimo di un'effimera contemplazione e poi morivano, assai prima che l'aereo terminasse la manovra per scomparire nell'oscurità di un parcheggio.

Provò il bisogno di muoversi, si alzò lentamente e discese nella hall dell'aerostazione. Come tuffarsi in un mare agitato, dopo essere stato al riparo in una baia misurata di naviganti e di vortici d'acqua. Gente che passava di fretta e l'un l'altro spingeva bruscamente: essenziale arrivare primi per acquistare una rivista o per ottenere lo scontrino alla cassa del bar. Comitive che si muovevano senza un pensiero dietro la bandiera del capotribù cui era affidato il compito di trovare la strada in quella foresta. Voci che risuonavano alte e si intrecciavano per confondersi in un solo messaggio che non diceva niente di intellegibile.
Di fronte al tabellone elettronico una giovane donna stringeva sotto il braccio un fascio di carte. Sobbalzò colpita dall'urto di un viaggiatore affrettato che proseguì il suo cammino senza neppure voltarsi. Si sorrisero rassegnati mentre raccoglievano i fogli che la donna provò a ricomporre in un ordinato fascicolo.
Poi entrambi cominciarono a cercare notizie del proprio volo tra le tessere di quella grande lavagna.
Cifre mendaci che vorticavano contraddicendosi minuto dopo minuto senza arrossire.

Su più austere lavagne aveva tracciato i numeri di una sua privata lettura del mondo. Nel segreto colloquio che poteva instaurare, ogni giorno con comodità, per quanta ne concedesse lo spazio triangolare composto da due pareti dell'aula scolastica che s'incrociavano per formare un angolo chiuso alla base dalla lavagna sbilenca. Ore passate all'impiedi in quell'angusto recesso, tante quante ne trascorreva nell'aula un incongeniale insegnante. Quasi per tacito accordo, reciprocamente insopportabili, l'uno entrava con l'aria blasé per cui era assai rinomato, gallinaccio impettito nella vestimenta tagliata con gusto francese, molestatore di donne quale lo dipingeva una fama di cui non provava vergogna, entrava e con passo stanco si dirigeva alla cattedra per accasciarsi stroncato dalla noia del vivere: l'altro lasciava il suo posto nella bancata e si confinava in quell'angolo che a seconda dei punti di vista poteva rappresentare un luogo di pena o una zona franca per salutari pensieri.
Il gesso raramente mancava, nelle tasche di un onesto studente che conoscesse le regole del mondo nel quale viveva: lo spazio per scrivere coincideva con l'orizzonte più ampio che gli stava davanti.
Perché un'altra prospettiva a lui era offerta, di sbieco, tra il montante della lavagna e la finestra aperta sulla strada.
Nel caseggiato di fronte una sartoria nella quale giovani e belle, appena più grandi di lui, le ragazze imparavano l'arte, cucendo per l'intera mattina. E cantavano, con voci forti, di gola, purissime e tese come sono, alle volte, le voci di donna. Ascoltava il canto e sbirciava quella bellezza, ogni tanto, per ricordarsi che c'era e poteva racconsolarlo, quando avvertiva il bisogno, distratto lo sguardo inteso sui calcoli che il gesso rapidamente tracciava. In assoluta concentrazione, a dimenticare la volgarità dell'uomo troneggiante sulla pedana, a impedire persino che la sua voce giungesse dentro il recinto della fortezza segreta.
Fantastici conti cullati dalla melodia di quel canto, ispirati dalla bellezza che si lasciava vedere munificamente, a distanza.
Sembrava gli sorridessero da sopra il cucito.
All'uscita, quando i ragazzi in fila paziente le aspettavano fermi al portone, le giovani sarte passavano piene di sdegno, come se neppure li vedessero, agonizzanti per uno sguardo.

Lontanissimi tempi, a confrontarli con questi di camerateschi contatti e di purissime frequentazioni. Perduti in una torbida notte ancestrale i turbamenti della ripulsa temuta, possibile anzi certissima, i sogni che si alimentano in un furioso crescendo, senza che nessuna realtà possa mai eguagliarli per intensità di sentire né per audacia. Soltanto rimane la grazia della rinuncia che salva il mistero, così come avviene con la sconosciuta incontrata per caso di fronte al tabellone dei voli in partenza e in arrivo: si scambia un sorriso che è già un segnale d'intesa, quella che si potrebbe accendere se lo volessimo, ma è meglio di no, a conservare l'incanto dell'evento cui rinunciamo per renderlo eterno nella sua attualità inattingibile.

Il vorticare delle schedine fruscianti come ali d'uccelli che si levano in volo spauriti annunciavano un ulteriore ritardo.
C'è sempre un modo per stringersi nelle spalle e farsi coraggio da sé: ne aveva viste di peggio, non era che un contrattempo noioso per uno che aveva remato da sempre contro i flussi della corrente inimica.
Non che non l'avesse capito, dove andavano i tempi, è che avrebbe trovato insopportabile assecondarli, soltanto per guadagnare una migliore fortuna.
La sorte era scritta nei cubi rovesciati dall'intervistatrice sul tavolo in un positivistico test che invitava a comporli come l'estro dettava. Un novissimo gioco.
Li aveva disposti secondo forme che le tabelle chiamavano strutturalmente rilevanti e in un tempo ritenuto segnale di capacità gestionali d'un qualche rilievo.
Ingegneristiche disposizioni, era stato il responso: chissà perché non pensare a manovalesche qualità che pure dovrebbero esser previste, nell'organizzazione dei solidi.
Ma la donna era rimasta colpita dalla miscela di progettuale intuizione e di forza organizzativa. Combinazione rara nello stesso individuo, secondo il manuale: non c'era scritto, però, che il soggetto in questione poteva anche voler mantenere dissociate le sparse membra della sua mente. E perfino aborrire ogni pratica finalità, soprattutto se intesa a procurare moneta.
Cose che capitano nella realtà non sondata dai manuali d'istruzione per l'uso.

Certo è che quando dovette decidere sull'orientamento da dare ai suoi studi, posto di fronte alla scelta fra gli indirizzi delle pratiche applicazioni e quelli della purissima speculazione, non ebbe incertezze.
Nella mente si era scolpito il monito su cui riposa la scienza: no mi legga, chi non è matematico, nelli mia principi. Paradigma severo che indica l'impossibile convergenza fra i lontani universi dei capimastri intesi alla proficue costruzioni condominiali e di chi, invece, vuole capire.
Ricordiamoci in grazia che il cercar la costituzione del mondo è de' maggiori e de' più nobil problemi che sieno in natura: così era stato scritto, così avrebbe dovuto essere, secondo le giovanili speranze.
Non se lo ricordava nessuno, che bisogna cercare la costituzione del mondo, o in pochi, certamente lontani, forse dall'altra parte del mondo, e de' nobil problemi poco se ne sapeva, almeno tra la sua gente: lo riguardavano come uno che disperde una fortuna possibile, anzi certissima.
Matematico di poco avvenire, fu ritenuto, tutt'al più destinato a insegnare quattro formule algebriche agli alunni di un piccolo centro sperduto fra i campi riarsi, e grosso modo avevano avuto ragione.
Gli alunni, col tempo li aveva cambiati. Non era mutata, però, la sostanza del problema, e il contesto.
Hanno una certa importanza, i contesti, né mai aveva visto un albero alto crescere in una deserta pietraia.
Rinsecchito, piuttosto, con la radice vanamente protesa a trovare l'umidità di una vena, piegato dai soffi impetuosi che non trovano ostacolo intorno.
Straordinaria povertà di maestri. In una terra che avrebbe avuto bisogno di nuova conoscenza era rinata la pratica antica delle dottrine vaganti, chiuse insieme alle camicie pulite nelle valige che la consegna bagagli ogni volta negava al tapis roulant.
Bisognava consolarli di quella irreparabile perdita, i maestri appena arrivati dal continente, e augurar loro che i servizi ricerca funzionassero al meglio per ritrovare il tesoro perduto di dentifrici e lamette. Senza le quali nessun uomo dabbene può pensare alla scienza e passabilmente ostentarsi in un dotto consesso.
Ma che gioco, la vita: scoprirsi, per una strana combinazione di bussolotti, a far la stessa parte, con la valigia in mano. Come un piccione.

Sovrappensiero si era avvicinato alle porte scorrevoli. Vide la sua immagine riflessa nel vetro e le sorrise provando un piacere infantile di cui alle volte si vergognava, ma che non poteva nascondere, per i capelli folti che l'accompagnavano nei suoi quarant'anni.
Scrollò le spalle per scacciare quella stupida vanità e attraversò le porte che si aprivano ronzando.
Si diresse verso l'illusoria campagna creata dagli alberi del parcheggio. Aveva smesso di piovere; attorno ai lampioni si condensava un'argentea umidità e la luce la rendeva palpabile. Ne aspirò il profumo antico, e buono, che vinceva gli odori meccanici delle vetture ferme in un sonno rugginoso, degli oli caduti sull'asfalto in iridescenti macchie azzurrine.
C'erano momenti di quiete, vuoti di rumori improvvisi, durante i quali fissava la chioma di un albero, ogni altra visione esclusa, e si costruiva l'illusione di essere lontano dagli uomini che vanno verso una qualche meta, condannati alla fretta.
Poi qualcuno accendeva un motore che borbottava prima della partenza e la notte si lacerava perdendo i suoni pacati.
Bisognava aspettare che il guidatore decidesse di impugnare la leva del cambio: allora il rumore cresceva di intensità, cominciava ad allontanarsi, persisteva nell'aria, si affievoliva in un'eco lontana che si spegneva nella beatitudine del silenzio. Come un dolore che senti svanire gradatamente e nell'assenza ti lascia il sentimento della salute.
Frammentarie illusioni che cancellavano i fischi degli aerei in avvicinamento, le impennate delle accelerazioni rabbiose nel momento dell'atterraggio.
La sua vita era stata un'accelerazione violenta, cominciata nel chiostro dell'ordine mauriziano, mille anni fa.
Nell'antico palazzo che dall'altissima rocca affacciava sul mare era nato quando suoni ancora non esistevano se non quelli dei canti che salivano dalle porte dei bassi. E gli effluvi delle minestre preparate a mezzogiorno con un po' di basilico.
Più acuti gli odori dell'osteria dove arrivava con la bottiglia vuota, le monete contate e l'ordine tassativo di prestare attenzione, all'andata e al ritorno, per non scivolare sui ciottoli della via Stretta.
Non ne faranno mai più, strade come via Stretta che allargando le braccia potevi toccare le case affacciate sui lati. Alte che sembravano stringersi verso il cielo per chiudere lo spiraglio attraverso cui l'aria fluiva a illuminare i gerani esposti nei balconcini. Non arrivava la luce del sole neppure nelle giornate d'estate fino al selciato e le mezze porte dei bassi vanamente aspettavano che si stemperasse il buio dell'antro dove la gente viveva sperando in un domani migliore, senza panni protesi sulla facciata col debole ausilio di una canna a distanziarli dalla polvere della muratura.
Non ne faranno mai più, e certamente è un bene, anche se resta la sensazione che qualcosa sia stato perduto e aveva un valore, celato nel fondo di quella miseria.
La pienezza dei giochi d'estate nelle fresche serate di piazza Palazzo, le anziane signore sedute sulla muretta fra i leoni di pietra, il velo del cappellino abbassato in decoroso riserbo.
Nonne piccole e bianche, come la madre di sua madre, che accompagnava, dopo la funzione serale, chiacchierando sottovoce.
Che strano, ricordarla, a Milano, in un mondo tanto distante dal suo che non avrebbe neanche potuto immaginarlo.
O forse sì, se sentiva il bisogno di aprire finestre per respirare ogni giorno un'aria diversa, sempre, anche quando era ormai vecchia e fitta di rughe, ma gli occhi le brillavano di curiosità e non si lasciava spaventare dal nuovo.

Il primo televisore era arrivato alla metà degli anni Cinquanta, roba da non credersi, oggi, coi telecomandi e i led occhieggianti dai videoregistratori, seconda generazione, sistema Vhs.
In piazza, all'impiedi come tanti babbei, affascinati dal camion promozionale che esponeva i video in funzione.
Se ne era parlato per mesi, con la percezione che qualcosa era avvenuto e segnava le vite degli uomini, anche tra noi. E d'altra parte si poteva soltanto parlare di quell'evento straordinario, cometa che appare e dilegua senza che nessuno possa sapere quando tornerà a illuderci col suo splendore.
Mesi, o forse un intero anno, prima che gli apparecchi arrivassero in modo stabile. Non privati, però, che pochi avrebbero buttato i soldi necessari all'acquisto.
Troneggiavano ridondanti di forme nelle sale cinematografiche, attrattiva invincibile nell'intervallo del film.
Forse era Bellini, o Rossini, chissà, il musicista che inseguiva i fogli dello spartito appena composto, sparsi da una ventata improvvisa. Che incubo, quello dell'opera dispersa dal vento con tutte le nostre speranze di gloria.
Casa Ricordi nella chiassosa sala di via Fossario, lo splendore della musica lirica e la quotidianità della frutta portata da casa, soccorso per la lunga serata sulle scomode sedie della parrocchia. Nell'intervallo Mike Bongiorno, ma la speranza del fortunoso guadagno impallidiva di fronte all'idea della gloria riservata agli ardimenti dell'intelletto.
Ecco cosa mancava al televisore in funzione nella cupa sede DC per visioni un po' più riservate. Capirlo dopo tanti anni, d'improvviso sotto l'albero di un parcheggio, c'era quasi da ridere, ma è anche il segno che niente è perduto dentro la mente dell'uomo, e può risalire, passati trent'anni, alla soglia della coscienza per essere finalmente compreso. Anche se fuori tempo massimo, ammesso che ci sia un limite temporale, per la comprensione, o non arrivi comunque benvenuta, quando decide d'illuminarci.
Tognazzi e Vianello, la volgarità di quel riso televisivo. Mancava la purezza del cinema, nella stanza del circolo democristiano, che in qualche modo solleva lo spirito, anche se il film non aspira all'onore dell'arte.
E mancava la gente colorata che pagava il biglietto nella sala cinematografica.
A ripensarci, lì aveva provato la prima volta fastidio per le untuose consorterie della politica.

CAPITOLO QUINTO
Pensò di rientrare per un caffè e subito si pentì come se avesse tradito la notte che lo accoglieva. Voltò le spalle al parcheggio e cominciò a camminare sul bordo dell'aiuola spartitraffico che separava le corsie della strada. Flagellato dai fari che si accendevano e si spegnevano in un soffio di vento.
Chissà se da lì si poteva sentire la voce dell'altoparlante che annunciava la partenza dei voli. Al diavolo l'altoparlante e al diavolo le partenze. Tutto ciò che desiderava era camminare in quello scampolo d'erba in mezzo all'asfalto, mentalmente pregando il suo dio che gli consentisse un istante più lungo tra il passaggio delle auto. Il tempo di sentire il rumore delle foglie stillanti per l'umidità della pioggia, il frullo di un uccello spaventato, un frusciare improvviso di cui non riusciva a capire l'origine.
Col trench strettamente allacciato e la borsa in mano. Lo avrebbero scambiato per un uomo d'affari, i guidatori veloci, e si sarebbero chiesti cosa mai potesse fare un distinto signore in una serata brumosa, innaturalmente a piedi in un luogo riservato alle auto. O avrebbero soltanto pensato che era un matto in cerca di chissà quale fantasma della mente, e forse era proprio così.
Ma non per questo vagare senza meta apparente che in realtà lo avvicinava alla dimensione dell'assoluto. Come quando, alla foce del fiume che in estate non trova la strada del mare ma s'infossa nella duna sabbiosa, aspettava le bisce. Nella completa immobilità che si trasformava in suprema concentrazione. Regolato il respiro in modo che anche allo scorrere dei fiati dentro i polmoni fosse posta la sordina, attenuati i battiti del cuore, giaceva simile ai vecchi tronchi di tamerice che le onde avevano lungamente lavorato prima di restituirli, bianchissimi e lisci, alla spiaggia. In quella condizione la vista si acuiva, e l'odorato. La sabbia ha un odore, le tamerici e i giunchi, l'acqua stagnante nell'ansa dorata, i fanghi del fondo su cui bambino aveva affondato i piedi con voluttà. Anche il passare delle bisce ha un odore che è possibile percepire dal momento in cui levano il capo tra le lenticchie dell'acqua e vengono a riva per asciugarsi ai raggi del sole.
Ci vuole attenzione; o piuttosto bisogna ricondizionare la vista abituata alle visioni d'assieme, indirizzata da un secolare esercizio alla panoramica osservazione. Bella quanto ingannevole.
Vista da lontano una spiaggia ci appare uniforme, composta da infinite particole eguali per forma e colore: basta circoscrivere il campo, come fa colui che ha debole vista, appuntare lo sguardo fino a vedere soltanto gli oggetti che stanno vicinissimi all'occhio e quei grani di sabbia rivelano mirabili particolarità compositive, variazioni cromatiche, spezzature di linea che non potrà mai immaginare chi calpesta l'arenile con passo affrettato.
Nell'attesa delle bisce aveva scoperto che anche i ciottoli plasmati dallo scorrimento dell'acqua hanno superfici diverse e il loro essere lisci non è una qualità di tipo uniforme, ma varia.
La mano può non essere in grado di apprezzare la differenza, la sua sensibilità ottusa da milioni di contatti fuggevoli. Bisogna allora passarli sul volto come per una carezza e l'osservazione diviene compiuta, senza possibilità di ragionevole dubbio.
Certe volte le bisce procedono come vecchie signore che nuotino con la testa levata sul pelo dell'acqua per non guastare l'acconciatura. Lentamente giungono a riva e segnano una striscia sottile nella rena sgranata dai raggi del sole.
Può non bastare un'intera mattina, perché si realizzi l'evento. Aspettarlo non è una pazzia.
Pazzia è piuttosto passare due ore ad ascoltare un mentecatto che impiega il suo tempo a chiedersi se un tale ha amoreggiato con una signorina francese anziché spezzare il pane della dottrina.
Non aveva aspettato l'avanzare degli anni, per cominciare i bilanci. Come ogni buon amministratore sapeva che il calcolo conclusivo può rivelare sgradite sorprese se non è stato sostenuto da un'ipotesi preventiva capace di regolare il consumo del tempo. Per non trovarsi, nell'estremo momento, a scoprire che la somma degli istanti di vita trascorsi nell'attesa di un semaforo verde dà il risultato finale di un semestre dell'esistenza sprecato in quella nervosa immobilità.
Sei mesi fermi al semaforo, un anno trascorso nella fila allo sportello postale, un lustro ad ascoltare incongeniali discorsi: cosa rimane di un'esistenza? Forse soltanto i momenti strappati al vorticare della quotidiana routine, troppo poco per un vantaggioso calcolo conclusivo.
Un senso di spreco che prende alla gola e che rende più amaro il confronto con le speranze iniziali.
Le illusioni dalle quali era partito, per ritrovarsi in un'aula con quaranta studenti inutilmente ascoltanti fondamenti matematici dei quali nessuno sapeva che farsi, quando una calcolatrice automatica riesce assai più rapidamente a misurare i vantaggi economici di una progressione in carriera.
Sentimento di disarmante inutilità, bilancio in rosso che nessun economista avrebbe potuto mai risanare.
Una sconnessione della cordonatura in cemento che limitava l'aiuola spartitraffico lo fece inciampare.
Pensò che in una delle macchine in transito poteva sedere il rettore del suo ateneo, giustamente perplesso nel vedere uno stimato membro del corpo docente vagare senza meta nella nebbia che incominciava a calare.
Sorrise compatendo il rettore e se stesso, voltò rapidamente e si diresse verso l'aerostazione.
Ci doveva essere un momento in cui la frattura si era prodotta e bisognava scoprirlo. Subito, senza perdere neppure un istante di quelle inutili ore.
La speranza non mancava, in principio. Non mancava l'armonia della bellezza.
I lontanissimi anni della scuola: la servitù delle ore trascorse sui banchi, senza la possibilità di decidere del proprio tempo, travolti dalla generica offerta di programmi pensati per chissà quale esigenza.
Ma veniva la sera, quando si ritrovavano chini sui libri, giovani uomini nella ricerca di un'appropriata fisionomia della mente.
Amici, come sono coloro che hanno un bagaglio di confidenza e l'affinità delle idee. Tutto allora acquistava una dimensione diversa, e non c'era materia per la quale non fosse possibile trovare una giusta qualità di lettura scambiando le reciproche inclinazioni. Uno sapeva di greco, a un altro non erano ignoti gli artifici della scrittura, un terzo componeva le formule matematiche con i ragionamenti della filosofia. Erano cresciuti in una discussione infinita che prendeva l'avvio quando, terminato lo studio, l'ora del commiato giungeva, temuta come una grande rovina. In quel punto cominciavano i reciproci accompagnamenti ripetuti fino a notte fonda, nella quotidiana sfida alle ire paterne.
Padri d'altri tempi, non di rado maneschi, fortemente convinti che le familiari abitazioni non potessero in alcun modo essere equiparate a un albergo dove ciascuno si riduce all'ora che più gli aggrada.
L'impresa condotta a proprio rischio e pericolo aveva il fascino della sfida cui è impossibile sottrarsi quando il personale impulso, o la vocazione, comandino.
Dopo le ventuno si era, comunque, fuori tempo massimo, tanto valeva tirare le tre del mattino in un moto pendolare uniforme dall'una casa all'altra, non reggendo mai l'animo di far tornare da solo il compagno a quell'ora di notte. Alla fine accasciati, i due o i tre che erano rimasti, sulle panchine di una piazza deserta, a dividersi le boccate dell'ultima sigaretta.
A maggio l'ombra di un viale alberato fioriva per il profumo delle rose e dei gelsomini: l'idea di andare a dormire riguardata come il peggiore delitto che potesse offuscare l'intelligenza e il sentimento dell'amicizia.
Altri gruppi si aggiravano sottovoce in quell'ombra, i fratelli maggiori carichi di universitario prestigio, maieuticamente disposti ad ascoltare i più giovani perché la loro verità crescesse diritta: un medico pazzo che già seguiva Terzian, un letterato sottile che leggeva nelle lingue d'origine i casi di Leopold Bloom e i Canti pisani, ma non gli era ignoto il poema di Gilgamesh.
Sull'essere e sul dover essere li interrogavano con cipiglio fraterno e del logos dicevano, che presiede all'agire dell'uomo: il saggio conosce la norma e la segue, tutti gli altri fanno come se non esistesse, distratti da particolari vedute e non s'accorgono della disarmonia che si crea nell'ordine del mondo e nel loro intelletto.
Potreste voi bagnarvi due volte nell'acqua dello stesso fiume?
Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.
Alle volte l'alba spuntava, appena prima che rintoccasse la campana di scuola.
Solidarietà che l'estate non interrompeva, se non per brevi vacanze, quando capitava di farle separatamente.
Un anno Giorgio era partito per una sua avventura marina. L'avevano accolto quindici giorni più tardi nella stazione dei treni e abbracciandolo avevano compreso l'impulso che spingeva gli antichi scultori: bello come una statua, ma vivo negli occhi azzurri che risplendevano sul volto abbronzato.
Quante cose erano passate, da allora, che lo splendore di quella bellezza era riuscito a rischiarare cancellando più oscuri dettagli.
Quante volte, nel corso degli anni, al logos si erano aggrappati per non annegare nelle particolari vedute e ricreare, nel chiuso del proprio intelletto, l'armonia che si cancellava nel mondo.

Anni universitari durante i quali la perfezione del numero rischiava di perdersi nella generale confusione.
Che errori abbiamo commesso, senza poter fare altrimenti. Il tempo di vita nessuno può sceglierselo.
A noi era capitato quello in cui i reggitori del mondo avevano eretto a sistema i particolari interessi, tagliatori di nastri nelle cerimonie inaugurali, cacciatori di laute prebende, baciatori di sacre pantofole. Non poteva non nascere una qualche reazione. Generosa, anche, ma improvvida. Scimmiottante fantastiche soluzioni per esigenze reali. Barbe e bastoni al posto dei ragionamenti. Similissimi, in fondo, coloro che si opponevano, padri e figli nutriti nella certezza della verità: martiri dello stesso fanatismo si scontravano in oceaniche riunioni alle quali tutti partecipavano fuorché il dubbio, manu militari si battevano nelle piazze, furiosamente, e la ragione era sempre sconfitta.
A ripensarci, a fare il conto delle conquiste e delle perdite frutto di una stagione che aveva intensamente osservato senza dire una sola parola, gli sembrava che non ci fosse stato niente di nuovo rispetto a quanto si era visto in ogni passato: calamità che i mortali patiscono per l'ira d'Iddio e le sceleratezze degli uomini.
In quel mare concitato dai venti era necessario navigare sapendo che difficilmente è possibile opporsi alle variazioni della fortuna e ai suoi movimenti privi di qualsiasi criterio, intellegibile, almeno per noi. Ma aspirando, comunque, a un ordine universale che non è dato di scorgere: qui nasce il problema.
Che cosa rispondere, infatti, quando sei sottoposto a una prova, se il tuo giudice chiede utrum tu voglia superarla o se t'accontenti dell'orgoglio di averla affrontata? Ma che assurdo rovesciamento di ruoli, quale vilissima abdicazione dalle proprie responsabilità.
In tal caso il saggio si astiene. Sempre che sia un astenersi questo vaneggiamento notturno nel viale di un'aerostazione, o piuttosto non assomigli all'ancipite verità che contraddicendosi nega se stessa. E non abbiamo il coraggio di resecare il filo da cui siamo uniti a un mondo che non possiamo approvare.
Che sbaglio abbiamo fatto, ragazzi.

Con le clarks infracidate dal guazzo.

Salomone aveva una vigna in Baal-Hamon.

CAPITOLO SESTO
La mia vigna, la mia, è a me dinanzi...

Il professor Torres guadagnò lentamente la pensilina, in tempo per sentire la voce sensuosa dell'annunciatrice: spiacente di annunciare che per volontà del destino il volo subisce un nuovo ritardo.
E per la stoltezza degli uomini. Questo avevano costruito, raccogliendo insieme gli ingegni, ciascuno la sua parte. Tutti senza eccezione alcuna. Quelli che avevano fatto e quelli che erano stati a guardare.
Non sempre, però, perché quando il tempo gli era parso propizio aveva compiuto un passo che gli sarebbe sembrato vile non fare.
Trattenuto da mille ammonimenti ancestrali, dalla convinzione sospinto che fosse l'unica soluzione possibile, alla luce dei tempi e delle circostanze.
Se anche una sola possibilità ci sia che il volto del mondo venga cambiato dall'azione politica, quella bisogna sondare.
Il partito del cambiamento totale, possibile, anzi certissimo, a condizione che l'uomo finalmente persegua un'idea ragionevole.
Condizione ipotetica di un teorema che era necessario dimostrare.

Il professore di latino e greco spiegava Orazio con gli occhi lucenti per il primo vino della giornata, frettolosamente bevuto coi suoi sodali, nel bar all'angolo, sotto la scuola.
Letteratura vera, quella, che si fa vita e fin in fondo è possibile delibarla. Scuola di vita, la sua lezione; principio di ogni estetica il racconto della ragazza che di fronte al panorama stupendo e alle appassionate frasi di un giovane, volle confessare che le dolevano i piedi. Fondamenti di gusto per contraria exempla appresi.
A quel maestro era stata mostrata, nell'inevitabile sfida del vero discepolo, la prima copia dell'«Unità» acquistata con tremore e orgoglio. Prima opposizione e prima battaglia vinta nel nome della libertà. Abbastanza facile, in fondo, perché lo sguardo bonario diceva che anche da quell'errore ci avrebbe emendati, il passare del tempo.
Errori, allora, non ne avevamo, sulla coscienza, ma miti crollati anzitempo in abbondanza.
Freedom un nome cui non corrispondeva sostanza.
Il mondo delle libere volizioni e dell'avventura, quando sembrava facilissimo scegliere tra buoni e cattivi e non mancava la certezza che prima o poi sarebbe risuonata a salvarci la tromba del reggimento nelle pianure assolate della Death valley, quel mondo definitivamente scomparso assieme agli uomini della V armata.
Spento anche il sorriso del Papa per il quale un popolo si era messo in cammino guidato dalla coscienza.
Da qualche parte doveva pur esserci una chiave di volta, forse proprio nella ragione che nasce allorché cadono gli ingenui sentimenti dell'adolescenza e spinge all'analisi critica e al progetto di trasformazione.
Conquista della mente maturata passo dopo passo, premio per la pervicacia del pensiero che erodeva concezioni radicate e vinceva i rallentamenti del gusto (oh, il fastidio delle tovaglie rosse e dei mazzi di fiori rubescenti!), bollandoli col marchio dell'infamia: tardivi e putrescenti frutti di decadenza piccolo borghese.
Una vera gioia, era stata, anelito che apre all'amicizia, consonanze cercate con caparbietà e conquistate nei colloqui di intere nottate, vivo vigore vibrante di giustizia, e d'amore, empito che riempie ogni istante di vita e si sostanzia nel segno del pensiero, progetto che presume di ordinare tutto l'universo.
Qui nasceva la rabbia per il Cile, quando la violenza pazza di un generale rese vana la speranza che una fame secolare fosse finalmente vinta e che scavando rame si potesse esplicare l'utopia di chi osa guardare verso un mondo ancora inesplorato.
Poi parlammo di fogne, e la questione ebbe una sua attrattiva, ché sapevamo aggregarla con radicanti gaffe concettuali a più ampie visioni mai ignare di filosofici scenari (cultura amministrativa, venne chiamata, e fu il momento - non hoc propter hoc, ma post hoc, sicuramente - in cui smarrimmo la via, precipitando nel laberinto frale di fallaci illusioni).
Sulle ceneri di Pasolini abbiamo pianto (in ritardo) quando s'allargavano i confini d'una colpevole uniformità e le spiagge dell'isola felice assetate di chiara acqua sorgiva le sommerse una lutulenta marea. Omologandole.

Ecce Agnus Dei, recitava il sacerdote dal pulpito nella mattina di Pasqua.
E all'agnello gli trafiggono il collo, per meglio santificare la festa. Così ammoniva suo padre che in quel tempo passava per un uomo bizzarro, a causa di simili uscite.

Per la grazia di Dio il collo non viene trafitto a nessuno, tra noi, e una soluzione accomodante si trova, che lasci tutti contenti; più o meno.
Anche a costo di sacrificare qualche principio. Senza dire che quello è il germe della dissoluzione, la porta inferi da cui non si può tornare.

Una squadra di addetti alle pulizie passava sospingendo con le grandi scope la polvere che si era posata sul pavimento. Un donnone dall'aria sovietica lo spostò bruscamente per arrivare al posacenere che doveva svuotare.
Forse c'era ancora il tempo per un caffè, prima che il bar terminasse il servizio.
Un caffè ristretto per vincere il sonno e una sigaretta per compagnia, in quell'ora notturna.
La sala si era a poco a poco svuotata, ultimi passeggeri in attesa con le gambe allungate sulle valige. Dopo il gran clamore del giorno s'era spenta la babele di lingue e solo poche voci risuonavano, cupe, provenienti da piccoli gruppi.
Passeggiava su e giù cercando nel ritmo eguale del passo sollievo per la stanchezza, sostegno per i pensieri.
Voci di suoi conterranei, che ritrovava a ogni ritorno, profonde, come le aveva sentite quand'era bambino. Erano rimasti soli, tesi a quell'unica meta che continuamente si nega, quasi fosse dall'altra parte del mondo. Non c'è che viaggiare, per comprenderlo.
Popolo di navigatori e d'audaci, rannicchiati nei ponti superiori delle navi li aveva conosciuti fin dal primo andare per mare nella lontana adolescenza. Donne vestite di nero e bambini addossati alle borse legate con spago, nel freddo dell'inverno e nel vento della navigazione. Ancora li ritrovava, quei volti dolenti, sugli allegri traghetti delle vacanze, in acuto contrasto con chi pregustava la festa nei mari illustrati dai colori della pubblicità.
Andate e ritorni segnati da eguale sofferenza, e i canti delle reclute che partivano intonando le cupe canzoni imparate al paese.
Bottiglie di vino e fredda carne d'agnello infrascata nel mirto.
Navi sulle quali aveva viaggiato, segnate da un eguale odore di vomito nei preistorici cameroni e nelle sale poltrona di modernista pretesa. Il disegno della prua che solca le acque era cambiato e, dicono, le pinne stabilizzatrici; ancora non era nato il rispetto per l'uomo, per le donne e i bambini buttati sul ponte.
Li riconosci al mattino, i volti diversi di chi ha dormito in cabina e quelli di chi si è dovuto appagare di quanto passa il convento. Cessi in comune e una miseranda toeletta.
Le portavano incise nel volto le stimmate di quella fatica, nelle occhiaie che la luce dell'alba incupisce, in faccia al forte di Michelangelo.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi: miserere nobis. Ma fino a quando dovremo scontare questo nostro peccato?
Sono partiti sul far della sera per le quattro parti del mondo, vicine e lontane, solo noi siamo rimasti a guardare il tabellone che dorme.
Nordici mari attraverso i quali aveva viaggiato su bianche navi che non volevano fallire d'un solo secondo la manovra d'ingresso e d'uscita dal porto: gli era sembrata l'essenza stessa della civiltà.
Fino al giorno in cui nel grande salone di prua era entrato il ragazzo con gli occhi ridenti d'un riso profondo. Ai tavoli dove i signori pranzavano s'era accostato col passo incerto dell'erba fumata. Le mani danzanti nell'aria in un gioco sognante, innocente come la poesia.
Un cameriere l'aveva acciuffato per il colletto, cacciato perché non turbasse la quiete digestiva dei viaggiatori compunti. In un irreale silenzio e senza che nessuno mostrasse di avere veduto alcunché.
Era ricomparso, il ragazzo, dopo pochi minuti, appeso alle paratie esterne, oltre le vetrate dell'elegante salone prodiero.
Coi polsi tagliati, e uno sguardo perduto negli occhi. Periclitante.
Non uno che avesse interrotto il gioco di carte.
Dio santo, ma è un uomo. Anzi, un ragazzo cui ogni cosa è ancora dovuta.
Fuori dalle vetrate ermeticamente chiuse se non per il superiore vasistas.
In procinto di cadere nel mare. Con i polsi tagliati.
Il sorriso degli occhi già naufragato nel gelido mare del nord. Un ragazzo.
Nello spiraglio del vetro aveva spinto una mano. Un intero discorso concentrato nelle dita protese. Per dirti che m'interessi, ragazzo, ti offro quello che posso. Una mano.
L'aveva guardato con rassegnazione, prima di precipitare senza una voce lungo le paratie della bianca nave del nord. Che non s'era neppure fermata: siamo vicini al porto, arriverà una vedetta, l'ambulanza è già stata chiamata.
Efficienza mirabile che ci sognamo, noi altri. E compostezze che non abbiamo mai avuto. Nessuno si era mosso dai tavoli che i camerieri solerti ripulivano dagli avanzi del pranzo.
Tutto perfettamente ordinato, ogni poltrona dotata del suo sea-sick bag, beutel fur seekrankeit, per vomitarci, nel caso, l'amaro della propria coscienza.

Nel mondo non è se non vulgo, sembra, alle volte.

Nordici traghetti che aveva aspettato seduto sulla ruota di scorta dell'auto, sentinella insonne nella garitta issata sul cofano motore, senza un solo gesto, un lieve fumo appena visibile che monta dalla pipa e subito si disperde.
In quella paziente immobilità un meno greve corso di pensieri, senza iracondi moti di protesta ché nulla vale provar dispiacere per ineluttabili eventi, senza malinconiche ipocondrie, senza fantasie sentimentali, in una sospensione di tempo, annullato lo spazio che divide i luoghi di un'identica esperienza.
Aveva socchiuso gli occhi in assolati posti di frontiera, ore in attesa del niente burocratico, accovacciato nella terra calda. Paziente come il più paziente dei beduini che gli stavano intorno, immobili, mentre il vento soffiava portando finissima sabbia.
In quell'atarassica sospensione di ogni desiderio era possibile trovare, forse, una perfetta letizia.
Sul monte l'ermitage du père de Foucauld. L'Assekrem spogliato dai venti.
Pietra.
Con la pietra il monaco aveva costruito il suo monastero. Un uomo in ginocchio nella piccola chiesa, ai piedi del crocifisso, la fronte posata sui tappeti intessuti dagli arabi, come quelli scalzo, nel raccoglimento del tempio.
Sulla soglia si era fermato per contemplare il perfetto dominio che l'assoluta immobilità rivelava e il respiro pacato.
Duemilaottocento metri sul livello del mare. Rifugio di monaci nella montagna in mezzo al deserto.
Charles de Foucauld, barone, conte, principe, paladino di Francia, militare, esploratore, studioso, poeta, religioso. Musulmano, no, cristiano: che è dire lo stesso, nell'avamposto solitario di questo deserto, vicino ai tuareg.
Montagne organiformi: qui ci potremo fermare, quando il vento tiepido della sera accarezza il volto del viaggiatore stanco.

Quale vento accarezzerà, questa sera, i volti dei passeggeri accasciati nell'aerostazione?

CAPITOLO SETTIMO
C'è un momento, subito dopo l'alba, quando al navigante che torna la terra appare, attesa per tutta la notte. Isole bianche che emergono dalla trasparenza dell'acqua.
Descrive, in quel punto, la scia una bianchissima volta sulla quale s'increspano le ali dei gabbiani e la nave discende lentamente, per centellinare l'emozione di quell'incontro.
Cormorani e profumi di macchia. Ginepri come una morbida coltre sugli anfratti rocciosi.
Dove sono sopravvissuti, a dispetto dei tagliatori di boschi e degli incendiari.
Come sarà stato il mondo, prima che cominciasse la danza degli uomini? In parte l'abbiamo conosciuto, quando eravamo bambini, così come era nel giorno in cui nacque. Poi il tempo si è moltiplicato per mille, e quando ancora piangevamo il dolore dei boschi tagliati, lutti più grandi abbiamo voluto, noi stessi, frantumando i fianchi delle colline e le spiagge. Per far posto alle case.
Le guardano dalla nave, quelli che giungono per la vacanza, schierate ad attenderli sotto le ombre frettolose degli eucalyptus e con gioia le mostrano gli uni agli altri.
Senza sapere quello che noi sappiamo, ignari della nostra tardiva tristezza. Ma anche del sentimento che nonostante tutto ci vince, quando si rinnova l'incontro e possiamo aspirare il vento che soffia da terra.
Su quelle scogliere aveva camminato, da solo, con le piante dei piedi che aderivano al granito caldo, passando di roccia in roccia in un'infinita scoperta. Un promontorio, una cala di azzurrissima acqua, una spiaggia dove s'erano incise le orme degli uccelli venuti sul fare del giorno. Padrone di un universo che non accoglieva altri uomini. Rapide risalite sulla costa che impennava in mezzo ai cespugli; in alto il sentiero si affondava nel folto e a poco a poco il mare era solo un ricordo lasciato alle spalle della collina. Stoppie dorate e oscure chiome di carrubi che protendevano i rami fino a toccare la terra: freddo, là sotto, anche nei pomeriggi di luglio.

Sembrano piccioni in volo, ora, le buste che attraversano il cielo. S'impigliano negli spini delle ginestre e stanno come bandiere che intristiscono al vento. Sulla spiaggia le deiezioni dell'universale naufragio, bottiglie plastificate fiorite d'ingrommato catrame, scampoli di cordame, taniche portate dall'onda, laidi rottami che il tempo non può cancellare. Liquidi putrescenti gocciano dai sacchi appesi ai rami dei ginepri che vincono l'arsura delle sabbie marine, prìncipi decaduti che si rispecchiano nei vetri delle bottiglie infrante sulle radici.
Questo è avvenuto, e dobbiamo riguardarlo come un segnale di libertà e di benessere: non andavamo alle spiagge, quando avevamo la schiena spezzata dall'ininterrotto lavoro, e pare che sia una gran cosa, l'andarci.

Il porto lo abbiamo atteso per anni.
Speranza ultima di resurrezione e d'ascesa, forma materica cui affidare la stessa idea di riscatto.
Generazioni di scalpellini e pastori prementi dietro le spalle spinti dal morso di una fame mai sazia.
Non che non avessero ragione, sotto questo profilo. Ma la fame è quella che è: se anche può, talvolta, determinare audacissime imprese, difficilmente la potresti trovare dietro un solo atto assennato.
Aspettavano il porto gli scalpellini e i pastori ormai morti da tempo; lo aspettavano i pescatori dilaniati dalle bombe approntate per i pesci con la dinamite rubata nelle cave prima che iniziasse l'età del benessere; lo aspettavano i manovali che di tale benessere avevano sentito il profumo, ma da lontano, e ne avevano visto le immagini nelle ville costruite sulle terre che erano appartenute ai loro padri, là dove erano rientrati a testa china sotto il peso dei secchi ricolmi di cemento; lo aspettavano i camerieri che porgevano i piatti nei ristoranti sul mare e i guanti bianchi li indossavano per nascondere le mani che denunciavano una virtù contadina della quale si vergognavano.
E lo aspettavano categorie meno nobili che nel piccolo centro di C. erano calate da ogni dove, italici o esteri accomunati dall'idealità del profitto subito e a qualunque costo, secondo i termini propri di una moderna e furiosa corsa all'oro.
Così che quella piccola terra, sdimenticata da Dio e ignorata dagli uomini, nel giro di pochi decenni si era trasformata nella meta di chiunque sperasse d'avere la concessione per lo scavo di un personale filone.
Una ressa, uno spingi spingi, uno smanacciamento che hanno finito col portare in seconda linea proprio coloro che laggiù erano nati.
Non che non ci fosse un generale benessere, non bestemmiamo. Gente scalza non se ne trova più, né bambini mezzo morti di fame.
Anche le case, a pensarci, hanno guadagnato in colore, sono scomparsi i muri di fango e le sgangherate finestre prive di vetri.
Dio ce ne liberi dal tornare a quei tempi che solo può vagheggiare chi sempre ha avuto, nella sua abitazione, una stanza da bagno con l'acqua corrente. Chi ha scavato sotto le fronde della mimosa un fossetto che in attesa di tempi migliori costituiva l'unica fognatura possibile, comprende di che cosa si parla.
Epperò avremmo potuto sognare anche soluzioni diverse. Troppo ci sarebbe da dire, su come sono andate le cose, in senso contrario alla logica e alla giustizia, che l'età in cui viviamo, affannata, non saprebbe comprendere.

Non abbiamo capito, contadini e pastori, pescatori e scalpellini con la testa nel sacco, ma non hanno capito neppure gli altri che la testa l'hanno tratta fuori dal sacco, per tempo, e li abbiamo colmati di prebende e di onori, abbiamo loro offerto le sedie più alte nei consigli elettivi del nostro paese, ancora li rispettiamo più di quanto non meritino.
Neanche loro hanno capito e hanno firmato le concessioni per lo scavo delle nostre miniere, sulle nostre spalle abbiamo portato i paletti e le reti e in cambio abbiamo avuto l'incarico di custodi del recinto.
Così sono sorte le ville e i villaggi, gli alberghi e i residence sulle scogliere perdute e quando le abbiamo perdute abbiamo vista sparire la nostra personale speranza di modesto benessere.
Fu allora che nacque l'idea grande del porto. Un porto multicolore di vele e di yacht, esteso nelle banchine, ricco di ogni servizio che la fantasia di qualsiasi marittimo sardanapalo potesse desiderare. Ci abbiamo pensato per anni e nei momenti bui, quando ritornava la fame sempre qualcuno ha detto:
- Tranquilli, che presto o tardi ci sarà il porto nuovo.
In premio di tale speranza anche l'ultimo sudato permesso è arrivato e i manovali hanno ripreso la lena, i ruspisti e i guidatori di camion.
Sono stati accesi i motori e le benne hanno cominciato a scavare nei fianchi delle colline per caricare le pietre da rovesciare nel mare.
Con che cos'altro le vuoi costruire, le banchine?
Certo, son necessarie le pietre, e noi ne possediamo in gran quantità, buttate nei campi per intralciare il lavoro, ordinatamente disposte secondo il criterio degli uomini che in questa terra sono vissuti anni e anni fa.
Le une e le altre abbiamo caricato negli ampi cassoni che ribaltano in acqua con rumore di tuono.
Così nel mare abbiamo buttato ogni cosa, i ciottoli inutili e le preziose memorie. Tutto trasformato in banchina per i signori che vorranno ancorare lo yacht e scendere a fare due passi sulle rovine delle muraglie costruite dai nostri antenati. Disfatte da noi, che finalmente impugniamo la pompa della benzina nel distributore sul molo, in divisa.
E guardiamo le femmine ignude e i loro corpulenti mariti, da questi e da quelle ricevendo l'immagine conturbante del mondo sontuoso al quale vorremmo appartenere e non possiamo.
A causa della forte ignoranza che abbiamo.

Catabatici venti talvolta dovremmo invocare, sovvertitori di dighe foranee, capaci di annullare i residuati degli idrocarburi e dei polifosfati, le buste di plastica, le lattine di birra, le infinite immondezze vaganti nelle nostre acque chiare di mediterranee memorie. Gli acri odori del cocco e le flaccide carni che il sole non riesce a bruciare.

Con Cristolu gli capitava di andare sulle terre della grande riforma.
Viaggiavano in silenzio, osservando i monti che fanno corona, i più belli tra quanti si levano alti nelle quattro parti del mondo. Foreste impenetrabili che hanno sfidato tutte le nostre disgrazie e sopravvivono diminuite nell'estensione ma non meno folte.
Come è folto il fico che cresce addossato al muro dell'officina.
Fichi buoni come quelli è difficile trovarne.
Davvero?
Lo saprò, io che ci ho lavorato trent'anni, qui.
Fichi e viti, alti eucalyptus, un viale di gelsi dolcemente inclinati sulla cunetta.
Si lasciavano alle spalle la gran mole del carcere ormai silenzioso e via fra i campi curati, gli agrumeti e le vigne solcati dai tubi apportatori di umidità. Goccia dopo goccia come si conviene per un raccolto abbondante.
È arrivata la spietratrice automatica, nel campo sperimentale.
E funziona?
Funzionerà, anche, è da vedere a che serve il prodotto.
Entravano nella borgata che assomiglia a un paesino della campagna francese di avanzata civiltà. La grande cantina, la chiesa, lo spaccio, le scuole. In una piazza scura di pini i ragazzi giocavano con un pallone.
Viali che separano giardini fioriti e profumati di menta.
Cos'è quella pianta?
Un noce.
Già, un noce. Non me l'aspettavo, quaggiù.
Ogni cosa è possibile qui: ci sono le antiche sapienze e le tecniche moderne.
Peccato che non servano a nulla.
Non servono a nulla.
Le arance conviene portarle da Israele.
Già, e il vino?
Il vino conviene direttamente buttarlo.
Costa meno della gazzosa.
È tutta una politica.
Salivano a trovare Valerio nella bella casa sul poggio. Il cannone sparava una pioggia che ricadeva sopra il prato di medica verde. Arrivavano pulviscoli d'acqua e il frusciare che rallegrava la sera.
Cos'erano questi posti, trent'anni fa.
Cosa potrebbero essere, se lo volessimo.
Ne abbiamo mosso bennate di terra.
La foschia saliva a confondere la linea dell'orizzonte affacciato sul mare, i prati lontani persi alla vista, gli alberi alti e i muretti di pietra.
Sere di quiete, le ultime prima che giungesse l'estate con le orde delle vacanze, le auto rombanti e gli stereo.
Parlavano con Valerio, pacatamente.
Calpesteranno il silenzio, oscureranno i dettagli di questo paesaggio ricoprendolo di polvere fitta.
È la vita, così come vuole la ragione economica. Ma non hanno ragione.
Il vecchio e il nuovo intrecciati nei discorsi: il presente che non ha molte speranze e il passato, quando un uomo usciva per lavorare portando nella tasca, per pranzo, due sole carrube.
Speriamo che non tornino mai, quei tempi.
È vero, però adesso siamo troppo viziati.
Vallo a trovare un uomo che zappi la vigna, o porti le pecore al pascolo.
Non conviene.
Convengono meglio i soldini della disoccupazione.
Restavano con questo nodo insolubile, scoprendo che nessuna età è perfetta e prima era il tempo della schiavitudine, oggi Valerio ha una casa che sembra una villetta ordinata, i fiori splendenti nelle aiuole bordate di pietra come in Costa Smeralda e i pini alti che suo padre non avrebbe voluto vedere, nei luoghi dove vivono gli uomini.
Strada ne abbiamo fatta, non c'è che dire, ma siamo rimasti l'ultima ruota del carro.
E poi c'è un senso d'inutilità.
Lo potremmo buttare tutto, il nostro prodotto, non lo vuole la CEE e la Regione è pronta a pagare un contributino.
Non si può andare avanti così.
Quelli l'hanno indovinata, che se ne stanno sulla spiaggia.
Chissà se l'hanno indovinata davvero o se non abbia più senso giocarsela fin in fondo, la propria parte, senza un momento di vacanza della mente che sempre rivolta il problema della semina e del raccolto.
Chissà. La vita non è che una serie di situazioni imperfette.

Dalla finestra aperta una tenda mossa dal debole vento pennellava bianchissima il cielo ormai scuro. Giungeva un suono di piano che si confondeva con la musica degli irrigatori in una sinfonia pastorale mai udita nelle sale concerto.
Solo per chi sapeva ascoltarla lasciandosi trasportare dall'universale armonia.

CAPITOLO OTTAVO
Il sonno lo aveva respinto fin da quando era bambino. Troppo breve la vita per dormirsela inutilmente.
Gli scuri aperti a spiare la prima luce del giorno. Verrà il momento che ci consegnerà definitivamente alla notte: perché anticiparlo sigillandoci nelle nostre stanze, in un sudario d'oscurità?

Sulla morte gli capitava di riflettere, a ciglio asciutto, senza particolari emozioni né metafisiche curiosità. Non gli importava molto di sapere cosa ci sia, varcata la soglia, sempre che qualcosa ci attenda, o non piuttosto un buio assoluto.
Al momento vedremo, inutile ora confondere i nostri già deboli ragionamenti con ipotesi di mondi inattingibili per la debolezza dei sensi: toccheremo con mano e potremo capire, se ci sarà da capire, a suo tempo.
Della morte pensava che fosse una perdita grave di conoscenza, per chi rimane.
Tutto ciò che un uomo di profonde dottrine possiede, tesoro cui in modi diversi possiamo attingere, lui vivo, il trapasso lo disperde d'un subito, quando per costruirlo c'è voluta una vita.
Segno di limitazione per l'umana natura l'impossibilità di ereditare il patrimonio delle sapienze che possedeva chi ci ha preceduto, come ereditiamo le materiali ricchezze, in forma diretta, per lascito intero, unicamente sottratto ciò che è richiesto in corresponsione di tassa dovuta al pubblico erario.
Oggi si apprende che agli artificiali intelletti è concesso di travalicare l'angustia del limite naturale, che i risultati sono già positivi e per il futuro è dato sperare, in meglio.
Lo dice con tono fidente l'ingegnerino informatico capace di spiegare gli scenari futuri, quelli che tutt'al più potremo vedere di scorcio.
Sono giovani, e belli, con gli occhi chiari rivolti al futuro, gli esperti di soft. Sorridono timidamente, e forse non rivelano l'intera audacia del sogno che li sospinge.
Poi si tradiscono, se aggiungono come inciso - purtroppo -, alla constatazione che spiega come l'agire dell'uomo non obbedisca al paradigma del razionalismo oggettivo. Purtroppo.
La macchina, invece...: ecco il retropensiero, il progetto che non può essere detto, a voce alta, almeno. Tanto più davanti a un'assemblea di ascoltatori umanisti che inorridiscono. Il filosofo vecchio, e stolto nella ripetizione dei luoghi comuni strascinati per duemila anni di occidentale speculazione, si leva per contraddire, e non si avvede d'essere un mobile decrepito in una sala tinteggiata di nuovo, in attesa dell'arredamento appropriato.
L'ingegnerino sorride con uno sguardo buono, e acuto. Non gli sono ignote le titubanti opposizioni retoriche e sa come placarle presentandosi rispettoso e pronto ad apprendere tutto ciò che l'altro gravemente propone.
In realtà conosce i filosofi antichi e i moderni, le euristiche cognizioni e le procedure neuropsichiatriche, può spaziare dai chip alle cerebrali sinapsi. Come si insegna a Palo Alto, California. Ma è meglio non dirlo per non spaventare nessuno.
Offre allora di sé l'immagine di un meccanico appena appena avvertito, che ha studiato la macchina ma anche si interroga sui perché della guida e sui dove delle possibili mete. Epperò si tradisce ancora una volta quando dice: - fantastico - e gli leggi nel riso bambino che lo vede come se già fosse davanti, il mondo razionalmente ordinato che sta costruendo. Fantastico. Che rabbia non esserci, quando sarà.
In principio è l'esperto; da lui, con psicoanalitico scavo, è possibile suggere un patrimonio di dati sui quali la conoscenza riposa, mesi e anni di lavoro per trasformare in un paradigma accettabile dal mezzo meccanico quello che un'intera esistenza ha raffinato e composto nella mente dell'uomo. Finché sono eguali, la macchina e l'uomo, proprietari di un'identica knowledge base che ciascuno emulsiona coi mezzi dei quali la sua natura dispone, fantasia, immaginazione e creatività o un motore inferente capace di realizzare processi algoritmici. L'uno in grado di aumentare ad libitum il patrimonio di informazioni, l'altra abilitata al lavoro unicamente sul materiale acquisito.
- La macchina, poverina, ha solo la sua conoscenza -, conviene serenamente l'ingegnere informatico: onesto riconoscimento delle proprie caratteristiche, buona base di inizio per ogni persuasivo ragionamento. In più c'è quel - poverina - che dice non di compatimento ma dell'affetto, della solidarietà e dell'intesa che si può stabilire con l'essere in cui ritroviamo una soddisfacente affinità.
Ma l'errore, obietta il filosofo, appartiene all'umano, ne segna il progredire verso l'apprendimento. Gli appare diminuita, la macchina, per la quale non è dato l'errore: non vede che quella dispone di una verità relativa, e lo sa, quanto meno siamo noi che sappiamo, rispetto a quella è nel giusto.
La qual cosa può essere un più vero e sicuro principio di conoscenza.

Gli sarebbe piaciuto stringere relazione dialogica con un expert system programmaticamente disposto a riconoscere la relatività del suo vero, paradigmaticamente incline al razionalismo obiettivo, che è pure qualcosa; forse meglio di molte soggettive fantasiosità.
Quelle che troppo tempo abbiamo sopportato, per non sapere con chi parlare altrimenti, quelle che oggi possiamo rifiutare per muovere incontro a più congeniali affinità.

Nonna Sofia aveva paura dei temporali. Quando da lontano il borbottio s'annunciava del tuono, si ritirava nella dispensa, la finestra sprangata, chiusi i pesanti tendaggi affinché non filtrasse l'improvvisa luce del lampo. Le zie l'accompagnavano, e le donne di casa, in quel sicuro ricovero, in attesa dell'ultimo scroscio e del sole riparatore.
A lui soltanto era consentito l'andare e il venire, non senza uno sguardo di preoccupazione quando apriva la porta ed entrava portando gli odori dell'acqua che impregnava le vesti.
Restava un momento in quel chiuso, per dire che tutto procedeva per bene, che le gronde ripulite sul finire dell'estate liberavano dal pericolo delle infiltrazioni temute, che il fulmine si scaricava lontano. Poi nuovamente fuori, a godere il miracolo della pioggia che scorreva nelle canale del tetto, precipitava nel misterioso condotto per riuscire impetuosa sulla tegola disposta sopra la vasca. Una cascata che ribolliva nel fondo, cercava il foro d'uscita, ancora saltava in un turbinare di spume per raggiungere il solco scavato nel suolo, pazientemente ripulito nei periodi di secca quando sembrava impossibile che il cielo potesse mai rannuvolarsi. Si formava un torrentello bizzarro che schivava con le sue anse le asperità del terreno, scorreva diritto lungo il muro ricoperto dai tralci del rampicante sfogliato, aggirava il ceppo della vite da cui nasceva il pergolato, s'incuneava tra il pero e il carrubo per poi piegare bruscamente verso la griglia del muro di cinta e si scaricava nella piazza grande del dominario, dove un tempo riposavano le vacche di Todde, oggi le rugginose carcasse dei mezzi meccanici abbandonati dal nuovo padrone.
Dall'alto della veranda era possibile vederla, la vecchissima trebbia, primo segno di modernità arrivato a C.
Si era formata una processione, per ammirarla al lavoro, l'enorme cinghia traballante e il fumaiolo che lanciava i suoi fumi verso il cielo di giugno. Giorni e giorni di lavoro d'un intero paese annullati dal mostro meccanico che ingoiava le spighe e restituiva un getto dorato di chicchi, direttamente nei sacchi.
Ne inventano, i forestieri.
Sembrava il massimo cui si potesse aspirare: nel giro di qualche anno era stata superata da mezzi più nuovi e potenti, finché la mietitura, la trebbia, la selezione dei grani, la formazione delle balle ordinate di stoppia, tutto era stato commesso a un'unica macchina. E l'antica buttata in un canto, nella piazza di Todde sulla quale affacciavano le porte dei magazzini egualmente inutilizzati, dolenti occhiaie che piangevano il bel tempo passato, grate che le incursioni vandaliche cominciavano a storcere, il pozzo racchiuso dai conci squadrati che si riempiva di pietre precipitate dai ragazzini, tegole che il vento smuoveva e nessuno pensava più di ricollocare.
Una tristezza, segno del tempo che passa inesorabilmente.
La pioggia offriva una cosmesi brillante a quelle rovine, l'illusione di una giornata. Poi sarebbero cresciute le malve e gli spini a sommergere col loro abbraccio i rottami lasciati dall'uomo.
Potere, per un solo istante, vedere quel mondo com'era, senza muri di divisione, senza segni della rovina, il via vai degli uomini indaffarati, le bestie aggiogate ai carri, la cavalla legata all'anello. Mondi perduti, e a poco a poco ne scompare il ricordo.

La pioggia ancora batteva sulle vetrate dell'aerostazione, i lampi illuminavano a tratti le piste.
La donna col suo fascio di carte sotto il braccio dormiva, il capo reclinato, più bella, nel sonno.

Quando nonna Sofia aveva deciso di trasferirsi in città, era stato come se un sipario calasse sull'intero scenario.
Fine di un mondo e di un'era, sospinto ancora più lontano il ricordo del vecchio Torres.
Chissà come poteva vivere nell'angusto appartamento chi aveva conosciuto gli spazi infiniti della campagna e della costruzione di Todde.
Si diceva contenta, però, e forse, raggiunta la soglia dei novant'anni, lo era davvero.
Lo portava dentro di sé, il ricordo dei tempi, ed era sufficiente a illuminarle la vita che trascorreva seduta accanto alla finestra affacciata sul viale alberato.
Il nipote la cercava con lo sguardo, dal basso della strada, e subito la vedeva, dietro i vetri, bianchissima di capelli, vigile tanto da scorgerlo al primo apparire.
Nonna Sofia che l'angustia dell'appartamento cittadino non diminuiva ma che ritrovava, più grande, a ogni ritorno nella casa disabitata di C.
Solo lui ritornava, di tempo in tempo al paese, senza un vero motivo, senza saper bene che fare in quelle stanze buie.
Si aggirava nel silenzio e nell'odore d'antico, caricava gli orologi che rintoccavano segnando un inane scorrere di minuti.
Dormiva nella dispensa. Con la finestra aperta per sentire il respiro del giardino. Come fosse il comandante e l'unico passeggero di una nave che muove lentamente in un vastissino oceano.
Notti d'estate in cui con dolore lasciava il cielo stellato per ritirarsi nella stanza. Poche ore: nel cuore della notte occorreva levarsi per aspettare l'arrivo dell'acqua che lentamente fluiva dal rubinetto del giardino.
Un filo precario che non aveva la forza di salire fino agli appartamenti. Bisognava aspettarlo con fede vincendo lo scoraggiamento che i gorgoglii inducevano nell'animo più saldo. Prima o poi arriverà e potremo riempire le brocche, forse, e forse annaffiare il giardino, goccia per goccia, fino all'alba, nel silenzio notturno.
Così eravamo, come ci hanno fatto i tempi in cui siamo vissuti.
Se ci fossimo limitati a biasimare le incurie amministrative saremmo cresciuti diversi, forse pronti ad affrontare la vita e a conseguire successi, ma incapaci di comprendere l'essenza delle cose.
Aveva aspettato il filo d'acqua che viene di malavoglia, aveva aspettato ogni evento che la vita ci deve in cambio della nostra pazienza e dell'ingenua fiducia con la quale ci disponiamo per non farci cogliere impreparati.
Non sapete né il giorno né l'ora.
Sta bene. Aveva scoperto, però, che è impossibile sapere anche il modo. O meglio, che fra tutti i modi possibili più spesso si offre quello che ripugna alla propria coscienza.
Vuoi tu superare la prova, an non?
Dipende da cosa comporta, se sia un prezzo che è legittimo chiedere o non significhi entrare in un dubbio sentiero.
Con questi scrupoli non avremmo potuto realizzare il progresso.
Ammesso sia un progresso quello che si realizza nella confusione dei mezzi.
Gli altri non vanno tanto per il sottile.
Preferisco cercare le universali armonie.

Ed era rimasto in attesa d'un filo d'acqua, con le brocche parate, l'orecchio volto al gorgogliare del tubo.
A onor del vero tutti restavano, laggiù, disciplinatamente in attesa, e quando c'era da dire che così non si amministrava un comune nessuno si tirava indietro e li incalzavano, gli amministratori inerti.
Ma cercare una personale sorgente, in danno delle comuni speranze, questo era ben altro discorso che nessuno voleva sentire, in quel tempo.

Nonna Sofia era morta un mattino di maggio.

Al cimitero saliva di rado, sul piccolo colle che guarda il profilo della città e il mare. Ancora per poco. Poi sorgerà un palazzo a chiudere tutte le viste. Una banca, dicono, e sarà anche vero.
Certo non se ne può più delle banche, dei banchieri e dei grandi palazzi che magnificano se stessi. Non se ne può più.
Il rumore dei battipali arriva fino alle tombe. Fondamenta imponenti per un edificio bello come Beaubourg. Bello. Chissà se il rumore li disturba, i morti. O piuttosto sono in grado di comprendere e compatire anche il Beaubourg.
Saliva di rado, che il ricordo dei morti ciascuno se lo porta dentro e allora rimangono vivi e continuano a parlare, come se non fosse vero che sono muti dietro le lapidi da trent'anni, o da cinquanta.
Cinquant'anni erano trascorsi da che era morto nonno Torres che non aveva mai conosciuto.
Per lui aveva compiuto i servizi dell'estrema pietà quando le infiltrazioni dell'acqua erano riuscite a sconnettere la muratura della tomba.
Chissà se gli era piaciuto, a Torres, il lavoro del maestro chiamato al lavoro, esperto antico nell'arte del marmo, lapicida come usava nel buon tempo passato.
Un lavoro di fino per riparare le sconnessure con cemento ben grasso che tenesse la lapide per un altro secolo ancora. Senza risparmio.
Gli aveva chiesto, il guardiano del cimitero, cosa mai gli importasse d'una tomba vecchia, e per giunta situata nell'ala in cui prima o poi il comune avrebbe fatto un restauro.
Tanto valeva aspettare qualche anno senza spendere un soldo.
Aveva capito tutto, il guardiano del cimitero, altro esemplare da custodire al Beaubourg.

Era morta, nonna Sofia, ed era morto il suo mondo, perduta la battaglia che aveva combattuto per affermare il diritto a esistere.
Pecore sparse e viti scheletriche erano rimaste, a raccontare l'ingenua speranza che la storia aveva negato.
La speranza di Todde, il vecchio professore che nell'aula grande dell'università agli studenti convenuti per l'orazione inaugurale aveva parlato di macchine e di progresso. Così come si poteva, nell'anno di grazia 1876, quando ancora era lecito pensare che la scienza fisica applicata all'industria dovesse esercitare un'influenza benefica sull'umanità. Su tutta l'umanità. Con le quali cose si rialza il sentimento della dignità umana e si desta dovunque il bisogno di una morale più corretta e più giusta.
Così gli sembrava.
Cento anni dopo c'era ancora da chiederselo in che cosa poteva risiedere il sentimento della dignità umana, per i pastori e i contadini di C., per gli scalpellini finiti a cavare carbone nelle miniere del Belgio.
Pensava alla macchina, il professore Todde, con positivistica certezza di liberazione, al vapore applicato al trasporto che riesce ad annullare le distinzioni di classe nella gran confusione di genti portate da uno stesso convoglio.
E respingeva il dubbio che appena gli sfiorava la mente: lo so, vi fu chi viaggiò in piedi o seduto, chi sopra soffici guanciali e chi sul duro tavolo; ma il carbone bruciò egualmente per tutti a svolgere la sua potenza calorifera, serviti tutti dallo stesso potente mezzo di trazione. Ma a ciascuno è libero l'accesso in ogni classe di vagoni, senza distinzione di nobile o di plebeo, di proprietario, capitalista od operaio, il quale nel giorno festivo, quando le ferrovie siano ben dirette e amministrate, può, spendendo poco più del consueto, darsi il lusso di un posto di prima classe, torsi il capriccio di tenersi al fianco del signore per percorrere chilometri di strada con pochi soldi di aumento della consueta spesa.
Rivolto ai giovani generosi che lo ascoltavano, confidando nel soffio della loro potente intelligenza, aveva voluto concludere in un crescendo di attese: è una vera democrazia di fatto realizzatasi mercé la forza motrice del vapore applicata alla locomozione.

Quando le ferrovie siano ben dirette e amministrate. Forse.
Chi ha mai diretto, e amministrato, le cose che avvenivano a C.?
Quelle grandi, s'intende, i generali processi che non può governare nessuno, da lì, neppure un padrone sensato che provveda con criterio ai suoi campi.
Ma dei campi poco si erano curati in passato, i reggitori del mondo, poco si curavano adesso che tutto era cambiato.
Quella terra che rinnegava il lavoro degli uomini s'era mostrata cortese coi loro riposi.
Erano giunti da paesi lontani e avevano preso possesso delle acque del mare e degli scogli sulla costa. Avevano costruito case sempre più ricche che umiliavano le dimore di fango e i loro abitanti. Li avevano confusi, i poveri uomini del villaggio, con un vortice di fantasmagoriche immagini. E col danaro che non avevamo mai visto.
Tutto venduto: la secchia del pastore, la macina che muoveva l'asino bendato, i campi su cui non cresce più il grano ma l'oleandro e il fiore dell'hibyscus, anche gli inerti massi del recinto.
Tutto comprato, insieme alla memoria della dignità che sfuma.
Uomini scuri, parchi di parola, sapienti per avite professioni condotti a zappettare i fiori di oziose aiuole avide dell'acqua negata ai coltivi. O a curare gli arrosti offerti alle dame discinte, trepidanti per l'aria selvatica e l'irsuta presenza dell'uomo chiuso nel suo orbace primitivo.
Tutto venduto, pelli e formaggi e le pietre scolpite dai nostri antenati, le foreste frondose e le spiagge assolate, per poche monete.
L'economista e i suoi sogni di riscatto.
Oggi ce l'abbiamo sotto gli occhi, la prima classe del treno che passa davanti ai ragazzi incupiti sulla soglia del bar.
Qualcuno avrebbe anche voglia di provarli, i soffici guanciali, per togliersi il capriccio di sedere come fanno i signori: è il momento in cui nasce l'idea di scassinare le ville.
Per l'esiguità delle forze dell'ordine è un libero accesso.
Se sia anche vera democrazia, come auspicava l'antico, bisogna vedere.

CAPITOLO NONO
E se esista il sentimento della dignità umana bisogna vedere, misurando i pensieri su questa sala d'aeroporto dove sono rimasti, nel cuor della notte, solo i viaggiatori diretti alla terra perduta.
Pazienti come l'asino della mola. Come quello bendati, mani e piedi legati, senza avere nient'altro da fare che rassegnarsi al destino.
Ribellarsi non serve. Chiedere un'informazione neppure. E a chi la chiederesti, d'altronde, l'informazione, visto che l'impiegato del banco accettazione se ne è andato a dormire e soltanto ci resta il piacere di guardarci torvamente negli occhi, compagni d'una stessa sventura, l'uno nell'altro vedendo con malcontento l'immagine della nostra debolezza?
Quale litania di tormenti abbiamo dietro le spalle, divenuti quelli che siamo, inevitabilmente prostrati dal soffiare dei venti. Impetuosi, come difficilmente può immaginare chi non abbia visto le chiome degli alberi pettinati verso la terra.
Che altro fare quando la bufera avanza, se non lasciarla sfogare?
Nella passività risiede la nostra saggezza, nella non-azione che esprime la comprensione del tutto, e il dissenso. Salvata la dignità, almeno.
Quelli che la salvano, naturalmente.
Perché nasce la tentazione di baciare la mano, di volgere il passo verso percorsi traversi, nell'illusione di arrivare a una meta.
Disprezzarli non vale, compatirli, piuttosto, uomini e donne illusi di partecipare al generale banchetto; raccolgono briciole e se ne fanno contenti.

Mille volte meglio vedere la realtà delle cose senza infingimenti.
E avviarsi col capo chinato al cammino di deportazione che percorri ogni giorno per campare la vita?
Col capo chinato? È una questione di punti di vista. Può essere più duro il salire su per le scale col cappello proteso a chiedere ciò che ti spetta. Preferirei rinunciare, piuttosto.
E i meno degni che avanzano nel luogo della tua rinuncia?
Sarebbe una ben strana pretesa voler di punto in bianco modificare l'ordine consolidato del mondo.
Della mia vita rispondo, non d'altro.

Della terra doveva rispondere. Del possesso che non giustifica un documento notarile ma l'uso appropriato.
Le notti trascorse a dibattere se la proprietà sia un diritto o non piuttosto si configuri come una sottrazione perpetrata in danno della collettività e si licet approvare la norma che prescrive il passaggio della ricchezza per successione ereditaria.
C'era poco da giustificare, guardando la terra arrivata fino a lui.
Decenni di abbandono avevano cancellato ogni segno dell'intelligenza che vi aveva operato. Muri abbattuti e rovi, mandorli intristiti dalla magrizia dei suoli che le acque avevano dilavato, sterile sabbia. Al centro del campo un perastro che i fuochi e le capre avevano ridotto allo scheletro.
Cèppita e asfodelo.
Gli stava nel cuore, ai suoi conterranei, il fiore dell'asfodelo, simbolo dell'estremo degrado, punto del non ritorno, imago mortis, a dispetto del suo rigoglio.
All'ombra del leccio antico che Torres aveva piantato li contemplava pensoso quei fiori rosati e fumava il sigaro fino a succhiare l'amaro della foglia.
Un dolcissimo piano che il mare racchiude, a ponente; sugli altri punti cardinali, incombente, il profilo severo dei monti.
Si levano erti, dolomitiche catene di bianchissima pietra che seghetta l'azzurro del cielo. O lo scuro nelle notti d'improvviso illuminate dalla luna nata nel mare celato a oriente, dietro la quinta dei picchi rocciosi.
Di guardia, dall'alto, nella vasta veduta che triangola sul mare due torri di pietra da millenni obbligate a vegliare sul lavoro dei contadini, pronte all'allarme.
Campi sui quali avevano infisso il dente della zappa i primi abitatori di quella regione e avevano calcato il piede gli invasori arrivati dal mare.
Chissà come doveva apparirgli, il luogo, quando avevano stabilito di costituirvi le terme per le irrinunciabili balneazioni.
Presagio di destino immutabile: noi a scavare i graniti per trovare una vena d'acqua, centimetro dopo centimetro, con la fatica della mano che non spaventa la durizia del suolo, e gli altri a costruire piscine olimpioniche, a spese nostre, per ritemprarsi le membra.
Nel pieno campo, alto, il menhir circondato dai mandorli che ricorda gli armenti venuti per sfregare le schiene ai suoi fianchi. Secoli e secoli, fino a renderlo liscio e lucente, nel sole.
Anche oggi gli pascolano intorno, come nella notte dei tempi, inseguiti dal grido contratto del pastore.
Pecore e capre divenute signore assolute, capaci di irridere i fogli catastali, le ire dei padroni, le sorveglianze dei carabinieri, l'assurda teoria di chi crede essere la proprietà un nome che per se stesso può affermare il proprio diritto.
L'unico diritto che qui si impone è lo sforzo dell'uomo che fa, con costanza, giorno dopo giorno e ciascuno capisce che non vorrà rinunciare all'impresa.
Ma prima va messo alla prova.

Un campo è come il mare infecondo se l'ombra non lo ricopre dell'albero che si lega con la radice, in profondo.
L'albero ha bisogno dell'acqua ostinatamente negata.
Nessuno l'aveva mai vista, in quella tanca. Uomini che avevano trascorso laggiù la propria esistenza, dall'infanzia dietro le greggi.
Acqua non c'è: scuotevano il capo a commiserare colui che aveva studiato e perciò non poteva capire la vita dei campi, la sua intelligenza perduta nelle ingannevoli pagine dei libri.
L'acqua c'è, nel profondo, gli aveva detto suo padre, nascosta nel pozzo interrato che bisognava trovare.
Sabbia portata dalle rovinose alluvioni, e pietre. Giallo rinsecchito di spini.
Verde improvviso di finocchi selvatici che sfidano il sole e coprono il passo lento della tartaruga e il canto notturno della rana.
Lì bisogna scavare. Picchetta e paiolo, senza dirlo a nessuno.
Terra che sfarina già sciolta. Massi precipitati per occludere la cavità. Gioco di carrucole e argani. Cielo che s'allontana restringendosi verso l'alto. All'interno buio e umidore. L'accurato giro dei conci di pietra che fasciano un cerchio perfetto.
Come l'avranno potuto realizzare, con quale fatica e con quale destrezza.
A poco a poco, sempre più in basso, spolverando le pareti dalla terra che le soffocava. Sempre più in giù, e la fatica di risalire nel sole aggrappato alla fune pendente nel vuoto.
L'acqua l'aveva annunciata un profumo nuovo, in quel campo assolato, profumo dolce di muffe, di legni marciti, di paglie disciolte, di vita che nasce nel buio profondo.
Piccole vene che cercano un varco negli interstizi, lacrima che ripulisce un volto fuligginoso.
Un rivolo si forma, denso di fanghi. Bisogna continuare a scavare con la pompa che aspira.
Il cielo è un punto insignificante, visto dal fondo finalmente raggiunto mentre l'acqua è libera di risalire gioiosamente.

È fortunata, la signoria vostra, aveva detto il vecchio arrivato a guardare il miracolo in cui nessuno avrebbe creduto.
Fortunato.
Non l'avrebbe mai detto di sé, ripensando alla vita e ai modi in cui la felicità si dispiega. I risultati che aveva ottenuto e le sconfitte: più queste di quelli, forse, in un meditato bilanciamento. Mai una pienezza di sentimento come quella provata nel fondo del pozzo, lo sguardo rivolto alla luce, l'acqua che risaliva bagnando le caviglie, le mani distese verso la terra, la vita, il petto incrostato di polvere che si scioglieva.
Fortuna. E se fosse davvero questo, fortuna? Volere una cosa e averla dopo aver penato fatiche e sopportato derisioni. Da solo.

Dopo l'acqua, le piante.
Alle prime piogge d'autunno, aveva detto Cristòlu.
E che piante? Ulivi, giro giro disposti. Nel futuro non si sa ancora cosa sia possibile fare. Non bisogna guardare a corto.
Cominciamo con cento.
Gli uccelli si erano posati subito sulle giovani fronde. Non ne avevano mai visti di rami, in quella tanca e il volo lo prolungavano stanchi oltre le siepi di fico d'India.
Non ne avevano visto mai di fronde e di foglie fresche e gustose, le capre e le pecore, le vitelle rinchiuse nella corte di Crescenzio, sul fianco del monte.
Così si diffuse la voce portata dai fiati del vento che dicevano di dolci germogli, teneri, assai più della stoppia intristita.
Erano arrivate, pecore e capre e vitelle, col muso levato nell'aria a percepire gli aromi. E quando se n'erano andate di cento piante restava il ricordo appeso ai moncherini dei rami.

Acqua, piante e recinzione. Ecco quello che serve. Troppo a lungo lasciato il luogo in abbandono, così che ognuno ha pensato di poter fare il comodo suo, di andare e tornare abbreviando la via, di approfittare della pastura e di farsi padrone nell'altrui.
Cristòlu scuoteva la testa.
Ricresceranno le gemme? Il morso della capra porta un veleno.

Sasso dopo sasso. Bisognava raccoglierli uno per uno e sistemarli sui muri dai quali li avevano precipitati le zampe passate giorno per giorno, per mesi, per anni.
Milioni di volte chino verso la terra, milioni di volte in piedi nell'aria della primavera che cominciava a scaldare, d'aprile, di maggio e di giugno.
Finché la tanca era diventata un enorme catino di sabbia rovente dove affondava la ruota della carriola carica e guardando il cielo assolato era possibile vedere le stelle rotanti della fatica.
Yuma. I cavatori di pietra coatti. Mancava solo la voce del carceriere. Un soldo per ogni sasso raccolto. Farebbe un'infinita ricchezza.
Dall'alba al tramonto, con la schiena spezzata.
Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis. Dove l'aveva letto?
E quale durezza di cuore? Della mente, piuttosto, che non avrebbe ceduto d'un passo da quello che aveva deciso.
Abbiamo meritato di trascinare sassi, e sia, ma saranno trascinati tutti, finché neppure uno ne rimanga, saranno ricostruiti i muri, sarà ripiantata la vigna e la vigna sia circondata dagli ulivi, gli ulivi si confondano coi fruttiferi, l'acqua scorra a bagnarli, risorga la casa che è ridotta a un rudere e a lei d'intorno crescano i fiori.
La stanchezza ti ha dato alla testa e ti metti a parlare come fossi il Padreterno.
Il Padreterno è un gran vecchio che non s'interessa degli uomini se non per provare quello che valgono e manda freddo, vento, siccità e caldo.
E fuoco.

Il fuoco era venuto di luglio. Partito dai piedi del leccio, col beneplacito del maestrale che sempre aiuta ogni opera buona.
Ettari di terra ridotta a una crosta. Nera. Tutte le tanche all'intorno e le colline che fanno corona. Da ogni parte. Fin dove arriva lo sguardo. Cenere calda e neri rami di rovi ostilmente protesi. Rosso fuliggine i grandi lentischi sui confini.
Non un canto d'uccello; solo il rumore dei cespugli che crepitano, prima di spegnersi. Il piede del leccio lo bagna l'acqua del pozzo faticosamente portata per una disperata salvezza.

Da tempo non si vedeva un incendio così.
L'hanno appiccato per il professore.
Per spaventarlo.
Già.
Stavano seduti su una pietra in silenzio, le mani serrate tra le ginocchia.
Si erano abituati al passaggio comodo.
A stroncare dalla strada verso il monte senza dover fare il giro più lungo.
A pascolare dove gli pareva e gli piaceva, nel loro e nell'altrui.
Gratis.
Non è rimasta una zolla che non abbia conosciuto il passo del fuoco.
Non una sola pianta d'ulivo.
Un bel danno.
Cosa farà adesso, il professore?

Il professore aveva piantato nuovi alberi, nell'autunno seguente, uno per uno tutti quelli che il fuoco aveva bruciato, in più cento e cento.
Bisogna vedere chi ha la testa più dura. Dovranno capirlo: non sempre chi ha studiato è un cretino.

La notte di san Lorenzo è possibile vedere le stelle che solcano il cielo.
Ogni stella un desiderio espresso in silenzio che immancabilmente s'avvera, dicono.
Ne vediamo a decine, da qui, di stelle cadenti, e le lasciamo passare senza battere ciglio.
Non auguratemi più la buona fortuna. La buona fortuna sono io.

Erano cresciuti gli ulivi, erano cresciute le recinzioni, a poco a poco, intorno alla tanca. Ogni giorno un nuovo tratto di muro, ogni giorno un paletto e un metro di filo, argenteo nel cielo.
Verrà il tempo in cui sarà tutto serrato e la capra non potrà passare che si perde lontana dal branco.
Il capraro malandrone.
Preferisce stare nel bar piuttosto che seguire il suo branco.
Ma una bestia può restare indietro, facilmente.
Si capisce.
Bisogna fargli sentire il fiato sul collo, perché non dimentichi il proprio lavoro.
Epperò bisogna capire che una bestia può andare per conto suo, senza colpa dell'uomo.

Crescenzio, quando le vitelle avevano sconfinato attraverso il canneto, era pronto a pagare il danno.
Quello che è e senza fare troppe storie.
Ma non è una questione di soldi.
Non è una questione di soldi?
Le piante misurano il tempo che abbiamo vissuto; la speranza di vederle grandi nessuno la può pagare.
Questo è un ragionamento: ma forse in contraccambio un altro albero può servire, a pareggiare il conto.
Era arrivato coi melograni dai fiori rosati. E con il letame delle mucche, soffice come caffè, da spandere nell'aiuola per propiziare una migliore fortuna.
Abbiamo cominciato a capirci, così.

CAPITOLO DECIMO
Nei mesi estivi dell'infanzia i panni li lavavano nelle pozze del rio. Nascoste in mezzo alle canne. Acque che resistevano all'estate più calda, fresche per il profumo di menta, appena appena colorate di limo.
Ora il Mississippi s'abbassa su cui navigammo fantastici viaggi. Le temperature s'accrescono inaridendo le fonti e il grandioso sogno dell'uomo: ferme le chiatte che discendevano calme, ferme le turbine delle centrali idroelettriche che accendevano i nostri sogni di luce.
Niente di grave, in una prospettiva assoluta.
Altre volte la terra ha conosciuto le arsure che cancellano ogni forma di vita, gli universali diluvi e le coltri di ghiaccio.
Nulla è perduto, in natura, tutto soggetto alla trasformazione che genera gli aspetti del nuovo.
Le tinte del dramma unicamente derivano dalla sorte dell'uomo. Poverissima cosa nel computo degli universali millenni. Essenziale, per noi che ancora vantiamo le ingegneristiche qualità del nostro intelletto a cominciare dalle canale costruite fra il Tigri e l'Eufrate. Acqua nei campi. Vita.
Così fintanto che non abbiamo trovato una speranza diversa da quella che ci lega con la schiena piegata alla terra.
Industria che ha liberato dalla fatica e ha mostrato la superabilità di qualsiasi confine. Non c'è che da esserne fieri.
E forse più lo saremmo se avessimo calcolato tutti gli effetti, gli annessi e i connessi, i collaterali da principio trascurabili, le implicazioni minute, i margini d'errore, gli avvertimenti contrari che l'orgoglio negava, assoluto.
Gli innalzamenti termici, che sarebbero probabilmente venuti, comunque, ma che abbiamo favorito accelerando la ciclicità degli eventi.
Così ci ritroviamo a considerare gli spessori rifrangenti dell'atmosfera, l'incubazione dei caldi che dissolveranno le riserve dei ghiacci, l'innalzamento delle acque marine sull'attuale soglia terrestre.

Pensava alle piante che l'onda del mare forse potrà sommergere e commiserava la sua vana fatica.

Una notte era giunto sulla terra di maestro Gavino, a piedi, passo dopo passo, percorrendo campi di stoppia odorosa d'arsura. Gli odori mutavano d'improvviso, in quel chiuso abbandonato. Profumo di vite che getta pampini forti, profumo di fichi che suggono l'umidore condotto dalle canale.
L'acqua si trasforma in odori diversi che ne conservano il ricordo.
Camminava tra i filari illuminati dai primi raggi della luna. Luce bianca che si diffondeva sulle chiome degli alberi e rendeva chiari dettagli invisibili nelle ore del giorno. Ciascuno di quei dettagli osservava come se dall'esatta visione potesse dipendere chissà quale imprescindibile evento. Vedeva le foglie bianche degli ulivi, le pietre, il comignolo ancora alto sul tetto. Da levante soffiava un vento tenue.
Ogni cosa portava un segno, quasi che l'antico abitante avesse voluto certissimamente reificarsi negli oggetti disposti uno per uno, studiatamente.
Aveva risalito la china del monte, stanco per il cammino ma spinto dall'ansietà di raggiungere la cima. Un intrico di rocce e di racchiusi cespugli frenava il suo passo e con molta fatica aveva potuto guadagnare la sommità. Solo allora si era voltato a guardare la sottostante pianura e il mare che nell'ascesa teneva alle spalle. Luci di case e di porti moderni, luci antichissime di fari che eternamente si rispondono dal promontorio e dall'isola prospiciente.
A oriente, improvvisa, era apparsa tutta intera la luna, che imporporava le quinte dei monti frastagliati in mille forme di sogno.
Era sorta quieta e subito aveva perso il rossore per innalzarsi candida sul mare di montagne, di pianure e di acque.
Era sorta nel momento in cui egli giungeva come per un appuntamento che non sapeva d'avere ma a cui gli era parso naturale arrivare. Allora si era chiesto la ragione dell'andare e del venire, delle incomprensibili occupazioni che l'avevano distratto nel corso dell'esistenza, tanto che mille volte aveva mancato l'incontro con la luna piena.
Pensava al vecchio Torres, forse cercandolo, per incontrarlo, e il vecchio tutto intero era là, non da solo ma col corteggio delle presenze che lo avevano accompagnato nel corso della vita, gli uomini e le piante, gli animali e le pietre, maestro Gavino che non aveva mai lasciato il suo campo, i ginepri che il maestrale appena piega, l'orma della capra che ha aperto i sentieri, il canto di margiàni che di sicuro osservava, nascosto chissà dove sotto quella luna. Cominciava a capire.

CAPITOLO UNDICESIMO
Meraviglia delle partenze. Porte che ti chiudi alle spalle.
Forse. Quando riesci a partire. Piuttosto un'agonia in questo deambulare senza meta da un capo all'altro della sala, le braccia incrociate dietro le spalle, la pipa ormai spenta.
Ore perdute senza sapere che fare, con l'animo teso alla meta irraggiungibile, eppure è appena un balzo d'aereo che varca il mare e si posa sul lembo di terra emerso dalla laguna. Chissà se ci arriveremo di notte, o alle prime luci del giorno quando le dita rosate sfiorano le montagne che segnano il cielo a ponente.
Partenze e ritorni. Solo chi è nato in un'isola ha la dimensione piena del viaggio, non progressivo allontanamento ma repentino distacco.
Gioiosamente, all'inizio, quando ti sembra di spezzare il ritmo delle consuetudini e al ritorno affronti con fastidio le atmosfere anguste di una provincia sperduta. Finché non cominci a pensare che tutto il mondo è una grande provincia, forse neppure migliore di quella dalla quale sei partito e il pane più buono di quello di grano non lo trovi in una grande città.

Una volta era tornato sul far della sera, dopo lunghissima assenza. Aveva fermato la macchina al di là del muro di cinta per non turbare il riposo dell'upupa. Era passato all'interno accostando il cancello senza un rumore, come uno che si immerge a poco a poco nel mare. Aromi di cèppita, di eucalyptus e di pini, commisti, ma non tanto che fosse impossibile sceverarli e distinguerli, odore di terra calda e di cisto.
Muovesi l'amante per la cos'amata.
Senza poterla abbracciare sensibilmente se non con gli occhi che la circondano dal viale d'ingresso fino ai confini superiori e più in su alle montagne che la rinchiudono.
Dov'era stato, tutto quel tempo, e perché?
Bisogno di conoscenza.
Perché, non è conoscenza, questa, e nobile?
Se la cosa amata è vile, l'amante si fa vile.
L'oggetto d'amore gli trasmetteva le sue qualità: sentiva fluire una virtù e una forza che mai aveva posseduto. E una calma.
Quando l'amante è giunto all'amato, lì si riposa.
Riposo che non è sonno ma vigilia dei sensi pronti a cogliere le infinite particolarità del mondo circostante e a conoscerlo.
La cosa cognusciuta col nostro intelletto.
Nessuna scientifica indagazione gli aveva dato la capacità di capire che sentiva in quel preciso momento.
E se fosse un errore quello che abbiamo sempre creduto, essere nei libri la chiave dell'universo, negli infinitesimali procedimenti di calcolo che spiegano le qualità della materia? E se invece fosse qui, in questa sintonia, nell'accoglimento di vibrazioni profonde rilasciate dal suolo che ordinariamente calpestiamo come vilissimo oggetto, se fosse nel ramo che indifferenti scerpiamo senza udirne il lamento, se fosse in queste montagne forti che guardiamo solo con l'occhio venale del cavatore di pietra?
Forse bisogna tornare alla natura delle cose, ai nomi che ne definiscono l'essenza individuando il tratto fondamentale che dobbiamo riscoprire per conquistare l'equilibrio perduto.
In antiquo il sito era nomato bingia manna, a dire delle sue proprietà, eccelse, relativamente al contesto, la qual cosa, la capacità di commisurare ogni evento sulla base delle circostanze che lo determinano appare il più vero segnacolo dell'intelligenza.
Vigna che è grande in relazione a questo territorio. Ed è ben vero, e facilmente intuibile, che altrove impianti più vasti possano essere esistiti ed esistano, indubbiamente capaci di produrre un frutto migliore. Ma questa è, qui, una vigna grande, la più grande possibile, e ove questa sia spenta altra possibilità non è dato di avere, se non diminuita e per così dire opacizzata dal confronto con un ricordo che vive durevole nella mente degli uomini.
Solo un eccezionale stravolgimento delle cose ha potuto consentire che la tanca venisse ridotta a vilissimo pascolo, solo una temeraria follia potrebbe concepire il lucroso progetto di trasformarla in un villaggio formato da blocchi di cemento che si ripetono, l'uno all'altro identico.
Impianteremo una vigna.
Gli occhi di Cristòlu luccicano al pensiero della vallata intessuta di pampini verdi.

Per prima cosa, i progetti. Gli uffici della Regione, bui, anditi tortuosi in cui s'accatastano montagne di pratiche. Mari di carta in cui non si può navigare con vento propizio. Le secche e l'assoluta immobilità. Con tanti salamelecchi e riverenze al signor professore un po' matto che vuole occuparsi d'agricoltura.
Immaginiamo cosa succede al contadino che non possiede la lingua.
Alla fine il progetto va bene.
Basta togliere il cesso.
Il cesso?
Non s'è mai visto un contadino che si serva del cesso per i suoi corporali bisogni. Alberi non ce ne sono, nel campo?
Alberi?
Alberi dietro i quali appartarsi per un momento.
Gesù, ma sono trascorsi duemila anni di cristiana civiltà, secoli di progressive sorti e democratiche attese per sentirci dire che possiamo pisciare all'aperto, attenti al soffiare del vento per non infradiciarci i calzoni.
Lo faremo lo stesso, un servizio coi pezzi di vetrochina, e in più aggiungeremo un camino, per riscaldarci le mani gelate nei giorni della potatura.
Con l'aiuto di Dio e come sarà possibile, a poco a poco.

Per l'intanto lo scasso, il vomere a chiodo che scende nel ventre della terra e la rivolta, precipitando le erbe nel buio dove saranno fermento di vita. Un solco profondo in cui puoi scomparire fino alla cintola.
Mai nessuno aveva aperto tanto la zolla, in questo campo.
Abbiamo formato onde vaporose di terra su cui galleggiano i massi portati alla luce.
Li metterà da una parte la pala meccanica.
Cristòlu, ma non è una follia?
Non bisogna guardare a corto. La terra restituisce sempre quello che ha avuto.

Restituisce secondo sue leggi: capirle, alle volte, può non essere facile.
Il primo anno d'impianto della vite selvatica non una goccia di pioggia da gennaio a ottobre. Metà per metà le barbatelle seccate. Il secondo anno ancora una siccità straordinaria. Metà per metà. Il terzo d'arsura ordinaria, metà per metà.
Continuerò a piantare fino a che non raggiungerò il cento per cento.
Vedremo chi ha la testa più dura.
Quest'anno possiamo innestare.
Mani che muovono la rustica lama come fosse un bisturi. Incisioni sottili per trovare la linfa che scorre. Morbida rafia che lega due corpi diversi affinché siano uno solo. L'innesto può dormire per mesi, prima di vedere la luce, timidamente, sotto il sole di luglio.
È fortunata, la signoria vostra, aveva detto il vecchio guardando la valle che verdeggiava per i germogli.
Fortunato.
Forse fortuna voleva dire aver avuto la tenacia di credere in un risultato improbabile.
Ora dobbiamo pensare al frutteto.
La squadratura del campo. Linee di geometrica politura che si realizzano con quattro canne infilate nella zolla.
Cristòlu con un occhio socchiuso a studiare l'allineamento.
La vede, la squadra, professore?
Il professore non vedeva un bel niente, buono tutt'al più per portare le canne dove necessità richiedeva.
Più in fretta, che abbiamo altro da fare.
Mordendosi le labbra per non apparire da meno di quelli che volavano sulle creste di terra.

Ma il giorno che precedeva il collaudo finale una soddisfazione se l'era cavata.
Restavano da piantare i cipressi previsti per il frangivento. Cento e più piante.
Bisognerà che domani cominciamo per tempo, ragazzi.
La notte non riusciva a dormire, agitato dall'ansia di quell'insolito esame.
Era sceso in campagna, con i fari puntati verso il filare, il buon diesel acceso che ronfava pian piano e lasciava arrivare il ruggito del mare d'inverno all'attacco della spiaggia non troppo lontana.
Uno, due, dieci cipressi con la schiena bagnata dall'umidità della notte. Venti, cinquanta, cento con il sigaro spento tra i denti.
Quando erano giunti, al mattino, la fila si levava diritta come l'avesse tracciata un geometra.
Oh bella, ci ha rubato il mestiere.
Di quel fatto ne parlavano ancora, a distanza di anni.
Sarà come quelli che hanno una villa.
Non credo! Anche se è un professore lavora come uno di noi. Puoi venire a vederla, la fila di piante.
Era stato il primo esame superato in quella mattina.
Il secondo col perito arrivato per controllare la congruità dei lavori. Tante le viti, tanti i fruttiferi, i pali di sostegno collocati come arte comanda, tre ordini di fili intessuti per guidare la vite, il magazzeno frattazzato con malta bastarda, le allegate fatture d'acquisto. Tutto secondo il progetto, minuziosamente spuntato senza un sorriso.
Poi aveva conservato le carte e gli aveva detto che fino a quel punto s'era condotto come il suo compito richiedeva. Ora, però, a carte giuocate, voleva fargli sapere che quella campagna ricordava la terra toscana dove aveva studiato l'arte dell'agricoltura.
Là esiste un sentimento dell'armonia che è raro trovare tra noi, dalla povertà costretti a sopportare le pietre nel campo, i recinti per le bestie fatti in fretta e furia con blocchetti di cemento malamente rovesciati, reti metalliche snervate che sostituiscono l'uscio della stalla, spazzature lasciate dove ci capita.
Qui non si vedeva una cicca per terra, nei larghi viali che riquadrano la proprietà.
Il guardar buon ordine non solo è utile per la vaghezza e la proporzione, ma eziandio per la facilità di vindemiare e coltivare. Così ha scritto un autore antico.
Bisogna pensare all'uomo che porta il cesto della vendemmia fino al carrello fermo nella testata del filare. Così diceva Cristòlu.
Gli aveva stretto la mano, al perito, pensando che anche in mezzo a un mare di carta può nascondersi un uomo.
Bisogna non perdere mai la speranza di incontrarlo.

Più spesso si trovano quelli che uomini non sono ma corvi.
Per farli arrivare, gli stormi neri, basta dire che devi realizzare un impianto di irrigazione. Calano lentamente, in ampie ruote, scuri come i tubi che governano, di polietilene. Guardano, pensano, sognano la pregustata rapina e progettano ciclopiche imprese.
Ma se c'è solo un piccolo pozzo.
L'obiezione sembra non aver consistenza, di fronte ai matematici computi di litri al secondo, pendenze di terreno e prevalenza di pompa.
Cosa diavolo sarà mai la prevalenza? Pensare agli anni trascorsi con la testa piena di numeri che ora non servono a niente. Bisogna ricominciare da capo a calcolare i flussi della vena, le portate dei tubi, la necessità delle radici che chiamano l'acqua.
Possibile che davvero sia necessaria la diga di Assuan?
Basta molto di meno, se i conti sono fatti con onesta misura: una condotta principale, le derivazioni laterali e i tubi di sezione ridotta che conducono l'acqua pianta per pianta. Sulla carta è perfetto, non resta che sperimentare.
Gli irrigatori cantano come uccelli nel campo, un frusciare sottile d'acqua che porta la vita.
Nella quiete dell'imbrunire, con la mente rivolta agli uomini che sullo stesso terreno hanno insudato con una zucca mezzo piena di tiepido vino. Servi e padroni, nello stesso modo schiavi. Inumane fatiche che l'arsura vanificava, ogni volta da capo, inutilmente.
Ora basta premere un pulsante e l'acqua riempie le aiuole con un sorriso. Nel primo buio di una tiepida sera di maggio, mentre le ombre si affollano di quelli che qui hanno penato. Vengono a vedere il miracolo e il successo è anche loro, coronamento di una fatica spiegata nell'arco di secoli.
Stiamo insieme in mezzo ai filari, guardano lieti scuotendo la testa.
Chi l'avrebbe mai detto.
Eppure proprio voi l'avete detto, la vostra cieca speranza, senza la quale non saremmo qui, questa sera, a celebrare la nostra vittoria.
Abbiamo vinto tutti, antichi e moderni, abbiamo vinto le pietre, la sterilità delle sabbie portate dall'alluvione, la rapacità del pastore, l'arsura del cielo, le carte della Regione, ogni altro male che la nostra ignoranza comporta.
Soprattutto importa quello che abbiamo capito: abbiamo capito il capraro che è stato un nostro nemico. Oggi parliamo senza serbarci rancore per quello che ci siamo fatti, e non potevamo altrimenti.
Dicono che siamo cattivi, sogghigna dall'altra parte del muro, ma non lo vedono che siamo come gli animali buttati nel campo a spiare un filo d'erba stenta, in lotta per i mangimi che costano più delle capre, per gli interessi di banca che crescono, per la malattia che colpisce a tradimento e fa abortire le bestie? Vaglielo a spiegare ai signori della Regione che non ce la facciamo a campare la vita.
Non lo guardiamo neppure il mare che si vede da qui, attraversato dagli scafi capaci di consumare in un'ora quanto a lui basterebbe in un mese.
Anche questo lo abbiamo capito, a spese nostre.
E abbiamo capito che il risultato si ottiene, migliore, quando tutti sono chiamati a disegnare il progetto.
Così abbiamo lavorato, ad aiuto scambiato, reciprocamente necessari per raggiungere i sogni di ciascuno.
Abbiamo vendemmiato nelle altrui vigne, disciplinati al volere dei padroni, eppure pronti a dare un consiglio, come fosse la nostra. Abbiamo trebbiato grano e caricato sacchi, mangiando la polvere di terre che non ci appartengono, abbiamo curato piante che intristivano in campi lontani dal nostro.
Il professore ha trovato una medicina che cura gli ulivi. E vai con la pompa a irrorare le gemme colpite dal morso del parassita.
Anche questo titolo vuoto ce lo potremmo bere in un boccale di vino, finito il lavoro della giornata, in piedi accanto alla botte.
Per quello che vale.
Vale, altro che se vale, per loro.
Il professore è uno di noi, anche se ha studiato, sa parlare la lingua nostra e non lo spaventa la zappa. Meglio di tanti manovali, la tira la giornata.
Ne ha imparato, di cose che non si insegnano all'università.
L'università è lontana, da qui, e forse non sa neppure che esiste, la vita, quella che si disvela quando solleviamo la testa dal solco per fumare una sigaretta appoggiati al tronco di un albero.
Si meraviglierebbero, gli antichi, se potessero vedere tutto quello che abbiamo fatto?
In dieci anni abbiamo cambiato il volto alla terra.
Ce n'è voluta fatica.
E sapienza.
Uno sa una cosa e uno un'altra. Nessuno avrebbe potuto farlo da solo.
Sì, però qualcuno doveva avere l'idea.
Questo è vero. Ricordate quando ho iniziato a scavare il pozzo e mi dicevate che ero pazzo; quando ho passato il rastrello per ripulire le strade, quando ho piantato le rose e sempre dicevate che ero pazzo?
Ridono.
Ho riso anch'io, quando ho visto Giovanni Matteo, manovale senza alcuna esperienza, sfilare l'ultima sigaretta dal pacchetto, fermarsi un attimo soprappensiero e infilarselo in tasca, il pacchetto. Senza che nessuno gli avesse mai detto che non si butta in terra, la carta.
E per forza, se lei passa di sera a raccogliere quello che abbiamo lasciato durante il giorno. Dai oggi e dai domani l'abbiamo capito.
Così le avessero capite, senza troppe parole, le cose che insegno nell'aula di scuola.

Sembra un giardino, con le statue di pietra che lo stesso scultore ha portato dalla sua terra.
Non piaceva a Cristòlu, l'idea.
Sarebbe anche bella, fare arrivare le pietre, al paese nostro.
E poi lo scultore era quello che aveva fatto la statua della Madonna posata sul fondo del mare.
Proprio di una Madonna avevamo bisogno, brutta, con quelle mani che paiono di manovale.
Appunto, una Madonna uguale a noi.
Ma quando erano arrivate le pietre e lo scultore le aveva drizzate sudando e sbuffando, nonostante l'aiuto dell'escavatore che reggeva il peso col braccio meccanico, allora Cristòlu si era commosso. Pietre come usavano gli antichi, da noi, vicino alla capanna, in forma di uomo, e qualche volta gli mettevano cappotto e cappello, per ingannare i malandroni.
La costruiremo anche noi, una capanna, alla moda antica, per tenere quattro pecore e un po' di formaggio.
Verrà il momento che staremo seduti all'ombra a ragionare, dopo tanta fatica. Non siamo mica schiavi, noi.
O è già venuto, il momento, ora che cominciamo a fare i capelli bianchi e la schiena non è più quella di un tempo?

Un giardino.
Dalla vita aveva sempre ricevuto tutto senza fare assolutamente niente per ottenerlo. Per questo aveva deciso di cimentarsi nell'impresa più ardua, quella che nessuno sarebbe mai riuscito a compiere, per provare se stesso.
Assolutamente inutile impresa, se non per l'idea che affermava.
Quindi essenziale.
Ne avevano riso molti, che poi erano venuti a chiedere un'ora di distacco dal mondo, un'aiuola dove coltivare la rucola, lo spazio per un alveare.
Può curare anche voi lo stormire delle fronde, quando imparerete a distinguere il frusciare del pioppo dal frinire delle canne che si piegano al vento.

È fortunata, la signoria vostra, che sa fumare il sigaro col fuoco dentro, immobile come un vecchio pastore che non s'aspetta niente, dal mondo.

CAPITOLO DODICESIMO
L'altoparlante risvegliò d'improvviso la donna che dormiva raggomitolata nella poltroncina.
- Imbarco immediato, uscita due.
Il professor Torres vuotò il fornello della pipa, raccolse la borsa e si avviò lentamente.
L'addetto al ritiro delle carte d'imbarco aveva la faccia del sonno e forse non amava i passeggeri per i quali aveva dovuto lasciare il giaciglio.
Il bus arrivò sibilando sotto l'aereo mentre due lampi s'infiggevano in terra come rebbi di una grande forchetta.
L'aereo cominciava a ronzare che li avrebbe portati alla meta, avanzò caracollando sulla pista bagnata, accelerò con un rumore assordante e s'impennò nel cielo in tempesta.
La donna seduta nel sedile vicino gli strinse convulsamente il braccio per la paura. Le sorrise, mentre diceva che sarebbe stato solo un momento, fino a bucare le nubi e trovare la quiete del cielo alto.
Tali sono le cose della vita, che compaiono con tinte terrificanti, alle volte, ma durano un tempo finito e poi ritorna la calma.
Così forse sarebbe stato anche per le sue ansie, i turbamenti di poco momento che nascevano nel quotidiano lavoro.
May be. Ma perché consumare il tempo che ancora ci resta in compagnie incongeniali, quando la vita ci offre opportunità ben diverse?
E che? potresti rinunciare al lavoro e ridurti alle materialità di una vita campestre? Potresti smettere l'abito intellettuale che è tuo e ti appartiene da quando sei nato?
Ragionamento parziale di chi non possiede contraria esperienza. Io ho vissuto due vite e so che la conoscenza profonda non l'ho trovata nel mondo dedicato allo studio.
L'aereo aveva raggiunto la quota di volo e si era stabilizzato, la vicina dormiva.
Forse è soltanto una tempesta in un bicchiere d'acqua.
O forse no.
Pensa bene se saresti capace di rinunciare a ciò che ti piace, l'insegnamento, quando hai chiuso la porta dell'aula e solo esistono gli studenti che hanno bisogno di capire.
C'è anche Giovanni Matteo che ha bisogno di capire. Forse più questo di quelli.
L'una cosa non esclude l'altra, però.
E continuare una vita dimidiata, con la mente rivolta alla parte che in quell'istante non hai, frettolosamente nell'un campo e nell'altro?
Può essere esattamente questo, quello che ami. La reductio ad unum non sarebbe bastevole, per il tuo modo di essere.
È un rischio che devo correre.

L'aereo compì una lenta virata sopra il faro di C.
C'era stato, non molto tempo prima, nella torre che si levava orgogliosa sulle acque del mare. Come l'aveva voluta l'ufficiale che si era confinato sull'isola per provare tutto intero il proprio valore.
Romanticherie d'altri tempi. Oggi c'è la moda delle donne in carriera. Figuriamoci gli uomini.
Epperò senza di lui quella torre si era sgretolata che oggi appariva ricoperta d'immondizie, agli occhi dei ciabattanti turisti.
Anche i turisti, adesso, ma proprio non te ne va bene una.
Sorrise alla propria immagine riflessa nel vetro del finestrino. Ma come non me ne va bene una? Sta proprio qui sotto quello che mi piace, la terra che dorme il suo ultimo sonno prima dell'alba, invisibile ora che vago come un cieco, quassù, e non vedo la mia stella polare, la mia sola salvezza.
Esagerazioni prive di senso. Monomanie.
La voce del comandante annunciò l'inizio della discesa sull'aeroporto.
Acque del mare, laguna, una sottile striscia di terra. La pista gialla di luci.
- La compagnia sarà lieta di ospitarvi ancora a bordo dei propri aeromobili.
Che non accada mai più nella vita.
Cedette il passo alla donna, le fece un breve sorriso ai piedi della scaletta e si allontanò di gran fretta.

L'auto dormiva ricoperta di brina nel piazzale del parcheggio. Vecchia, che lo aveva portato per strade diritte e senza traffico, verso lo sfondo azzurro del cielo nelle terre del nord. Diede una pacca ai grandi passaruota per un saluto. Sollevò con due dita la maniglia, aprì lo sportello e saltò al posto di guida. Gli sembrava una roccia inerte quando la ritrovava fredda dopo una lunga sosta.
Introdusse la chiave nel quadro e fece scaldare le candelette aspettando che la spia arancione raggiungesse l'incandescenza. Il motorino d'avviamento cantò sicuro e i cilindri ricevettero il primo colpo del pistone.
Bisogna che scaldi.
Allungò la mano sulla plancia dove conservava la scatola dei sigari, sfilò un mezzo toscano e lo accese.
Nelle mattine d'inverno al paese facevano colazione al bar, prima di iniziare il lavoro. Un caffè e un buon sigaro.
Come farà il professore a fumare un sigaro, prima dell'alba.
Come farete voi, piuttosto, a bere una vecchia o una sambuca, per colazione.
Scosse la testa sorridendo al ricordo.
Accese le luci e il cruscotto gli sorrise di rimando, rotondo come usava in Inghilterra, nel buon tempo antico prima dell'invasione giapponese. Affondò la frizione e innestò la leva del cambio. Le ruote tassellate mossero un primo giro sfrigolando sul brecciolino del suolo.

Non aveva voglia di tornare a casa, ambienti chiusi, grevi per gli odori rappresi nella notte.
Raggiunse la città mentre ancora soppesava il da farsi.
Intanto un caffè.
Gli piaceva il bar della stazione ferroviaria, la desolazione degli ottoni lucidati di fresco, i volti degli avventori, uomini e donne tutti persi alla vita, occhi smarriti, nonostante la protervia delle barbe lunghe, dei ciuffi ribelli, dei sorrisi fatti più fieri da due dita di bistro.
Uscì di buon umore, mentre il cielo schiariva sul porto.
L'auto borbottava in attesa. Lanciò la borsa sul sedile del passeggero e si sistemò alla guida impugnando le forti razze del volante. Il muso verso la via Roma.
Sfilò lentamente davanti al palazzo municipale che risplendeva bianchissimo nella prima luce del giorno, le torri libere dalle impalcature che le avevano a lungo imprigionate per il restauro.
Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie di questi: recitava a bassa voce.
E li ho dovuti sopportare senza speranza mai che una qualche autorità divina o umana li riportasse ai termini debiti, così che restassero o senza vizi o senza autorità.
Tra breve la città si sarebbe risvegliata, mostrando se stessa qual era, nell'esemplare vetrina disposta tra il municipio e la statua di Carlo Felice. A loro immagine e somiglianza l'hanno plasmata, i reggitori dei popoli, casbah ribollente di un'umanità senza speranza, accattoni laceri, storpi che esibiscono orridi moncherini, mendicanti ciechi, venditori di cianfrusaglie.
Il semaforo diede il verde.
Accelerò quasi fuggendo, percorse la strada lungo la cancellata del porto e imboccò il viale che conduceva alla spiaggia.
Non ti va bene proprio niente.
Mi va bene questo sole che sorge, rosso come non è possibile vederlo in nessun'altra parte del mondo e si specchia nel lago grigio delle acque, immobili, fin dove arriva lo sguardo incapace di distinguere tra terra e cielo. Mi sta bene quel profilo di costa scuro che s'affaccia sul mare, i promontori che si inseguono a formare le quinte dei monti, scenari moltiplicati quasi volessero suggerire l'idea dell'infinito.
Una lieve foschia li avvolgeva, i monti, la terra e il mare, profumata com'è per gli odori freddi dell'inverno.
L'auto corse per un buon quarto d'ora sul rettifilo, prima di affrontare la salita e le curve dei monti.
Due colpi di acceleratore tra un'affondata di frizione e l'altra.
Un terzo vigoroso per iniziare la salita e pennellare le curve nelle giuste traiettorie che la consuetudine con quella strada percorsa migliaia di volte aveva interiorizzate, parabole perfette senza bisogno di correzioni.
In cima alla salita di P. rilasciò la pressione sul pedale e osservò lo scenario che gli si offriva, una pietraia ingemmata dalle fronde dei ginepri, il mare trapunto di isole.
Arrivò che ancora il sole non aveva asciugato le gocciole d'umidore stillanti dai ferri del cancello.
Fermò la macchina e a piedi raggiunse il leccio frondoso.
Sedette su un sasso e accese un nuovo sigaro.

Passò quasi un'ora. Lontano cominciò a sentire il trattore che si avvicinava. Lo seguì con l'orecchio mentre percorreva la strada di Santa Maria e attraversava sferragliando il cancello.
Cristòlu lo cercò con lo sguardo, scese dal trattore e venne verso di lui reggendo, come faceva, la sigaretta dalla parte interna della mano.
- E ita novas?
- Tutto bene, diciamo. Ma potrebbe andar meglio.
E raccontò della notte trascorsa in attesa del volo.
- Po cosa si spàntara.
Allora gli disse che non si spaventava per poco ma che c'era dell'altro a disturbargli i pensieri: andare su e giù per un lavoro che non amava, le ore perdute inutilmente, una serata impiegata a controllare i biglietti di viaggio di uno che era stato a Parigi.
- E cosa credeva, che l'intelligenza fosse tutta da una parte? Ne hanno lasciato anche a noi, quei suoi colleghi professori.
- Io non ho mai creduto niente e gli uomini sono come sono in ogni luogo, alti e bassi, belli e brutti, biondi e bruni. Ma lì sembra che si siano concentrati tutti quelli di una stessa specie...
- Se ne infischi.
- È più facile dirlo che farlo. Ormai ho i capelli bianchi e non posso più sopportare l'idea di buttare il tempo che mi rimane in questo modo.
- Adesso non si faccia più vecchio di quello che è. Vorrei tornare io, ai suoi anni.
- Ci sono, ci sono gli anni, e anche se non sono molti mi pesano. È come se avessi vissuto due vite.
Ecco, è proprio qui, il punto. Nel confronto fra le mie diverse esperienze. Io so che c'è un modo migliore di vivere e non riesco più a sopportare le stupidaggini di quelli.
- Ma che se la prendano in napoli.
- Mi sembra che in napoli me la sto prendendo io, altro che storie.
- Io lo capisco. Per me è stata dura, la vita, ma in un certo senso più facile.
Sono contadino, faccio il contadino, parlo con contadini. Anche con qualche dottore in agraria, a dir la verità, ma quelli non è troppo difficile mandarli in affanculo, quando se lo meritano.
Per lei è diverso. Parla con noi, conosce il nostro lavoro. Sa farlo, e anche bene. Parla con i professori ed è tutta un'altra canzone. Magari sa fare bene anche quel lavoro, ma giorno dopo giorno è difficile, con la testa che salta da una parte all'altra.
Torres sedeva con le braccia posate sulle ginocchia, la testa chinata.
- Alle volte mi viene voglia di mandare tutto al diavolo, ma non è tanto semplice.
Un tempo uno poteva piantare ogni cosa e andarsene in Africa, perduto in un villaggio dove non arrivava neppure il nome della sua civiltà rinnegata.
Oggi non avrebbe più senso. Le stesse cose le trovi in una qualunque parte del mondo.
- Li lasci dove sono, gli arabi - disse Cristòlu con voce che voleva sembrare burbera e invece rideva.
Poi gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla:
- Sarà come dici che hai i capelli bianchi, ma oggi sembri proprio un ragazzo. Tu vai cercando una verità che hai sotto gli occhi, che tu stesso hai contribuito a creare.
Il resto è un soffio di vento. A noi non ci smuove, che abbiamo conosciuto il tempo passato e conosciamo il presente. Abbiamo piantato gli alberi che vivranno in futuro e in qualche modo parleranno di noi. Non che la gente debba sapere di Cristòlu o Peppino, tanto poco importano i nostri nomi. Ma sapranno che ci sono stati uomini capaci di guardare lontano, senza di che non avrebbero l'ombra di un albero per riposare un momento.
Questo è il tesoro di Todde. Lo abbiamo trovato e ne abbiamo usato senza diminuirlo, anzi lo restituiamo aumentato a quelli che verranno dopo di noi. Se vorranno cercarlo, senza farsi distrarre dal mondo in cui devono vivere.

Torres si accorse che per la prima volta Cristòlu lo trattava con una confidenza paterna.
Gli parve cosa buona e giusta.
Sorrise.
- Cosa dobbiamo fare, oggi?
- Cominciamo ad arare.

(1990)


 
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