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GIUSEPPE MARCI


Nuoro, Poliedro, 2003
Bìngia
Giuseppe Marci
CAPITOLO PRIMO
Il vecchio carrubo cedette con uno schianto e cominciò a fiammeggiare sotto la pioggia.
Poche lingue, dapprima, proprio là dove il tronco rugoso s'inforcava nei due rami che il fulmine era riuscito a piegare. Poi il fuoco s'era levato impetuoso che le raffiche del vento ravvivavano a dispetto del generale umidore. Per l'intera notte bruciò e la vallata all'intorno ne ricevette lume quasi volesse mostrarsi, quale era, terribile nel suo aspetto, fustigante per le fronde delle tamerici squassate, rimbombante per l'acqua che precipitava nel letto del ruscello e i massi non la fermavano, anzi le davano forza, scarnificata della terra che la corrente portava a colorire il mare ribollente verso la foce, come sul far del giorno videro quelli che vi si avventurarono per cercare i corpi delle bestie trascinate.
Proprio delle bestie si preoccupava Cristòlu e la paura per la rovina del gregge s'aggiungeva al terrore che il vento, la pioggia, il saettare dei lampi e il freddo gli incutevano.
Così gli toccava, in aggiunta a tutto il resto, sopportare il castigo che Gesù Cristo infliggeva agli uomini con questo tempo cattivo. Come se il resto già non bastasse a punirli. Di quale colpa non avrebbe saputo dire, ma certo era una punizione la guerra, la lontananza del padre e la responsabilità che gliene veniva di dover pensare alle pecore, come fosse uomo fatto, uno che a mala pena aveva una dozzina d'anni.
La barraca per fortuna teneva, che l'avevano costruita come Dio comanda, Cristòlu e suo padre, una bella mattina di sole. A lui era toccato ripulire il terreno all'intorno, in quella valletta che la tirìa profumava quando veniva il tempo della fioritura. Fiori gialli su un cespuglio di spine, e delicati: non pareva vero guardando i segni profondi che quelle traditrici facevano se inseguendo un agnello ci capitavi sopra senza avvedertene. Ogni cosa aveva il suo aroma, a Su Cisgilliànu, e anche il nome del luogo Cristòlu l'amava, che metteva allegria, così ricco e sonante, colorato di rosso e d'arancio.
Ci-sgi-lli-ànu, gli scorreva sulla lingua come un dolce rotondo. E profumato. Per la tirìa, per l'oleandro, per l'acacia spinuda: ognuno al suo tempo, come piace a Gesù Cristo. E adesso a lui piace di far piovere e tirar vento e Cristoleddu spaventato nella barraca.

Altra cosa quel giorno quando il padre aveva detto ridendo:
- Pulisci il posto, ragazzino - e s'era allontanato col giogo per portar giù i tronchi degli alberi abbattuti in foresta.
Quand'era disceso già non fumavano più i grandi mucchi che il bambino aveva acceso con i cespugli divelti e le ramaglie raccolte. Il padre aveva considerato compiaciuto il lavoro e scarruffandogli i capelli aveva detto che andava bene.
Rideva e sembrava soppesare una per una le pietre che Cristòlu aveva sospinto da un canto e l'aveva consolato per quelle grandi confitte nel terreno che non aveva potuto smuovere e quasi se ne vergognava, quando invece da vergognarsi non c'era perché sarebbero servite per formare il focolare al centro della barraca e con un po' di punta e massetta si poteva anche ricavare un comodo sedile, in aggiunta.
Sapeva l'arte di costruire, suo padre, come la sapeva ziu Bissenti che il giorno dopo era venuto a dare una mano e insieme incatenavano le pietre della bassa muriccia nella quale doveva fondarsi la copertura di legno e di fronde. Lavoravano chini nel sole e scherzavano come se la fatica non pesasse per niente.
Ziu Bissenti cercava le pietre più regolari:
- O Cristoleddu, portamene una con una bella faccia -, e il padre fingendosi irato diceva:
- Ma che faccia e faccia. Chi costruisce deve saper usare tutte le pietre.
Ziu Bissenti sentenziava con tono alto:
- La pietra cattiva rovina il muro -, poi fattosi dolce aggiungeva:
- Manovaletto, dai, cercami una telaia - e quando il bambino tornava con un pezzo che sembrava squadrato, tanto era regolare e finito:
- Eh, questa sì che mi piace. Guardi, maestro, cosa ha portato il figlio - e disponeva la pietra nel muro e l'accarezzava come fosse una tenera agnella.
La voce del padre sembrava scontenta quando diceva:
- Svelto, Cristòlu, scarica qui vicino tutti quei sassi.
Rideva quando i ciottoli informi trovavano posto negli spazi del muro: sembravano fatti proprio per essere sistemati in quel punto e la costruzione s'innalzava regolare con gli incavi giusti per alloggiare i piedi dei travi.
Li collocarono nel pomeriggio, i travi della volta. Quando ebbero terminato erano stanchi e sudati, fermi sotto il traliccio che divideva il cielo a spicchi.
- Domani copriamo -, concluse il padre stabilendo il programma di lavoro per l'indomani, la ricerca dei rami frondosi nei cespugli del lentisco e dell'oleandro che bisognava saper intessere per formare la copertura in modo che né goccia d'acqua né soffio di vento penetrassero all'interno.

Così era stato fatto con arte, dunque, e neppure questa straordinaria tempesta riusciva a vincerla, la loro barraca, ma Cristoleddu seduto per terra accanto al focolare spento stringeva egualmente le ginocchia per la paura e reclinava la testa quasi avesse voglia di piangere.


CAPITOLO SECONDO
Il vento e il freddo durarono a lungo.
Anni di fame, che il poco cibo bisognava accattarlo lungo le siepi, erbucce appena cresciute sotto gli occhi vigili degli uomini che le aspettavano, e non facevano a tempo a spuntare che immediatamente venivano recise; fichi d'India e carrube, sottratti ai padroni, per lo più. Ma non era un problema d'essere o non essere onesti, perché l'onestà la puoi praticare quando almeno sei sicuro di vivere, altrimenti è una lotta per arrivare al domani e che senso ha chiedere se sia giusto o ingiusto a chi muore di fame?
Anni di grande paura, il poco grano portato nottetempo in casa e nascosto nei fondi degli armadi e delle cassepanche, sotto le lenzuola lise che profumavano di mela cotogna. Ma anche lì lo trovavano quei cani in camicia nera e lo restituivano all'ammasso cui era stato sottratto. Vaglielo a spiegare che i bambini non possono crescere mangiando soltanto carruba e che la lucerna piange, con l'olio del lentisco.
Anni che sembravano non finire mai, e che quando finirono non lasciarono nemmeno lacrime agli occhi. Il padre di Cristòlu non era tornato né mai nessuno seppe dire sotto quale neve fosse rimasto e perché, o da quale fango sommerso in una sconosciuta parte del mondo. Né, d'altra parte, per Cristòlu avrebbe fatto differenza sapere, visto che tutto ignorava dell'Italia e delle lontane parti d'Europa.
Epperò conosceva ogni cosa del suo paese, le poche case di fango, le strade e i sentieri che conducevano alla campagna. Luoghi fantastici pieni di nidi, di erbe e rugiade, delle molteplici impronte che gli animali segnavano nel loro andare notturno. Era come un libro stampato il terreno, al mattino, quando Cristòlu cercava di leggere e a poco a poco imparava i segni e le forme, i mille straordinari arabeschi di quell'affascinante scrittura.
Gli nasceva il ricordo e la nostalgia di suo padre, della voce pacata che spiegava il come e il perché e rideva dei suoi stupori, ma d'un riso buono che incoraggiava a chiedere e sempre c'era una risposta appropriata che il bambino conservava come si conserva un tesoro.
I suoi tesori ora li doveva costruire da sé e nessuno più era disposto a spiegare, se mai a ridere dell'ignoranza che dimostrava, quando la mostrava, il che non necessariamente avveniva ogni momento.

- Che uva è, questa, Cristòlu?
Il padrone li precedeva nel filare, quasi per sfida. Voleva dare a vedere d'essere in tutto migliore degli operai che aveva chiamato per la potatura, di sapere ogni cosa delle gemme e dei tralci, le qualità dei ceppi e i tagli necessari perché gli occhi splendessero ricchi nella futura vendemmia. Così li aveva sfidati, loro chini ragionando con ogni fondo e accuratamente ripulendo i ceppi con la potazza, come fossero spose cui prestare ogni cura perché si presentassero con l'abito nuovo color tortorino.
- Volete vedere che vi vinco? - e aveva preso a correre come un forsennato, facendo scempio di tralci e senza avere neppure il tempo di riconoscere le qualità e di graduare i tagli come l'arte comanda.
Era arrivato primo in fondo al filare e derideva gli uomini che scrupolosamente arrancavano e li redarguiva, perché gli sembrava che mangiassero ora senza produrre il dovuto.
Bisognava chinare la testa e inghiottire, di fronte al padrone. Che poi, a dirla tutta, Giuanni del padrone era il figlio, e se l'avesse visto suo padre il danno che faceva con tutta la fretta e la boria che l'animava, gli avrebbe dato una lavata di testa buona per lui e per altri venti.
Almeno ziu Anacrèttu, suo padre, lo conosceva, il mestiere. Quanto a dirli padroni, poi, anche questo era un segno dei tempi nuovi e dello sconquasso che la guerra aveva portato. O forse, comunque, sarebbe stato inevitabile che, morto il padrone grande Torres, la padrona da sola non la potesse governare quella proprietà e la dovesse smembrare e ridurla a quel tanto che le serviva per vivere. Così s'erano fatti avanti questi altri che a ziu Torres neanche gli avrebbero legato le scarpe e nel suo erano entrati orgogliosi del nuovo possesso. Passi per i vecchi, che, come ziu Anacrèttu, se l'erano lavorata, la vita; ma i figli, a pensarci, erano decisamente insopportabili.
- Prepotente - dicevano rivolti a Giuanni che sbraitava in testa al filare, ma sottovoce, i più giovani, mentre ziu Ellìggiu vecchio d'età e ricco nella sapienza dell'arte li invitava a non dargli importanza:
- Tanto è facile, oggi, trovare lavoro.

- Che uva è, questa, Cristòlu?
- Muscau.
- E questa?
- Mallavasìa.
Bisognava rispondere alle sciocche domande di quel presuntuoso.
- E che uva è, questa, Cristòlu?
Cristòlu aveva levato la testa come se avesse ricevuto uno schiaffo e si preparasse a partire a testa bassa per vendicare l'offesa. Poi s'era fermato, quasi ricapitolando i conti della famiglia lasciata al paese, la madre e i fratelli che da lui s'attendevano il soldo per campare la vita.
- Che uva è, questa, Cristòlu? - aveva ripetuto quello con tono impaziente e Cristòlu brusco:
- Uva da pigiare.
Non era piaciuta la risposta, al padrone che saccente aveva incalzato dicendo esser tutte per la spremitura le uve, in quel fondo, ma che un bravo vignaiuolo doveva sapere le qualità senza battere ciglio.
Allora ziu Ellìggiu s'era alzato lentamente, così come lo consentivano le giunture attrappite per la lunga immobilità. Aveva slegato la pelle che ricopriva il fondo dei pantaloni per riparare dall'umidità della terra, aveva raccolto nel cesto gli arnesi e detto con voce decisa:
- Toccai, picciòccus, chi s'ind'andàus.
Se ne erano andati senza una sola parola, lasciando quel tonto da solo in cima al filare.
Le aveva sentite dal padre, le parole, alla sera, quando ziu Anacrèttu aveva gridato:
- Mi hai fatto fuggire i migliori vignaiuoli che ci siano in paese -, e con le buone e con le cattive aveva fatto capire a suo figlio che quella risposta era giusta e proprio se l'era cercata la lezione, lui e la sua aria da Padreterno, tanto più che poi, come ziu Ellìggiu gli aveva detto, non era stato capace di riconoscere un fondo d'americano e l'aveva trattato come fosse malvasia, e della migliore, burrìccu tontu.

E intanto, per colpa sua, i migliori vignaiuoli del paese stavano a spasso davanti al bar, che non potevano neppure entrare per un bicchiere di birra, senza una lira in tasca.
Poco male per ziu Ellìggiu, che era vecchio, qualche cosa l'aveva da parte, un pezzettino d'orto di proprietà, un paio di pecore nel cortile dietro casa, ma soprattutto lui e sua moglie non avevano molte esigenze, e anche con la fame sapevano convivere per lunga amicizia.
Diverso il caso di quei giovanotti, vent'anni ciascuno o giù di lì, non di rado famiglia sulle spalle, come capitava a Cristòlu, e con la fame i suoi fratelli minori non la volevano stringere, l'amicizia.
Dicevano che vicino al paese lo Stato doveva aprire un grande cantiere e che manovali e braccianti sarebbero stati chiamati, parte a giornata, molti in pianta stabile: - Deus bòllada -, ma per l'intanto bisognava arrangiarsi.
Fu allora che zia Francisca, la madre, disse a Cristòlu di arare la terra in Su Cisgilliànu.
Il lavoro era poco remunerativo, per giunta richiedeva l'anticipo del capitale per la semente e per l'affitto del giogo che non avevano, ma d'altra parte, cosa c'era di remunerativo al giorno d'oggi, forse il mestiere del vignaiuolo, che bisognava saperlo fare e veniva compensato con appena dieci litri di vino, e fosse stato di quello buono, almeno? Oppure andare a zappare nei campi di ziu Minniàtu Delogu, e il padrone dietro con gli occhi sbarrati per sorvegliare che non stirassero la schiena neppure un momento, non bevessero o, con rispetto parlando, non facessero acqua durante le ore del lavoro? Per non dire come li osservava quando lavoravano vicino alle siepi, che a nessuno venisse in mente di mangiare qualche fico d'India e una volta che un ragazzo ne aveva raccolto uno caduto per terra glielo aveva scontato dalla paga della giornata, glielo aveva scontato.
D'altra parte Cristòlu era ingegnoso e l'avrebbe trovato il modo per evitare la spesa grossa del giogo e della semente.
Ingegnoso e robusto, se per guadagnare quel pugno di grano necessario alla sua impresa aveva piegato la schiena un'intera giornata sotto i sacchi del grano che ziu Minniàtu doveva trasferire da un magazzino all'altro e alla fine gli era anche toccato raccoglierlo, il suo, che secondo gli accordi doveva accontentarsi di quello caduto per terra durante il trasbordo.
Quanto al giogo, qui si vedeva l'ingegno, che l'ottenne in cambio della costruzione d'un carro, e bisognava saperlo costruire, il carro, con tutto il tempo necessario per trovare la legna adatta e lavorarla sotto la tettoia di casa. Ziu Ellìggiu l'aiutò, in quella circostanza, che sapeva le regole antiche e non voleva nulla in cambio, ma solo gli piaceva aiutare un giovane di buon sentimento.
Salirono in foresta, ziu Ellìggiu e Cristòlu, e scelsero il leccio più adatto per formare la scala e tutti i legni necessari per il completamento dell'opera. Trasportarono i materiali al paese e per una intera settimana lavorarono senza fermarsi, attenti che il tronco non si spaccasse mentre l'aprivano e che il giogo venisse levigato a dovere, quasi fosse una scultura e non un attrezzo per il lavoro.
Quando tutto fu pronto andarono a prendere le bestie e le aggiogarono con mille voci affettuose:
- Accosta, dimoniu.
- Avvicinati al carro, bello di nonno -, e stringevano le corregge con cura perché non ulcerassero le orecchie degli animali.
Sedettero sulle sponde come due antichi guerrieri e uscirono dalla cortita trattenendo il giogo che scalpitava.
Così si presentarono davanti al portale di Todde, schioccando la correggia di cuoio che sibilava all'orecchio degli animali. Fermarono il carro, batterono il picchiotto, dissero i nomi e s'avanzarono.
Al vecchio fece impressione quel dominario che aveva conosciuto quando Torres guidava la proprietà di Giuseppe Todde e il piazzale era agitato da mille fermenti, corso da servi indaffarati, reso vivo dalla presenza dei cavalli che legati all'anello battevano lo zoccolo sul terreno.
Tutto era quieto, oggi, e fresco: le aiuole squadrate ricolme di fiori che una donna annaffiava con parsimonia.
Anche Cristòlu vi era entrato bambino che ora tornava non senza pensare a suo padre con cui tante volte era venuto. Ma più lo confondeva l'idea del prossimo incontro con la padrona: di lei spesso aveva sentito parlare, ma non l'aveva incontrata se non di sfuggita.
Sofia, morto il marito, era tornata al paese e conduceva quietamente la vita, come conveniva a una donna ormai avanti negli anni e paga del suo.
Li ricevette seduta accanto al camino, e subito li tolse dall'imbarazzo invitandoli a bere un bicchiere di vino per poter parlare, soprattutto con ziu Ellìggiu che tanti anni in quella casa aveva servito, del buon tempo antico da entrambi ricordato non senza piacere.
Ellìggiu parlava e Cristòlu senza darlo troppo a vedere si guardava all'intorno osservando la grande cucina, le rosse piastrelle che formavano il focolare, i rami appesi alla cappa e le brocche sistemate in un angolo accanto al concone di coccio.
- Quanto bestiame sarà passato, nella corte grande -, diceva ziu Ellìggiu e la padrona annuiva pensosa, forse ricordando i giorni lontani della giovinezza: Torres era allora l'incontrastato padrone del luogo e ogni ricchezza a questa casa arrivava, le carrube e i grani, i formaggi e le mandorle che le donne sgusciavano sotto l'alto porticato.
- Così è, la vita - diceva la padrona con una voce che non aveva perduto l'antico accento straniero, ma ogni parola capiva, di quelle che gli uomini pronunciavano nel loro cupo linguaggio.
- Ne ha fatto di benefici, la guerra.
Come una regina sedeva su una piccola sedia di paglia, imponente nella figura, bianchi i capelli ora che si avvicinava agli ottanta. Eppure sembrava averlo vinto il passare del tempo e anche il braccio che teneva piegato dietro la schiena, per sorreggere un punto dolente, piuttosto le dava un'aria composta e quasi regale.
Cristòlu si sentiva intimidito dallo sguardo di quegli occhi chiari che lo osservavano e non avevano perso lo splendore del bel tempo passato, solo avevano acquistato una luce affettuosa che soprattutto s'accese rivolta a Cristòlu:
- E tui, de chini ses fillu?
Di zia Francisca e del padre, tanti anni in quella casa al servizio, prima della guerra alla quale era andato senza tornare, le disse. Sa meri perfettamente ricordava, soprattutto Francisca, e chiedeva dei fratelli più piccoli, raccontava fatti che li riguardavano, suo padre e sua madre, quando ancora si trovava il padrone, la vita era più intensa e tutti venivano al dominario, per questo o quell'altro motivo.
- E oggi, cosa vi serve?
Allora ziu Ellìggiu disse della legna di cui avevano bisogno, da tirare nel terreno di P., se la padrona lo permetteva, quei grossi ceppi di lentisco: il carro era fuori, i picconi e le asce, pronti a entrare in funzione, bastava che facesse un cenno, per la signoria sua, per loro e anche un po', se non è troppo richiederlo, per il proprietario del carro.

CAPITOLO TERZO
- A bacchi! - incitava Cristòlu con voce imperiosa e il cuoio del pungolo fischiava nell'aria, appena solleticando i fianchi delle bestie che si risentivano come per un'offesa portata al loro sentimento d'onore, chinavano la cervice e inarcavano le schiene in uno sforzo supremo. Così ogni volta che passavano accanto ai grandi lentischi, là dove la terra era più dura e occorreva aggirare l'ostacolo interrompendo la perfetta linea del solco.
Si lasciavano alle spalle un campo pettinato sul quale le cutrettole planavano alla ricerca dei lombrichi portati in superficie dal vomere: il falco osservava dall'alto, immobile e inquieto, pronto a calare d'un colpo per ghermire la preda.
- A su tuu - insisteva Cristòlu e l'animale chiamato dalla correggia aggiustava la rotta di quella navigazione condotta tra le erbe che le piogge d'autunno avevano cresciuto nel campo.

Per l'intera mattina andò su e giù assolcando con cura: la linea solamente piegava in prossimità dei grandi lentischi e della sommità petrosa che la mano dell'uomo non aveva mai lavorato: lassù l'elicriso profumava con orgoglio, quando veniva il suo tempo.
A mezzogiorno accostò alla fonte protetta dall'ombra del carrubo, liberò le bestie che lentamente mossero verso l'acqua.
Anch'egli si chinò per bere e per togliere dalle mani e dal volto la terra che si era aggrumata durante il lavoro. Finalmente sedette, sciolse le cocche del fazzoletto e cominciò a mangiare il pane. Masticava a lungo ogni boccone per gustare fino in fondo quel buon sapore di grano che faceva da condimento al suo cibo; masticava e guardava il lavoro eseguito con cura, il nero della terra che contrastava col chiarore dell'erba venuta dopo le piogge di quell'autunno generoso, Dio voglia che continui così. Sarebbero cresciute le spighe cariche, a giugno, la sua fettuccia di terra l'avrebbe vista da lontano chiunque fosse passato: nessun'altro avrebbe spinto l'aratro, su quelle costere impervie che sembravano non promettere niente. E invece, tanto tempo che avevano riposato, non poteva mancare il raccolto e sarebbe stato abbondante, chissà, forse dieci, forse dodici volte la semente versata.
Intanto bisognava versarla, con gesto lungo e paziente, come aveva visto fare dal padre e ogni volta che l'aveva osservato mentre affondava la mano nel sacco appeso alla spalla, mentre schiudeva il braccio per lanciare nell'aria i chicchi che ricadevano crepitando, gli era parso di provare un sentimento d'affetto. Come se in quell'atto fosse racchiuso il senso stesso del loro rapporto, l'essere padri e l'essere figli.
C'era da seminare, e c'era da ricoprire i solchi prima che venisse la sera, in quel fazzoletto di terra posto ai piedi delle colline.

Deposto sul carro l'aratro Cristòlu si appoggiò per dare un po' di sollievo alla schiena spezzata.
Era ormai buio quando la sua fatica poté dirsi conclusa e niente aveva da aggiungere se non la preghiera che il Padreterno gli fosse propizio di pioggia e di assenza di vento, tenesse lontani gli altri mille accidenti che incombono sulla spiga del grano.
Così che proprio col Padreterno gli pareva di parlare mentre tornava senza neppure incitare il giogo, quando le stelle brillavano da un pezzo nel cielo. E gli diceva del come e del perché, dei bisogni e delle speranze, del lavoro che aveva fatto perché si realizzassero, le speranze.
Parlava quasi avesse un interlocutore di fronte, ragionando pacatamente, ma non per supplicare una grazia; per spiegare, piuttosto, come sarebbe stato più ordinato e migliore, il mondo, se le piogge e il vento non fossero venuti a casaccio, come avviene, ma regolati dai bisogni dell'uomo che lavora la terra. Mica l'aveva inventato lui, il lavoro del contadino: era stata un'idea del Padreterno, e allora non si capiva perché avesse voluto lasciare le cose a metà, e gli uomini in balia di eventi che non potevano in nessun modo governare. Sua era la colpa se poi quelli erano costretti a bestemmiare l'acqua che non cadeva, il vento che soffiava impetuoso, la terra e il sole. Questo doveva essere un gran peccato, di dover dire: - maledetto - al sole e mai Cristòlu pronunciava la parola senza sentire turbamento e rimorso. Ma non nel senso dei peccati che spiegava il vicario durante le lezioni di dottrina alle quali era andato, quand'era bambino. Quelle sono cose buone, tutt'al più, per spaventare le femmine, e Cristòlu femmina non era di sicuro, anzi si sentiva un cuore da leone, e una forza che era certo l'avrebbe ottenuto, ciò che voleva. Eppure non gli piaceva dover maledire il sole, anche se bisognava farlo, quando per mesi risplendeva intero, senza una nuvola, e allora gli veniva un rimescolamento del sangue e una rabbia che lo avrebbe tirato giù, il sole, e li avrebbe cercati tutti i santi del cielo, perché anche loro era la colpa di quel grande sconquasso.
Adesso invece non c'era da cercare nessuno, e se ne poteva tornare così, tranquillamente, ragionandosela con quel vecchio che lo stava a sentire dall'alto e certamente capiva, anche se poi non avrebbe mosso neppure un dito, per aiutarlo. Per il momento non aveva bisogno d'aiuto, ma solo di parlare, come faceva, con le mezze parole che gli uscivano di bocca sfuggendo ai pensieri e si perdevano nell'aria fredda, appena appena illuminata dalle stelle che risplendevano.
- Tottu sìada po s'amori de Deus -, concluse con le parole che diceva suo padre quando la fatica era stata grande ma anche c'era la consolazione d'aver fatto bene la propria parte e al figlio quella era sempre parsa una verità rivelata.

Epperò mai avrebbe pensato che la sua fede nel Padreterno, da privata qual era potesse diventare un fatto che interessa anche gli altri. Di come la pensasse al riguardo, invece, gli domandarono, il giorno in cui si presentò all'Ente della grande riforma per chiedere di essere assunto come bracciante, con relativa certificazione del parroco.
Don Pedrusèmini, però, l'attestazione non voleva rilasciarla, che nell'ultimo decennio non l'aveva visto frequentare la chiesa, e se non fosse stato per zia Francisca, che faceva parte delle pie donne, recitava ogni sera il rosario, partecipava alle funzioni della quaresima e del Natale e per giunta lavava per l'amore di Dio i pavimenti e le vetrate della canonica, il foglio non glielo avrebbe mai dato.

Ci arrivò a piedi percorrendo la strada polverosa e bianca, quasi venti chilometri da C. al cantiere dell'Ente. Ogni passo un ciottolo, ogni ciottolo un calcio, ogni calcio una bestemmia o, alternativamente, una maledizione lanciata ai dirigenti dell'Ente:
- Cosa c'entrerà la religione -, e il maledetto foglio del vicario stropicciato in tasca, quasi la potesse cancellare in quel modo la vergogna di quella donna, meschina, sempre a pulire la chiesa gratis, e non glielo voleva scrivere egualmente, il foglio necessario per l'assunzione.
Fino a quando, un bel giorno che zia Francisca stava pulendo un candelabro nella sacrestia della chiesa, entra don Pedrusèmini e lei un'altra volta gli chiede il certificato. Il prete dice no e lei dice sì: poi la donna si era messa a piangere e allora il parroco l'aveva scritto, il foglio, forzis po si dda bogài de mesu is peis.
Per questo gli bruciava, per le lacrime della madre, e giurava a se stesso che non l'avrebbe dimenticato quel sacrificio quando gli fosse venuta la voglia di mandarli al diavolo l'Ente, il lavoro sicuro, il pane dello Stato e quel ruffiano con gli occhialini che sedeva nella baracchetta del cantiere e trattava gli operai come fossero blatte.
Così, quando ebbe squadernato il suo foglio sul tavolo, all'impiegato che diceva non essere il modo di trattare un documento ufficiale che lo aveva ridotto peggio d'averci incartato il pane con la mortadella, non rispose neppure che la mortadella la rispettava più di quello sporco documento, e quando gli era capitato d'averne, una o due volte nei cinque anni e passa trascorsi dalla fine della guerra, non era stato certo a involgerla né con carta né con foglia di mirto, ma se l'era mangiata in fretta perché stava morendo di fame.
E per la fame adesso doveva inghiottire anche questo: doveva ascoltarlo a testa china, quel cane che continuava a ringhiare, senza potergli dire una sola parola.

CAPITOLO QUARTO
Il lavoro, però, gli piaceva.
Le grandi colline scendevano arèstis fino alla spiaggia del mare e in pianura s'inciottolavano nei greti dei ruscelli, verdeggiavano per i giunchi e profumavano nei cuscini di tumbu.
Era come all'inizio del mondo; nessuno mai aveva calato una zappa su quella terra che sembrava sterile ma doveva celare un tesoro, fosse stato possibile lavorarla.
Adesso era possibile. Erano arrivati loro, primi uomini al mondo, ma già adulti e forti, organizzati in squadre, ricchi di conoscenza, invincibili per le macchine che conducevano. I potenti D6 che si muovevano come giganteschi insetti metallici, clang clang sugli inarrestabili cingoli, e modellavano il volto della terra, sospingevano i massi e formavano gli argini contro le piene, spianavano i dossi e riempivano gli avvallamenti, levigavano con la lama che appena sfiorava il suolo nelle retromarce veloci e quando la nube di polvere si posava appariva un velluto che sembrava in attesa di ricevere il seme. Li osservava incantato, senza lasciare un istante il proprio lavoro, ma attento a quell'altro lavoro che l'operatore svolgeva dall'alto del mezzo, sfiorando le leve di guida, ora questa ora quella.
Dabbasso un geometra governava l'impresa e lo sapeva, il mestiere, che a lui spettava tracciare le linee e dirigere il movimento con il cauto gesto della mano. Sembrava che la lama del D6 fosse un'estensione della mano dell'uomo, gli conferisse un'immane potenza.
Le dita si muovevano leggermente verso l'alto e la lama allentava la presa, s'abbassavano e quella affondava il suo dente qua dolcemente, là con decisione, a seconda del gesto dell'uomo, se fosse delicato o se invece s'esprimesse in modo secco e deciso. Gli occhi dell'operatore fissi sulla mano del geometra, la lama eseguiva. C'era anche la voce ma, naturalmente, non serviva a niente, sommersa com'era dal frastuono dei motori; ciò non di meno la bocca compitava: - Cala, a pagu; piano ti ho detto; più forte, qui; così va bene; continua.
L'operatore guardava il movimento delle dita, le labbra le vedeva, o forse no, che la polvere non permetteva l'esatta percezione di ogni minuto dettaglio.
Di polvere ambrata erano pieni, alla sera, come un borotalco, sulle ciglia e in mezzo ai capelli, uomini scurissimi che sembravano biondi al tramonto del sole, dentro le narici e nei colli delle camicie, nei fazzoletti che le donne avevano la mattina consegnato bianchissimi e che ora segnavano scuro, tenuti in quelle tasche, fregati su quei nasi, annodati sul collo. E quando se li toglievano sul collo restava una striscia più chiara che mostrava l'originario colore dell'incarnato.
Clang clang dall'alba al tramonto e i motori che giravano al massimo.
Quando li spegnevi, a fine giornata, il silenzio sembrava dolerti nelle orecchie e ne impiegavi di tempo, per udire di nuovo il rumore del mare che ammuinava com'è l'arte sua. E anche sentivi gli odori, a quel punto, che prima si erano perduti nella generale confusione, odore di terra e di lentisco ferito, l'odore bruciante del gasolio.
Allora decise, Cristòlu, che avrebbe imparato a guidare le macchine.
Ma ce n'era, di bella strada da fare, che un bracciante non poteva neanche guardarle, le macchine, sempre che per macchine anche non s'intendano il picco e la pala, di sua stretta competenza.

Passarono mesi; forse un intero anno, forse più. Poteva essere il Cinquantatré o il Cinquantaquattro, non oltre; di questo era certo, perché nel Cinquantacinque aveva preso una vespisgèdda di seconda mano per andare al cantiere e allora il modellamento era già concluso.
Poi erano arrivati i camion.
Colonne che non finivano mai. Ce n'erano di ogni tipo, anche di quelli della guerra, i Dodge e i Lancia col muso che sembrava una chiesa, tanto era grande, adesso non ne fanno più, ma allora non era ancora uscito, se la memoria non inganna, neanche il 682. Camion di ogni tipo, e carichi, che in quella data non c'era polizia a controllare il quintalaggio, tanto più se viaggiavano per lo Stato. Portavano i fertilizzanti, roba chimica che nessuno conosceva e gli uomini in mezzo come se fosse niente, altre nuvole bianche che rimanevano in aria, a lungo, e la polvere entrava nelle narici: la pelle prudeva e si gonfiava come se fosse stata ustionata da una fiamma. Di guanti non se ne parlava, e le maschere le avevano, forse, in America.
Ma quando venne la pioggia, e tutta quella terra lavorata che sembrava una farina e fertilizzata senza risparmio cominciò a berla avidamente senza perderne una goccia, avresti dovuto vedere: una quantità d'erba che sembrava un bosco. Quell'anno, o l'anno prima, furono piantati gli orcalitti di Canali Omus che sono venuti su come querce antiche nel giro di poco tempo e tutte le altre fasce frangivento a delimitare i poderi.
Nel frattempo costruivano le case, ma belle, con le cucine grandi e la camera da letto: ognuna con la lolla fatta come si deve, che in seguito sono piaciute anche ai cani grossi della regione e se le sono mangiate. Povera agricoltura. E poveri quelli che ci hanno lasciato la schiena, lavorando dalla mattina alla sera: era ancora tempo da schiavi e o mangiavi di quella minestra o saltavi dalla finestra, anzi, almeno lì il pane era assicurato, che all'intorno, da noi, a dire la verità c'è sempre stata crisi, fino a quando non è nata questa moda del turismo.
Per quello se ne sopportavano di cotte e di crude, nel lavoro e anche fuori dall'orario di lavoro. Perché era una domenica quando vennero per l'inaugurazione, tutti in colletto e cravatta e anche il vescovo vestito di rosso. Le macchine dal giorno prima schierate nel piazzale, lucide che le avevamo lavate col gasolio, il terreno ben innaffiato e i vasi dei fiori messi giro giro.
L'ordine di servizio prescriveva: tutti presenti; poi a ognuno avevano detto che durante la messa era meglio prendere anche la comunione. Cosa volevi fare? Pane è, e ne vorremo sempre di pane, nella vita, anche se quello mangiato per forza non fa lo stesso sapore. Pane e litanie; prima avevano parlato i dirigenti dell'Ente, poi il vescovo, si ficchino nel cesso tutti quanti sono, sino all'ora del pranzo che era stato preparato nell'officina perfettamente ripulita.
Cristòlu se l'era svignata, durante la messa, prima della comunione e del pranzo: se li sceglieva da sé, i compagni di mensa, e solo le sue braccia aveva venduto all'Ente, per lo stipendio che gli davano. Però c'era poco da scherzare: lo sapevano bene e glielo ricordavano ogni tanto, come la volta che Arroberteddu Frau aveva bucato il giornale con la faccia di Papa Giovanni. Lo aveva fatto per scherzo vedendo quella bella faccia rotonda fotografata al centro della pagina e non aveva resistito alla tentazione di conficcare un dito nel foglio. - Guarda cosa gli faccio, a questo -, e giù l'indice proprio nell'occhio.
I ruffiani e le spie non possono mancare: tempo mezz'ora Arroberteddu, babbu de cincu fillus, aveva raccolto i suoi stracci e se n'era dovuto tornare a casa.
C'era poco da fare, allora, con quei democristiani bigotti che facevano il buono e il cattivo tempo nella regione. E gli operai erano troppo ignoranti e sapevano poco e niente di sindacato. Del partito comunista manco a parlarne, in quell'epoca. Poi le cose sono cambiate, ma allora era proprio così, anche se a pensarci oggi non sembra vero. C'era una fame, ed erano più quelli che se ne andavano in Piemonte, nel Belgio, in ogni posto, di quelli che trovavano lavoro qui.
Mundu mallandròni.

A guardarla dall'alto quella gran terra sembrava diventata un giardino, gli aranceti e le vigne, gli scuri cipressi delle frangiventazioni e gli orcalitti, gli antichi gelsi piantati dai galeotti della casa di pena e i fiori recenti che le donne coltivavano di fronte alle case: sembrava un giardino splendente di colori e di vita.
L'edificio della colonia penale aggiungeva imponenza, non più carcere ma direzione dell'Ente nei piani alti, officina e deposito negli antichi magazzini dove una nuova sapienza si costruiva, e non c'era motore che dovesse partire per la riparazione ma ogni pezzo veniva rifatto nella forgia e nel tornio da mani orgogliose per le quotidiane scoperte.
Cristòlu aveva cominciato pulendo lo scafo dalle incrostazioni di terra, poi aveva imparato a revisionare i cingoli e il carro, alla fine era passato ai motori sino a che era riuscito a smontarne uno, per scommessa, con gli occhi bendati, ogni parte allineata in buon ordine sul bancone.
Solo in seguito gli avevano affidato un D8 nuovo di zecca, appena arrivato che ancora tutti stavano a bocca aperta di fronte alla gigantesca lama e provavano a cubare per scoprire quanta terra fosse in grado di muovere.
L'avrebbe scoperta, Cristòlu, la forza di quella macchina, percorrendo i crinali dei monti in ogni punto ove fosse necessario aprire una pista, creare una fascia per spezzare il cammino del fuoco, tracciare una strada nuova per i mezzi di servizio. E ce ne voleva, coraggio, ad andare costa costa su quelle montagne irte di rocce che non sembravano lasciare lo spazio per il passo dei cingoli e i cingoli non bastavano, nelle discese, a tenere il peso del mezzo che scivolava franando verso valle e saltava come un puledro selvaggio. Allora era necessario abbassare la lama e la corsa d'improvviso cessava in una nube di terra. Ce ne voleva coraggio. E lombi robusti, che ogni colpo ripercuoteva fin dentro le ossa e le disponeva a una dolente vecchiaia. Ma chi ci pensava, a trent'anni, con la forza dell'età che sembrava piegare ogni ostacolo? E d'altra parte, che cosa sarebbe cambiato, a pensarci? Il servizio è servizio, e se ti comandano nel cuore della notte perché è scoppiato un incendio non c'è nulla da fare. Puoi solo indossare un sacco bagnato, avviare il motore e dirigerti nel cuore del rimboschimento, per aprire una pista che salvi il salvabile. Fino a che il fuoco maligno non riesca, col favore del vento che è sempre in tuo aiuto, ad accerchiarti. Allora resta solo il salto, nel buio, con la lama abbassata e la speranza che un tronco o una roccia più in basso sappiano frenare la corsa del mezzo impazzito.
Quella volta l'avevano cercato per morto, i compagni, e anche il capocentro era pallido come un lenzuolo lavato quando lo ritrovarono sotto il costone, seduto al posto di guida che fumava una sigaretta e le mani gli tremavano.
Davìddi Meloni che lo raggiunse per primo gli chiese:
- Ma è il tuo, questo accidente di rimboschimento? - e subito aggiunse d'un soffio:
- Per quanto ci pagano, poi.
Vaglielo un po' a spiegare che non c'entrava per niente, la paga, che gli alberi li sentiva come fossero suoi e non gli reggeva il cuore di vedere lo scempio di quell'incendio. Vaglielo un po' a spiegare, a uno che ha ragione, se guardiamo al presente, ai pochi danari ricevuti alla fine del mese, ai molti rospi ingoiati. Ma gli alberi sono alberi, una cosa che resta, un beneficio di cui qualcuno dovrà pur godere, e se tutti avessero fatto quel ragionamento oggi vivremmo in una terra spoglia, più di quanto non sia, e povera da non dare neanche un po' d'ombra, ai figli.
- Ddu cumprèndis, Davìddi?
Forse non capiva, ma non aveva aggiunto parola, che su Cristòlu non c'era niente da dire, ad esempio che fosse un coniglio di quelli pronti a chinare la testa a ogni soffio di vento: al contrario sapeva tener testa perfino al capocentro e non c'erano geometri o dottori in agraria, con diploma o con laurea, che la vincessero, con lui analfabeta, se capiva che un lavoro andava fatto in un modo, non come dicevano.
E lo capiva al volo, il modo giusto, nelle linee generali e nei dettagli, come doveva essere fatto per l'oggi e per il futuro.
Ma matto completo, se un'idea gli entrava in testa e lo tormentava finché non riusciva a fare a modo suo.
Così come quando gli saltò in mente di frequentare la scuola di agricoltura che l'Ente teneva dall'altra parte dell'isola ed era già uomo fatto, con tanto di moglie e primo figlio: eppure s'accorse che non poteva più vivere senza sapere come si facevano gli innesti all'inglese.
Partiva la domenica all'imbrunire con la sua vespisgèdda e un foglio di giornale sotto il maglione. Guidava tutta la notte per essere di primo mattino alla scuola e durante l'intera settimana si occupava di zone generatrici e di linfe che scorrono sotto le cortecce delle piante, là dove deve essere fatto l'innesto. Mica possiamo vivere come ai tempi antichi, accontentandoci di restare ignoranti.
Istèvini, il primogenito, aveva allora tre anni.

CAPITOLO QUINTO
Anno dopo anno gli erano nati altri figli: Roberto, Teresa, Rossana, Efisio, Elena e Mario. Una bella squadra che soltanto a vestirli e a combinare un pranzo e una cena molte volte bisognava fare i salti mortali.
A Cristòlu forse il tempo poteva mancare, non certo la voglia o la fantasia. Anzi, la mancanza del tempo sembrava esaltarla la capacità di inventare soluzioni nuove e stimolava il desiderio d'andare sempre più avanti. Quasi per sfida.
Ma questo avvenne quando la famiglia fu interamente formata, i bisogni cresciuti proporzionalmente.
Prima ebbe il tempo di rafforzarsi, di osservare il mondo che d'improvviso evolveva come mai aveva fatto sino ad allora, di capire che il ritmo vigoroso poteva essere anche il suo, se avesse voluto, e senza tradire il passato.
Perché il passato, da solo, si proponeva con forza, ogni giorno, e aveva una bella forza. Quello più antico e quello recente, l'uno e l'altro capaci di suscitare un sentimento d'orgoglio.

- Arremundu, cosa ti sembra che sia?
La ruspa borbottava tranquilla come se riposasse e gli uomini rapidamente spostavano con le mani gli ultimi residui di terra, carezzavano la pietra cercando di cancellare il segno lasciato dal dente metallico.
- Cos'è?
- Dev'essere un muro antico.
Conci squadrati che emergevano dalla terra smossa e facevano immaginare le linee di una costruzione celata all'interno del piccolo colle.
- Continuiamo a scavare?
- Lascia tutto così.
- Magari c'è qualche tesoro.
- Lascia, ti ho detto.
- Tu non mi vuoi fare arricchire - diceva Arremundu sornione, come se sapesse che non c'era, per loro, nessuna possibilità d'arricchire e, più che altro, solo la curiosità lo muoveva.
- Dimenticateli, i tesori: tutto quello che possiamo trovare sono le ossa di qualche uomo morto da molto.
- Deus s'indi campidi - fece Arremundu segnandosi e chiese - come gli scheletri che abbiamo trovato nelle campagne di Laccus?
- Molto più antichi.
- Lo sai che il giorno mi sono spaventato davvero?
E riprese il come e il perché della storia che li aveva colpiti, non molto tempo prima, e ancora costituiva l'oggetto di lunghe discussioni nel capannone dell'officina.
La storia di ziu Tomasiccu Crabbòni, morto da solo sui monti dove aveva trascorso l'intera esistenza.
- Doveva avere più di cent'anni.
- Uhm, non ci arriveremo, noi, a quell'età.
- E certo che ziu Tomasiccu non ne ha conosciuto ricette della mutua.
- Uomo sano come quello.
- E di vista acuta.
- O forse gli tremava la mano, quando impugnava il fucile?
E se la raccontavano da capo, la storia di Tomasiccu Crabbòni, come immaginavano che fosse avvenuta, almeno, perché in quei tempi lontani, quando ziu Tomasiccu si era stabilito lassù, loro non erano ancora nati, e nessuno, del resto, sapeva dir bene, neppure fra quanti vivevano nelle poche case della pianura, che cosa facesse quell'uomo solitario sui monti.
Raramente scendeva, che non aveva bisogno di nulla, se non della polvere per il fucile e di piombo, ogni tanto. E pochi erano saliti fino a quell'acrocòro perdòso sul quale gli antichi avevano costruito una torre. Vallo a capire come avevano fatto a trascinare i pezzi e a issarli, l'uno sopra l'altro, senza calce ma così bene che si reggevano come se ci fosse una malta invisibile a tenerli uniti. E allora non dovevano avere né argani né carrucole. Ma forse erano uomini forti, molto più robusti di quanto oggi non siamo, con la fame che c'è, e anzi ora è nulla, ma anni prima di oggi la gente stava davvero morendo di fame. C'è da capirlo.
L'avevano costruita, la torre, nel punto più alto e niente sfuggiva, da lassù, di quello che avveniva nelle campagne e nei sentieri che s'ingrovigliavano tra i cisti. Ma anche dominava la lunga spiaggia deserta e le acque del mare che segnavano l'orizzonte infinito. Dicono che da lì venivano gli arabi e c'erano ancora, al paese, uomini vecchi che avevano perduto la madre o una sorella, e mai se n'era più sentito parlare. Disgraziato chi lo prova.
Fra quelle rocce ziu Tomasiccu aveva stabilito di vivere alla maniera degli antichi, poche frasche per tetto, una cortisgèdda per chiudere le bestie di notte. Di giorno, invece, pascolavano all'intorno e la sua proprietà non aveva confini, né vicini che si lamentassero per uno sconfinamento.
Andavano e tornavano da sole, le capre, e ziu Tomasiccu non aveva che da mungerle, al mattino, e da lavorare il formaggio se gli andava di fare una piccola provvista che avrebbe affumicato con calma nel chiuso della barraca. Se ne stava là dentro, sdraiato sopra la stuoia a costruire campanacci sonanti che le capre portavano in giro con mille suoni diversi. Ma attento; così che niente poteva avvenire a sua insaputa, fin dove la vista spaziava. E gran cacciatore. Di uomini, però.
Questo avevano scoperto quando il vecchio era morto. Un bel giorno qualcuno l'aveva trovato disteso dentro la torre, ogni cosa al suo posto, come se si fosse preparato a quel sonno e prima avesse lasciato il fucile ben oliato, gli attrezzi raccolti in un canto, i rami intrecciati nel focolare pronti per essere accesi.
Da principio nessuno s'era accorto di nulla, neppure la giustizia che era dovuta salire tra mille affanni e mille graffi di spina per le constatazioni di legge.
Giorni e giorni più tardi, in una valletta nascosta quasi al confine del territorio sul quale il vecchio aveva dominato, erano giunti i mezzi per preparare le fasce sulle quali sarebbero cresciuti gli alberi della forestazione.
Ancora se ne ricordava, Arremundu, con lo stesso spavento che gli era toccato quando la lama aveva svelato il segreto.
- Qui c'è qualcosa - e il cantiere si era fermato, spenti i motori e rifatto il silenzio che appena rompeva qualche trillo d'uccello.
- Qui c'è qualcosa - ed erano arrivati i picconi e le pale, ma non avevano avuto bisogno di scavare un gran che. Piuttosto di spostare le pietre, che i tumuli quel demonio li aveva formati gettando un po' di terra e costruendo piccoli mucchi di sassi, monumenti a futura memoria.
- Cosa sono?
- Ossa, ossa di morto.
Avevano avuto paura.
Erano venticinque i morti, allineati come in un cimitero ben fatto. In quel luogo; ma chi lo saprà quanti altri ce ne sono in qualche altra parte, tanti anni che il vecchio faceva il suo lavoro, di vedetta sul monte.
Allora sì che era arrivata la giustizia, e li vedevi formicolare, giudici e carabinieri cercando di capirci qualcosa.
Ma non avrebbero capito nulla se il movimento non avesse attirato ziu Lazzarìnu Sìrigu, pastore, che passo passo, da C., in certe stagioni arrivava fino a quelle campagne e poteva trattenersi anche un mese, prima di prendere la via del ritorno.
Ziu Lazzarìnu era venuto come per caso, aveva lanciato una voce alle pecore che s'erano fermate e aveva cominciato a guardare la scena avvicinandosi sempre più ai tumuli appena scavati.
Non che i carabinieri gradissero troppo la presenza di estranei nel momento del loro lavoro, ma non sapevano che pesci pigliare e forse aspettavano uno spiraglio di luce, da qualunque parte potesse arrivare. Uomini sono, anche se fanno quel mestiere, e un po' di curiosità dovevano averla anche loro.
Lazzarìnu fermo sul primo tumulo aveva affondato lo scarpone nella terra smossa, aveva sputato nella polvere e aveva detto con voce chiusa:
- Biddamannèsos.
Il pretore aveva chiesto al brigadiere:
- Cosa ha detto? - e il brigadiere aveva tradotto:
- Villagrandesi.
La spiegazione non doveva essere chiara, se il giudice si era tolti gli occhiali e aveva cominciato a fregarsi la faccia sudata, con l'aria di chi non riesce a capire.
Poi, con l'aiuto di ziu Lazzarìnu, un po' l'uno, un po' l'altro avevano messo insieme i racconti dei vecchi, storie del tempo passato, quando i villagrandesi, genti pagu zivìlli, scendevano dai loro monti e arrivavano in paese. Si affacciavano dalla strada di Quirra, superavano la colonia penale, passavano la pianura ai piedi delle rocce di Laccus e giungevano al Comunale nostro. Uomini primitivi, vestiti di pelle alla moda antica, da soli o in compagnie, con la forza delle armi o con l'astuzia degli inganni, riuscivano sempre a servirsi di cavalli e di capre, di pecore e buoi. A piacer loro. C'era poco da fare, in quei tempi e con quella cattiva genìa.
Anche a ziu Tomasiccu, da giovane, doveva essere capitata la sorte, forse d'un gregge di pecore, forse di qualche cavallo sparito nel nulla, come poteva accadere.
Certo prima che si ritirasse sul monte, lontano dal mondo ma attento a tutto ciò che avveniva giù nella valle.
Impostato. Di giorno e di notte, che per riposare gli bastava chiudere un occhio sotto le fronde dell'olivastro sempre mosse dal vento e se anche s'addormentava a risvegliarlo era sufficiente il ringhio sottile di Buggìnu e Sturìli, cani avvezzi a non abbaiare per non allertare la preda.
- No ddu bidi, sa vussignorìa? Si cannòscinti a is cambalis.
- Biddamannèsos - ripeteva il brigadiere come borbottando tra sé e traduceva per il magistrato:
- Sono villagrandesi, la gente del luogo li identifica dai gambali.
Villagrandesi, quindi, venticinque, perfettamente allineati. Venticinque teschi segnati da un foro in mezzo alla fronte.
- A balla sola.
- Come dice?
- Dice che il nominato Carboni Tomaso sparava una sola palla per volta.
- Una e buona.
- Preciso in mezzo agli occhi.
Il caldo si faceva più intenso e il magistrato passava e ripassava un fazzoletto sul collo, sospirando per un poco di vento che dal mare portasse refrigerio.
- E li avrebbe ammazzati tutti da solo?
- Con chi, altrimenti? Qui ci viveva solo lui.
- Da solo.
- Ma perché, poi?
- Per il bestiame rubato, e per la beffa che facevano a tutto il paese. Lo sapevamo che se ne ridevano nelle loro terre, a Villagrande, a Villanova, ad Arzana, posti selvatici; se ne ridevano di noi e si mangiavano la carne. Mangiavano, bevevano e ridevano.
- Vecchi rancori tra paese e paese.
- Ma questa è una strage, e perpetrata nell'arco di un lunghissimo tempo, per di più.
Il brigadiere aveva allargato le braccia come a dire che se le cose erano andate in quel modo, con tutto il rispetto per il signor pretore, non poteva farci niente. Non la comandava lui la stazione, in quei tempi, e chissà poi se già c'era, la stazione, o se la giustizia, com'è più verosimile, ancora non era arrivata in quei luoghi selvaggi.
Conclusione accettata dal magistrato, che quelli fossero, ancora, luoghi selvaggi, nonostante la generale diffusione della civiltà. Gliel'aveva fatto capire chiaramente a ziu Lazzarìnu, a Cristòlu, a Arremundu e a tutti gli altri disposti taciturni attorno a lui e agli uomini dell'arma.
- Tempo trascorso inutilmente sui libri, per arrivare a non capire nulla - aveva sentenziato ziu Lazzarìnu e qualcuno, di rimando, aveva aggiunto:
- Così sono, molte volte, quelli che hanno studiato.

- Perché vedi, Arremundu, per capire non basta saper leggere o scrivere, bisogna che sappiamo guardare lontano. Questa gente che vive in un mondo di carta vede soltanto il foglio che ha davanti al naso e nient'altro.
Arremundu, poco tagliato per le generali speculazioni, aveva chiesto cosa bisognasse fare, piuttosto, a parere del capo ruspista, nella circostanza presente: situazione prevista dalle disposizioni, ritrovamento di materiale antico, obbligo di segnalazione all'autorità.
- Sì, così domani arrivano tutti quei professorini delle antichità, e cominciano a scavare perché non gli piace lasciare in pace neanche i morti.
- E allora?
- Una tomba è una tomba, anche se molto antica. Lasciamo che i morti si riposino: l'hanno già fatta, la parte loro.
- E allora?
- Tu hai visto qualcosa?
- Io? Nulla.
- Meglio così. Dai che stendiamo un po' di terra e ricopriamo tutto.

Il motore aveva ripreso il suo monotono ronzio, come una nenia che cullasse quel sonno.

CAPITOLO SESTO
Tempi duri, erano quelli, ma ricchi di una qualche grandiosità. Gli ultimi, se vogliamo; perché poi tutto è cambiato rapidamente, e in meglio; ci vorrebbe coraggio a negarlo. Anni durissimi, con lo stipendietto dell'Ente, per chi ce l'aveva. Per gli altri era peggio, e bisognava arrangiarsi.
Chi seguiva il gregge non percepiva il vantaggio dei tempi moderni né poteva capire qual era il posto che la generale rinascita gli riservava.
Sembrava tutto com'era nella notte dei tempi. Ma forse dipendeva dal fatto che erano troppo ignoranti e non riuscivano a vedere quel mondo nuovo di cui parlavano i signori della regione, quando si presentavano in piazza di chiesa, sempre belli e tirati, prima delle elezioni.
Anche la chiesa, del resto, almeno in paese, ma potevi davvero chiamarla una chiesa? Un magazzino, piuttosto, quale sempre era stato, appena appena ripulito con una fila di panche. Dietro l'altare la statua della Madonna.
Le donne si segnavano e recitavano preghiere formate con parole sconosciute. Ma la fede era autentica, o la disperazione. Tanto che poi, qualche volta, quella Madonna i miracoli li faceva davvero, o che capisse le oscure parole o che leggesse nel cuore e nelle buone intenzioni che le dettavano.
Molti anni dopo son giunti i professori delle antichità e anche il vescovo è giunto, per dire che quella statua, trovata nei campi a Santa Maria, non era sicuramente una Madonna, ma una femmina antica, dei tempi romani, e magari era pure una donna di poco valore. Tanto l'avevano pregata e poi è finita nel magazzino del parroco.
Non avevano fortuna, con le statue, al paese. Perché anche l'altra che c'era, fatta di legno di pero, non era gran cosa. Ma questo lo sapevano tutti, fin da quando ziu Minniàtu l'aveva dato, il suo pero, al falegname, per farne una statua di santo. Una pianta grande come quella, e verde, in estate, ma pere non ne faceva neppure per sbaglio. Finché ziu Minniàtu che non capiva perché dovesse vivere una pianta che non produceva frutti, l'aveva ceduta al falegname e quello, lavorando di fino come sapeva, ne aveva cavato un bel Sant'Antonio.
Non ne faceva prima, di frutti, poteva mai farne adesso? Comunque la gente si segnava passando; certo però di tempo nessuno ne sprecava, pregando davanti a quella cattiva legna.
Una volta che era venuto in visita un professore e gli era stata contata la storia per filo e per segno, quello aveva detto che anche in un paese della Sicilia c'era una statua così, che l'aveva letto in un libro, e si era fatto grandi risate.
Meno aveva riso ziu Minniàtu, e non capiva cosa c'era da ridere se al mondo esisteva altra gente disgraziata che aveva avuto la nostra stessa fortuna. Sa fortuna de is canis in cresia.
Poi erano arrivate le suore, avevano aperto l'asilo e la domenica il parroco scendeva per far messa laggiù, alle undici. Mattine piene di sole e di luce, l'aria dei campi entrava dalle finestre aperte, e le api ronzanti.
I ragazzini guardavano le api e passavano l'ora fino al momento della comunione. Poi facevano quattro passi per arrivare all'altare, tornavano a posto in raccoglimento, ite missa est, Deo gratias, e fuori nel sole accecante attenti a non sporcare troppo le scarpe della festa.
Negli altri giorni andavano scalzi, scalzi nelle strade polverose e sui greti dei ruscelli rinsecchiti, o nel fango e nelle pozzanghere dell'inverno che era breve ma, a Dio piacendo, intenso.
I piedi sembravano foglie di fico d'India e non avvertivano le asperità del terreno, ma egualmente dovevi stare attento perché qualche chiodo poteva sempre esserci, rilasciato dagli scarponi dei padri. Un sogno, quegli scarponi sonanti di chiodi, come la veste virile che consacrava la raggiunta maturità. E segno di collocazione sociale, se erano nuovi. Il padrone del gregge ne consegnava un paio all'anno al servo pastore, in aggiunta al poco latte giornaliero e all'esigua somma in contante.
Altro che storie: era ancora come nei tempi antichi, finita la pacchia della disinfestazione malarica e in attesa di qualche inutile cantiere di rimboschimento. Per il resto non era cambiato nulla, se non in peggio. I padroni si erano fatti più micragnosi, misuravano le anticipazioni e se ne ricordavano fino all'ultima lira. Mica come quando era vivo Torres, il padrone grande.
Di quella famiglia in paese erano rimaste soltanto la padrona e le figlie.
Il figlio, lontano per il lavoro, in paese ci veniva di tanto in tanto per le feste e allora si vedeva anche la padrona: insieme facevano una passeggiata, alla sera, fino a Sa Suergia. Quanto al resto niente: la donna era anziana e non usciva di casa neanche per la messa. Ci andava il parroco, a trovarla, per confessione e comunione, e il brigadiere dei carabinieri, quando aveva un po' di tempo libero, a bere un bicchierino di marsala nella cucina buia.
Ma di testa era tale e quale, e si ricordava ogni cosa e i nomi delle persone, di chi era figlio il tale, con chi si era sposata la tale e quanti figli aveva avuto.
Aveva anche regalato una statua alla chiesa nuova, e un banco, con nome e cognome perché di lei si ricordassero nella preghiera, quelli che si inginocchiavano. Epperò statua e banco erano rimasti molto tempo in un magazzino, in attesa che finissero la costruzione: non è cosa facile costruire una chiesa, ma quella proprio non voleva venire su e almeno vent'anni erano rimasti buttati per terra i graniti portati dal monte. Povero San Raffaele nostro protettore, e poveri noi che quattrini non ne avevamo neanche per piangere, immaginarsi per costruire le chiese.
Ma quando fu terminata la gente di paese ci stava tutta e poteva anche passeggiare, in mezzo ai banchi. Fino a che è venuta questa mania del turismo e la chiesa è sembrata piccola, piena come un uovo di gente straniera, mala genìa, donne mezzo nude e senza vergogna.
In quella data di turismo non se ne parlava e nelle sere d'estate potevi girare per ore, in campagna, senza incontrare nessuno.

All'imbrunire tornava, Cristòlu, che aveva trovato un lavoretto, in aggiunta a quello dell'Ente.
Tornava di notte stracco come una bestia, a piedi che la vespisgèdda lo aveva mollato per strada. Faceva i conti del dare e dell'avere, di quel suo grano che stava crescendo in Sa Serra de is Morus, bello come un bel fiore e ogni cosa andava a puntino, quell'anno, il poco vento e il sole, l'acqua che Gesù Cristo pioveva al modo giusto, né poca né troppa, ma seria quando veniva giù che sembrava ragionasse pian piano con la terra.
Veniva da Sa Serra de is Morus e pensava ai figli, a Istevinèddu che tra breve avrebbe potuto aiutarlo e allora sarebbe stato diverso l'andare e il tornare per le strade dei campi, e il lavoro comune per il comune interesse.
Così la pensava, la famiglia, quando ciascuno sarebbe stato in grado di fare la sua parte e si sarebbero aiutati l'uno con l'altro, per venirne fuori una buona volta e sollevare la testa, forse avrebbero potuto comprare le bestie, forse qualche piccolo mezzo, che non si poteva continuare a lavorare con le braccia come ai tempi passati, e lui lo sapeva cosa erano in grado di fare le macchine che guidava nei cantieri dell'Ente. Così c'era soddisfazione, a impiegarla la giornata, che alla fine vedevi una gran terra rivoltata e ti allargava il cuore. Mica come col giogo dei buoi, che si spaventava, un uomo, soltanto al pensiero del lavoro da fare.
Passo dopo passo aveva preso la discesa e già intravedeva il cimitero, appena illuminato dalla luna crescente.
Passo dopo passo ma fiero come uno che si sente uomo e sa quello che ha fatto e quello che ancora potrà fare, con la grande forza che gli riscalda dentro.
A tratti non l'avvertiva neppure la fatica e ascoltava il rumore del mare che ammuinava dietro la cortina di canne e guardava le nuvole che scivolavano sulla luna.
Finché rimase tersa, la luna, per un soffio di vento, e un raggio scese a capofitto sull'acacia spinuda che cresceva accanto al cancello del cimitero.
Cristòlu sentì una mano fredda stringergli lo stomaco e i capelli uno per uno si levarono sotto il berretto, ritti come se stesse cadendo in un precipizio.
Da sole le gambe si erano fermate e non c'era verso d'andare, gli occhi rivolti alla figura che ballonzolava sotto l'acacia.
Sembravano corna sospese a mezz'aria, corna più grandi di quelle d'un bue sopra un viso pallido morto.
- Arròri, sa duènna - e non andava né avanti né indietro, paralizzato.
Provò a ripetersi, come faceva quand'era bambino, che non poteva essere vero, che agli uomini appaiono solo cose reali e i fantasmi sono le nostre paure che prendono corpo se ci crediamo, se ci lasciamo vincere quando la mente è stanca e non fa il suo dovere. Ma restava di ghiaccio e quell'immagine tremolante lo paralizzava togliendogli il respiro. Il sudore bagnava il colletto della camicia e il vento lo asciugava gelandolo. Altre nubi arrivarono a coprire la luna e quel volto pallido divenne più oscuro, sotto l'ombra delle corna che sembravano allungarsi.
- Che razza di uomo sei, Cristòlu? - si chiese con tono di comando articolando a voce alta le parole per darsi il coraggio e ordinò alle gambe di muoversi: la strada era quella, non poteva star lì tutta la notte e tornare indietro per fare il giro della collina sarebbe stata un'azione da vile.
Un cane abbaiava, non molto discosto, e proprio un cane gli sembrava di essere, che si allunga per annusare una serpe ed è pronto a ritrarsi come una molla al primo movimento di quella.
Il cane abbaiava sempre più irato e fu allora che come se il cuore della terra s'aprisse un suono d'improvviso proruppe, altissimo, e gli tolse gli ultimi fiati. Forte ma noto, che quando anche questa paura lo ebbe lasciato riconobbe i toni e i modi di un prolungatissimo raglio. Allora gli occhi ripresero a fare il loro mestiere, a ricomporre i contorni e ridisegnare le esatte fisionomie, così che quelle corna gli si mostrarono orecchie, quel pallido volto una faccia asinina.
- Che ti venga un accidente, asino tu più della bestia - disse pensando all'uomo che aveva legato l'animale al cancello del cimitero. Si avvicinò con passo baldanzoso, sciolse la capezza e allungò due pedate alla pancia dell'asino che prese a trottare ragliando.
- Hai raccolto la parte che spettava al tuo padrone - gli gridò dietro ridendo per non pensare alla vergogna della sua grande paura.

Ma non lo disse a nessuno, quel che gli era successo in quella notte, con l'asino legato al cancello del cimitero, la luna, le nuvole e i fantasmi improvvisamente temuti.
Solo molti anni più avanti ne aveva parlato, da vecchio, quando ormai tutta la sua vita era stata spiegata, nessuno avrebbe più potuto dubitare e le prove date nel corso della lunga esistenza stavano lì a dire di che pasta fosse fatto Cristòlu.
Per lungo tempo il ricordo gli procurava un fastidio che cercava di vincere ridendo fra sé, ma gli suonava falso, quel riso.
Si era sentito come le povere femmine che pregavano Santu Fra' Nassiu e appendevano al collo dei figli le medagliette di latta con un cordoncino che il sudore e la polvere immediatamente sporcavano. Gente troppo ignorante e bigotta.
Le convinceva senza fatica la zelatrice del terz'ordine francescano che diffondeva immaginette e calendari di frate Indovino. O forse non convinceva nessuno, e soltanto sopportavano, lei e la sua religione, come cose innocue che costavano appena un soldo di elemosina.
Ma anche era, quello, un modo per racconsolarsi, quando la lista del debito nella lurida bottega di signora Lucia diveniva troppo lunga e i quadernetti bisunti apparivano come un incubo nelle meditazioni serali. Ancora non esisteva la televisione, per distrarsi un momento prima d'andare a dormire e il solo ristoro era pensare a Fra' Nassiu. Non si sa mai che sia vero.
A Cristòlu, però, non piaceva concedersi sciocche illusioni e preferiva affrontarla, la vita, di petto, così come faceva giorno per giorno nel suo lavoro, che era il primo, nelle cose da fare, e gli dovevano riconoscere i meriti anche i capoccioni con i quali trattava a fronte alta, quando sapeva d'avere ragione.
Sua era stata l'idea del sindacato e lo vedevano come il fumo negli occhi, il sindacato, quei democristani sempre aggrappati alle gonne dei monsignori. Ma non c'era stato niente da fare, mica lo potevano far guidare al vescovo, il D8.
E anzi s'era cavato un bel gusto e glielo aveva detto chiaro e tondo in faccia il giorno che lo avevano comandato nel terreno dei frati. Beneficenza la chiamavano: a lui invece non tornavano i conti di un mezzo dello Stato e di un conduttore messi a disposizione dei frati che volevano costruire e avevano bisogno di spianare la terra. Glielo aveva detto chiaro e tondo, come la pensava; crobu no pappa crobu e i dirigenti avevano voluto farlo comunque, il lavoro. Avevano mandato lui, che per formare un piano a perfetto livello non ce n'era un altro, e neppure bisognava distaccare un geometra che seguisse i lavori da terra. Una settimana aveva lavorato laggiù, con quello che costa il gasolio; tutto regalato dallo Stato alla santa religione. Quelli erano i tempi e bisognava accettarli con pazienza.
A mezzogiorno lo chiamavano, i frati, non volevano assolutamente che mangiasse il cibo portato nel cesto e gli offrivano ogni ben di Dio, che sono in relazione continua col Padreterno, e un prosciutto così, ma buono, neanche lo trovi in Villagrande. Per non parlare del vino che sembrava un liquore. Sulla preghiera prima del pasto avevano avuto pazienza, i padri: anche se non parlava un buon italiano glielo aveva fatto capire che tutti non siamo di una medesima religione e quelli non avevano ribattuto.
Però un'immaginetta gliela avevano voluta dare a tutti i costi, per portarla ai figli: c'era rimasta tanti anni, nel cassonetto degli attrezzi dove l'aveva riposta e alla fine quasi quasi gli era dispiaciuto quando l'aveva buttata via, sporca e scolorita che neanche si vedeva più la faccia del santo. Ma bonu, su binu!
Perché anche i frati non sono tutti uguali e quelli erano di una razza diversa da questo santo Fra' Nassiu che sembra uno di paese, povero come noi e vino non ne può regalare, tutt'al più ne riceve.

I frati erano simpatici a pochi, in paese.
E la terra ne portava le stimmate, nei campi riarsi, nei ruscelli che non venivano a valle e restavano come ferite aperte sotto il sole, d'estate. Pietre e non altro. Alberi stenti che il vento piegava, nella vana attesa dell'acqua.
- Che non piova mai più sul vostro paese.
La maledizione del frate.
Era giunto, un bel giorno, e nessuno avrebbe saputo dire da dove: all'improvviso comparso nell'aia in cui gli uomini trebbiavano fin dal mattino.
Luglio era caldo come è caldo da noi, con appena un poco di vento per far volare la pula e l'aria sembrava oscurarsi delle polveri e degli odori che la paglia compressa dal tramestìo liberava.
Giallo di riquadri appena messati, all'intorno, un'aria bollente che toglieva il respiro.
Era comparso quel frate.
I buoi andavano a coppie sul mucchio di spighe e nell'incedere grave concentravano ogni slancio vitale, pungolati a gran voce.
Uomini e buoi, con più lena quando sale il soffio del vento: allora bentulàre è prezioso.
Era comparso quel frate e aveva guardato i fazzoletti annodati sulle teste sudate:
- Grano ce n'è, buona gente, per i poveri frati?
Faceva caldo e la polvere graffiava la pelle:
- Frate, ce n'è per tutti, basta che lavori con noi.
Faceva caldo e il frate rideva mostrando la bisaccia ripiena a metà: che la sua strada era lunga e aveva premura di tornare al convento per le orazioni.
- Te lo darei io, il padre nostro - aveva detto un ragazzo, il figlio di Anacrèttu Pitziànti e un altro gli aveva risposto:
- E perché non glielo diamo, e unu gloria patri, in acciunta? -, questo doveva essere il figlio di Angiullèddu Cadòni, quello che chiamano Piòccu, di soprannome.
Detto fatto.
Come se fossero d'accordo quei due e qualche altro, con in pugno i mannelli del grano, a braccia tese avanzavano e il frate guardava l'insolita offerta che gli arrivava.
Guardava e si chiedeva il perché delle spighe anziché i grani già sciolti, e calcolava quanto ne sarebbe venuto, di grano, da quei gonfi manipoli che s'avanzavano.
- Frate, lo sai che le ariste pizzicano?
Gli veniva all'incontro un ventaglio di uomini che sembravano statue scolpite con i muscoli a ornare le braccia e il petto lucido di sudore, ma vivi per il sorriso dei denti bianchissimi che lampeggiavano sullo scuro del viso.
- Ce n'è anche per te prurito, frate. Sarebbe bello: a noi il prurito e a te il grano.
Il ventaglio pian piano si richiudeva attorno al frate:
- Cosa state facendo? - domandò che più non rideva:
- Labài chi custa esti sa bistimènta de Santu...
Ma la vestimenta già era stata sollevata scoprendo le sconce gambe del frate e le spighe ricolme di grano dentro la veste venivano versate come in un sacco. Poi il sacco fu rotolato per terra, in lungo e in largo nell'aia, sulle biche bruciate dal sole, nella polvere calda. In silenzio, senza che nessuno parlasse. Finché il frate riuscì a sottrarsi alla morsa e fuggì lasciando la bisaccia nell'aia.
Saltò il muro, traversò la strada, entrò nel campo di Luisìccu Bullètta, salì su una gran roccia che allora c'era e guardò verso l'aia.
I ragazzi erano fermi e ridevano.
- Ancu mai in sa vida ci tòrridi a proi in custa bidda.
Non possiate mai avere un raccolto di grano, in sconto dei vostri peccati.
L'avessero ucciso, quel frate.
Erano partiti di corsa, il figlio di ziu Anacrèttu Pitziànti e gli altri dietro per fargli rimangiare la maledizione.
Ma il frate, più veloce di loro, correndo con la veste tirata sopra le gambe.
- Non piova mai più su questo paese.
Dalle parole del frate è nata la maledizione che ha colpito la terra, il corso dei fiumi, le fonti in montagna, le nubi nel cielo, i venti contrari. L'avessero ucciso, quel frate, prima che la sua bocca potesse parlare.
Non c'è più piovuto, sul nostro paese e nessuno ancora l'ha dimenticato da dove è venuta la grande disgrazia che ogni anno ci vince.

Est unu contu antigu, e chi sa mai se sia vero.
Certo che l'acqua non viene come richiede la terra per i suoi bisogni.
Non sempre, però. Qualche anno, invece, ogni cosa al suo posto: la pioggia, il vento, il sole, tutto come si deve per un buon raccolto di grano.
A Cristòlu era capitato, quell'anno, e ancora lo ricordava, dopo molti decenni, com'era iniziata la sua fortuna.
- Anche se uno si sfianca per il lavoro, si Gesugristu non bòllit...
Ma Gesù Cristo aveva voluto, la volta, ed era stato l'anno che Cristòlu aveva comprato un'apisgèdda, per trasportare i sacchi del grano. Quelli che spettavano al padrone della terra e i suoi, gonfi che i legacci non li potevano tenere: messa da parte la provvista del pane ne era rimasto da vendere.
Con il ricavato prese la scrofetta che alla stagione seguente aveva allevato dieci porcetti, unu mellus de s'atru.

CAPITOLO SETTIMO
Stefano a mala pena arrivava alla pedaliera, quando imparò a condurre il motocarro. Poteva avere dieci anni, non più e Roberteddu ne aveva uno di meno. Ma gli uomini li comprendi da subito, se sai guardarli, come Cristòlu faceva, con attenzione, senza dire una sola parola.
Quel primogenito si rivelava per come sarebbe stato da grande, riflessivo e prudente, capace d'imparare a un cenno e di fare, con un gusto del lavoro finito che era un piacere vederlo.
D'altra parte Cristòlu non aveva alcun dubbio. L'avesse avuto più a lungo, suo padre, a dirgli dei modi giusti, e rapidi, per ottenere il risultato voluto!
Certo, aveva egualmente imparato, da solo, provando e riprovando, ragionando sul come e sul perché. Ma quanto tempo perduto. Era come essere il primo uomo del mondo e la sua conoscenza era cominciata da capo, quasi tutto fosse ancora da inventare. Aveva imparato: ma quanti inutili tentativi, quante amarezze ingoiate nelle necessarie sconfitte.
Un cammino spedito aveva intravisto nei pochi anni in cui aveva lavorato col padre, prima che la buon'anima scomparisse nel vento della guerra.
Gli bastava un'occhiata, una mezza parola:
- Fai questo; fallo così.
I figli devono andare oltre i padri. Devono essere più alti e più forti, devono capire di più e tutto ciò che i padri sanno, facilmente lo imparano, fortificandosi. Per poi proseguire da soli nel cammino delle personali scoperte.
Non che non avesse avuto maestri dai quali apprendere l'arte del fare, ma le conoscenze le aveva rubate osservando le mani che lavoravano senza che nessuno si fosse preoccupato di spingerlo avanti.
Non voleva che accadesse ai suoi figli.
Roberteddu così irruente e nervoso, indocile alla disciplina. Ce ne voleva di pazienza per vincere le sue impuntature e condurlo sulla strada tracciata, tolto alle tentazioni dei cammini tortuosi. E poi come la percorreva di carriera, la strada, meno finito del fratello maggiore, più pronto, però, sicuramente più generoso: destinato a ferirsi, quindi. Istèvini misurato e preciso ma di animo poco entusiasta.
Vedremo, quando saranno grandi.
Per il momento il motocarro; la prima, la seconda, la terza: piano, la frizione non è una zappa. E questa la strada, regolare e ben cilindrata in pianura: ma attenzione quando sale sul monte, sembra il letto di un fiume. Roberto le prendeva tutte, le pietre, Stèvini le pennellava con la ruota e la sua mano sembrava quella dell'orologiaio che il venerdì arrivava in paese e si fermava in piazza di chiesa per fare il lavoro davanti alla gente.
Nel cassone tutti gli attrezzi necessari, il picco e la pala, la sega e le roncole ben affilate.
Può essere niente l'aiuto di un ragazzino, eppure è gran cosa. Prova ad andare da solo per la provvista di legna, e vedi la differenza.
- Sa serra -: e subito arriva dal motocarro dove l'avevi lasciata.
- Dove sarà finita quell'accidente di roncola - ed eccola lì, la roncola, che avevi sotto i piedi e non la vedevi, raccolta da quelle schiene giovani, flessibili come oleandri.
- Limpia sa coma -: le fronde le affidi alle loro mani che devono formarsi provando i rametti leggeri.
Anche il boccone di pane è migliore, a mezzogiorno, più saporito.
E il tempo che stai seduto non ti sembra rubato al lavoro, come sarebbe se non avessi da spiegare la natura dei luoghi dove siamo, guardando il paese perché ritrovino un punto fermo di orientamento.
- Da quella parte si leva il sole.
- E dove si corica?
- Si corica in mare, dietro i monti, quando è stufo di vedere le tontità degli uomini.
- E quei monti?
- I Sette fratelli.
- C'è mai stato, babbo?
- A caccia grossa.
- Ce n'è anche qui, selvaggina?
- Anni prima di oggi, molta: conigli e pernici e lepri e cinghiali. Allora c'era da divertirsi, a caccia.
Conigli, pernici, lepri, cinghiali e margiàni: le storie di mrasgiàni li stupivano. Adesso conoscono la traccia e un bel giorno ne abbiamo seguito una fino alla tana. La mamma era andata a caccia ma c'erano i cuccioli e li volevano portare a casa.
- Lasciateli stare: mrasgiàni è farabutto e non si addomestica mai.
E gli uccelli, gli alberi, i cespugli, le erbe.
Le pietre.
Quanto abbiamo impiegato, noi, a conoscere ogni razza di pietra, le qualità e il venaggio, quelle che spaccano e quelle che sbriciolano, quelle che puoi impiegare e quelle che non servono a niente. Ne avremmo voluto avere fortuna, nella vita.
Certo, dottori non è possibile farli, per uno che a mala pena sa scrivere il nome e il cognome, ma tutto quello che appartiene al mondo dei campi e delle foreste, agli alberi e alla terra, come coltivarla secondo l'uso antico e le tecniche moderne, stai tranquillo che non hanno bisogno di andare all'università, per saperlo, i miei figli.

Gli pareva invincibile, a Istèvini e Roberteddu, come agli altri figli, del resto, quando vennero e quando incominciarono a capire, gli pareva invincibile quell'uomo.
Due uova e un bicchiere di vino nella cucina buia prima di giorno e dai lavorando otto ore per l'Ente; poi, di ritorno, nel proprio che cominciava a formare, terrenetti da niente come estensione, ma fondi e grassi, quali devono essere.
Sembrava invincibile sotto i sacchi di grano che portava in equilibrio sulla spalla, una mano premuta sui lombi a contenere la spinta. Cento chili ballerini nell'aria, dal motocarro fino al magazzino messo su con due pezzi di èternit.
E anche da vecchio, del resto, mica s'era fermato e continuava a chinarsi sotto il peso, solo un poco più lento, senza tirarsi indietro, quando c'era da fare.
Ne avremmo dovuta avere fortuna, in scambio della nostra fatica.
Anche se in fondo in fondo della sorte non c'è poi da lamentarsi troppo, quale l'abbiamo avuta, nei tempi nostri.
Ciò che fa rabbia è vedere la gente seduta nel bar, ben pasciuta e senza pensieri in testa, e gli altri, quelli che avevano avuto il bene di andare alla scuola e di trovare un posticino nello stato o nella regione, all'ombra. Quelli sì che l'hanno indovinata, perché questo è un mondo di carta: hai voglia a lavorare in campagna, acqua, vento, sole, caldo e freddo.
Ma a far bene i conti qualche soddisfazione se l'era cavata anche lui, considerando da dove era partito: anche i figli più piccoli se la ricordavano l'aria dei proprietarietti di un carro e d'un giogo di buoi, nei confronti del padre che non aveva se non le sue mani.
Però aveva visto giusto, e quando era stato il momento aveva scelto il futuro, comprando un motocarro.
Non si ha idea di quel che è possibile fare con un'apisgèdda da niente, un trasporto oggi, un trasporto domani e alla fine ti entra qualche lira in contante perché sempre ti accade di fare un lavoretto per altri, e così via.

La svolta, a ripensarci bene, era stata nell'idea della vigna.
Non ce n'erano più, in paese, di vigne, giovani, s'intende, perché qualche vecchio coltivava ancora, alla meno peggio, come possono fare i vecchi, risparmiando la fatica e le spese ma sapendo il fatto loro, in compenso.
Arrivavano a piedi, con la zappa sul collo, legata alla canna della bicicletta, i più fortunati.
Fondo per fondo, con quei colpettini di zappa passavano tutta la mattina ragionando:
- Vedrai che quest'anno non t'impigrisci come hai fatto l'anno scorso - e potavano con decisione per fargli portare meno tralcio e più frutto.
- Tu sei stanco di vivere come me: e cosa vuoi fare, la stabilisce Gesù Cristo l'ora della morte, per gli uomini come per le piante.
Passavano il tempo così, quei vecchi, in buona compagnia.
Meglio che al bar, nelle solite chiacchiere degli oziosi che forse avevano anche ragione.
- Non conviene più avere una vigna.
- Richiede troppo lavoro.
- Non ripaga la fatica.
E se ne stavano a bere nel bar.
Questo Cristòlu non l'aveva mai sopportato.
- Ancu si càlidi gutta, vagabondi scansafatiche e malandroni, buoni soltanto a criticare quelli che lavorano.
A lui, invece, la lingua non aveva mai fatto lo stesso servizio della testa: poche parole e molti pensieri, ma non campati in aria, ancorati alla terra, piuttosto.
E una ne aveva sognato, di terra, fin da quando, poco più che un bambino, se ne andava in giro cercando bisce sotto le pietre e cordolini nei campi.
Si trovavano, i funghi, in quel tempo, che ancora non muovevano a squadre dalla città, con le buste di plastica, senza sapere qual è il buono e il cattivo.
Né c'era molta strada, oltre le aie, per raggiungere i chiusi dove fare una buona raccolta.
Lì era vissuto maestro Gavino, su quella collina che profumava di menta e in basso il fiume scorreva, riu Corru 'e pruna, anche quando l'estate infuriava più calda. Anzi, era proprio il momento che laggiù si poteva trovare un'aria diversa da quella opprimente che gravava sopra il paese.
Specialmente alla sera saliva un profumo fresco che ristorava dell'arsura diurna.
Terre lasciate da lungo tempo incolte, pochi mandorli, un pero inselvatichito, i fiori dell'agnocasto quand'era stagione o quelli dell'acacia spinosa.
Glielo raccomandava la madre:
- Mi servono i rami dell'acacia spinuda -: li strappava, i più teneri, e glieli portava perché li avvolgesse con cura nei vasi delle fucsie che allevava in cortile, a scoraggiare i gatti del vicinato sempre in cerca di una terra soffice da smuovere con le zampe.
Acacia spinuda, sambuco e due grandi orcalitti sul greto del rio. I giunchi crescevano in quella terra profonda, alti che un uomo ci si poteva nascondere in mezzo.
Quella era terra. Un peccato, tenerla così, con quei quattro mandorli che continuavano a dare un po' di frutto, inutilmente.
Sembrava volerti fare un favore, il grossista, quando veniva a ritirare il prodotto già bello e pronto: faceva finta di non sapere quello che c'era voluto, alle donne, per sgusciare i mucchi profumati di mallo.
Tutto per poche lire. Non conveniva.
Eppure un altro sistema doveva pur esserci, se il mondo non è proprio rivoltato a fondo in su: se nessuno produce come si potrà andare avanti, comprando ogni cosa da fuori?
Così era nata l'idea della vigna e un bel giorno si era presentato al proprietario del fondo.
- Metà a ciascuno.
Avrebbe messo il lavoro, la barbatella, l'innesto e tutte le cure dovute fino all'attecchimento. Cinque anni: poi la vigna sarebbe stata divisa, metà per ciascuno.
- Però voglio l'atto.
- Per dare da mangiare al notaio?
- Perché ognuno deve sapere il suo: quello che è mio e su chi esti de sa vussignorìa.

Allora sì che gli era servito ciò che aveva imparato nei cantieri dell'Ente e anche lo avevano aiutato, i tecnici e i dottori in agraria, che in quel tempo ancora se ne trovavano di buoni e lo sapevano il fatto loro, non come questi di oggi, imboscati negli uffici che neanche sanno cos'è un campo di grano o una vigna.
E l'avevano aiutato i vignaiuoli che lavoravano nelle terre della riforma, gente speciale per coltivare la vite.
Una mano lava l'altra e tutti insieme gli ritornavano i favori che aveva prestato nel corso degli anni, senza tirarsi mai indietro se uno gli chiedeva una commissione in paese, lui che viaggiava tutti i giorni, o un carico da fare col motocarro o qualunque altra cosa.
Perché serve una squadra, per non spaventarsi davanti alla terra, e uno dice una parola, un altro una barzelletta, neppure te ne accorgi e il lavoro è bell'e finito.
Lavoro fatto con cura, secondo le regole, a cominciare dallo scasso profondo.
Bisognava vederla quella terra scura che il vomere girava dal fondo: una farina, morbida e sciolta.
Ma per spietrare, ce n'era voluta fatica. E mani. Uomini e donne, i figli e le figlie, dalla mattina fino a che era buio completo e solo biancheggiavano chiari i mucchi formati con i ciottoli raccolti.
- E mistu Gavinu, solo solo a raccogliere pietre.
- Altri tempi.
Già, altri tempi, però la razza era sempre la stessa, dura e cocciuta, che quando aveva un'idea non la lasciava cadere se non raggiungeva lo scopo.
- Cosa ne fai del ciottolame?
- Può servire.
- Non vedo come.
- Perché non guardi oltre il naso.
A lui piaceva guardare lontano e conosceva il disegno completo della terra che doveva giorno dopo giorno conquistare e delle opere necessarie per farlo. Perciò lo sapeva che quelle pietre sarebbero servite, tutte, il giorno che avesse potuto scavare un pozzo: dopo averlo intubato le avrebbe versate giro giro, come facevano gli antichi, per non ostruire i venaggi dell'acqua e farla scorrere abbondante e pulita.
Ma non lo diceva, il suo disegno per il futuro, che lo avrebbero preso per matto. Anzi già lo prendevano, a causa di tutta la terra sprecata con i filari larghi che aveva tracciato e anche il padrone del campo si era adirato perché così avrebbe dato l'estensione che avevano pattuito ma in cambio gli sarebbero venuti meno ceppi di vigna.
- Burrìccu tontu.
Non lo comprende che non le possiamo star dietro, a una vigna grande come questa, con il giogo di vacche che si usava anticamente, oggi che ci sono i trattori e in unu patt' e fillu il filare è arato. Ma a un trattore, glielo devi o non glielo devi lasciare il posto per le ruote e, nelle testate della vigna, lo spazio che serve per girare?
Asini tonti che vedono soltanto il loro naso.

CAPITOLO OTTAVO
La vigna non aveva ancora compiuto un anno, appena ristorata la spesa della barbatella, e Cristòlu si presentò al venditore di trattori.
Un mezzo usato, non troppo vecchio, tanti cavalli, così e così.
- Abbiamo quello che serve.
Trentasei rate a cominciare dal prossimo mese.
Ritornando in corriera al paese pensava che sarebbe stata dura ma ce l'avrebbe fatta a pagare. E pregustava il piacere di guidare il mezzo nel suo, dopo tante ore passate a condurre nei terreni dell'Ente.

Ce n'erano stati altri, trattori, in paese. Forse migliori di quello che non nutriva troppi cavalli, dentro la carrozzeria già un po' rugginosa.
Anzi, a dire il vero, la gente ricordava benissimo il primo che era arrivato, il bestione montato sui cingoli che aveva comprato ziu Anacrèttu e lo guidava suo figlio Giuanni con più boria che abilità.
Prima ancora era arrivata una trebbia e lo sferragliare e il fumo della ciminiera avevano portato un tono nuovo nell'aia, con la cinghia che vorticava e povero chi ci avesse lasciato le mani.
Poveri i buoi che un mese lo passavano calpestando le spighe di grano per fare quello che la macchina riusciva a trebbiare in un paio di giorni.
Gi' ‘nd'imbènta su furistèri.
Eh, ma per arare è un altro paio di maniche e l'aratro meccanico scende troppo in profondo per le nostre terre superficiali e gira anche lo sterile che sta sotto. Così gli pareva a quelli che temevano qualsiasi novità. Poi era arrivato il trattore di ziu Anacrèttu, e ne volevi vedere di terra girata, nera però, e anche quel po' di sterile che veniva a galla lo trituravi pian piano: dai oggi e dai domani spariva. E il grano cresceva come non si era mai visto, senza bisogno di fiaccarsi la schiena zappando.
Gente intraprendente, nella famiglia di ziu Anacrèttu, ma troppo orgogliosa. Soprattutto Giuanni, con tutta la sua boria,
quando poi, a pensarci bene, non ci aveva alcun merito, e se non fosse stato per il vecchio avrebbe avuto assai poco da fare.
Però lo ascoltavano il brontolio del motore in sa tanca Soliàna, avanti e indietro tutto il giorno, con quello aggrappato alle leve che avrebbero voluto impugnare, ma neppure si avvicinavano per non dargli soddisfazione.
Con Cristòlu fu tutto diverso.
Anche lui, si capisce, aveva un caratterino, però se andava orgoglioso aveva pure ragione che era partito con le pezze al fondo dei calzoni, e ancora ce le aveva, le pezze, ma il suo l'aveva costruito senza dimenticare da dove era partito.
Primi furono i vecchi a scendere alla vigna nuova quando il trattore cominciò le arature. Cristòlu fermava la macchina e saltava giù per salutare mentre il motore borbottava tranquillo in mezzo al filare.
- Non ne consuma, di nafta, stando così acceso?
- Non c'è da preoccuparsene.
E gli chiedevano spiegazioni come fanno i vecchi che sanno il passato e vogliono capire le cose moderne, senza sbilanciarsi troppo ma con interesse.
Con loro se la ragionava pacatamente, Cristòlu, confrontando gli usi del tempo andato con quelli di oggi e insieme vedevano come fosse possibile migliorare senza perdere le virtù consolidate negli anni e senza rinunciare al progresso.
- Ora me ne vado che tu hai da fare.
- Non si preoccupi.
E dialogavano fitto con le parole antiche che Cristòlu aveva imparato quando lavorava assieme a ziu Ellìggiu e molti giovani neppure le conoscevano.
Con i coetanei era più brusco e li rimproverava aspramente:
- Oggi non è più possibile vivere come nei tempi antichi -, ed erano formidabili litigi con quelli furiosamente attaccati a un passato che neppure conoscevano bene.
- Per fortuna ci sei tu che sai ogni cosa.
- So quello che so, non altro.
- Perché hai avuto la fortuna di fare la scuola nel cantiere dell'Ente.
- Ancu ti càlidi gutta. Adesso la chiami fortuna: non l'avresti chiamata così quando uscivo prima dell'alba e tornavo la settimana dopo, a buio completo, giorni e giorni buttato fuori di casa, e avevo già un figlio. Cosa facevi, tu, allora? Te lo dico io, cosa facevi: stavi rintanato vicino al caminetto, altro che storie.
La finivano a urla che si sentivano fino in paese.
- Cristòlu è prepotente - commentavano a sera sulla piazza di chiesa.
- Già.
- Ma per lavorare è imbattibile.
Su questo non si discuteva, e neanche sul fatto che un piacere lo faceva senza farsi pregare.
- Vorrei arare un po' di fave.
- È il momento giusto.
- Me lo faresti un solco con il trattore?
- Te lo faccio domenica.
È che quando arrivava nel fondo non si accontentava di fare tutti i solchi necessari e arava l'intera mattina rimettendoci il gasolio di tasca, ma poi voleva dire la sua sulla disposizione delle piante, sul modo in cui erano state curate, e gli innesti, e le potature e ogni altra cosa, che niente gli piaceva.
Questi innesti nel filare dell'uva: intanto, non per dire, ogni piccolo ceppo ricoperto dal suo monticello di terra deve essere segnato con due cannette incrociate, per ritrovarlo a colpo d'occhio, guardando il filare, e impedire che distrattamente passando un piede o un colpo di zappa rovescino la gemma da poco introdotta nella madre selvatica per modificarne la natura.
E passi. Ma quel modo di lasciare la terra che la pioggia aveva indurito fino a formare una cappa dura, una crosta difficilmente perforabile dal tenero germoglio, è veramente una colpa.
È necessario zappare gli innesti, altrimenti la gemma si accartoccia.

Da noi non è come in Campidano che si vendemmia in ottobre, sia a Senorbì, sia a Nuràminis, sia a Lunamatròna, sia a Sanlùri o in qualunque altro posto.
Da noi quando comincia settembre l'uva è già fatta, che il nostro sole risente della costa africana e anche noi siamo un po' di razza tunisina.
Grappoli non proprio formati, nei primi anni di raccolta e non ancora dolci come devono essere, a mano a mano che l'innesto vince l'aspro del ceppo americano su cui è stato impiantato, ma già grappoli che sono una bellezza, splendenti sui tralci.
Uno spettacolo la vigna indorata dal sole che si leva, uno spettacolo la gente che si mette al lavoro: era dai tempi di Todde che non vedevamo una squadra così. Ma quelli erano schiavi, questi uomini liberi che vengono a restituire una giornata di lavoro e i figli e le figlie, i cognati, gli amici.
Quell'anno era rientrato Danièlli, il cognato, che tanti anni li aveva passati emigrato, in Piemonte e in Francia e da allora ha sempre parlato la nostra lingua all'uso di paese, ma se deve parlare italiano è piemontese schietto, piuttosto, con un po' di parole francesi. E vorrei anche vedere, che ci ha fatto venticinque anni, è partito bambino analfabeta completo e se l'è dovuta sudare la vita, un po' manovale, un po' muratore, un po' scalpellino: quello che si trovava, in Piemonte e in Francia, saltando da una parte e dall'altra dei monti che non sono come questi di qui. E freddo! Non ne abbiamo un'idea, noi, del freddo che fa in quegli accidenti di luoghi.
Venticinque anni. Lì si era anche sposato, ma con una di paese, però, e gli erano nati tre figli, con la suocera pronta a partire ogni volta, una donna che ancora portava il fazzoletto in testa e non capiva una parola di quelle che dicevano gli stranieri. E però ci arrivava, a Bussolèno o a Chambéry o dovunque altro il genero lavorava.
Ma non c'era riuscita a fargli mettere nomi cristiani, ai figli, come quelli dei nonni, e quasi non ci riusciva neppure a chiamarli che uno faceva Vladimiro, l'altro Gian Luca e la femminuccia Guendalina. Scurèdda.
Mica uno scherzo tirarli su tutti e tre in quei posti dove lo stipendio non è gran cosa, e soprattutto non ti puoi arrangiare come facciamo noi, un'oretta qui una lì, alla sera, dopo il lavoro, e alla fine tutto torna di beneficio, così da non dover comprare sempre quello che mangi ma un po' di verdura o la carne, un porcetto a Natale e un bidone di vino li recuperi in fretta.
Eh, anche Danièlli se l'è sudata la vita. Ma uomo allegro come quello! Basta la sua sola presenza per mettere buon umore a tutta la compagnia e a sentirlo raccontare, poi, una storia appresso all'altra, molte capitate a lui, molte a altri, molte inventate. Vera di sicuro era quella del finanziere che l'aveva fermato in frontiera mentre stava entrando in Italia con un'enorme valigia.
In quel tempo se n'era andato dal Piemonte in Francia, senza la moglie, per vedere se fosse possibile sistemarsi in qualche maniera dopo che a Bussolèno avevano chiuso il cantiere.
Lì aveva trovato un fratello che veniva da Marsiglia dove aveva lavorato per anni e poi si era licenziato: era giovane e non aveva famiglia, un po' matto e gli piaceva fare quello che gli passava per la testa.
Insieme li avevano presi, Giuànni e Danièlli, in una ditta che lavorava nell'edilizia e il lavoro sembrava sicuro tanto che alla fine aveva chiamato la moglie, per non potersi vedere più solo buttato la sera in una baracchetta del cantiere, mentre invece il fratello se ne andava in giro per divertirsi e tutto quello che guadagnava lo consumava con buona salute e allegria.
E Danièlli non spendeva una lira. Poi aveva trovato una casetta, aveva chiamato la moglie e organizzato il trasferimento.
Basta. Prende un giorno di ferie assieme al fratello e partono con una grande valigia vuota: dentro ci aveva messo altre valigie per caricare le cose sue a Bussolèno. Arrivano in frontiera e la guardia li ferma.
- Cosa avete dentro la valigia?
- Una valigia.
Il finanziere era uno di quei tonti primitivi del Veneto o di qualche altro luogo simile e gli sembrava di non essersi spiegato.
- Cosa c'è dentro la valigia?
- Una valigia.
Aveva incominciato a pensare che lo stessero prendendo in giro, e si era arrabbiato.
- Ho chiesto cosa c'è dentro la valigia.
- E io ti ho detto: una valigia - e gli aveva aggiunto una mala parola, tanto non poteva capire.
Allora quello aveva aperto di malagrazia la valigia e aveva trovato un'altra valigia.
- Cosa c'è dentro questa valigia?
- Una valigia.
Uhm, madonna, bisognava vederlo, rosso come un tacchino: le aveva aperte tutte e sempre trovava valigie, e l'ultima era vuota. Allora aveva pensato che lo avessero fatto apposta per prenderlo in giro e li voleva arrestare: non era possibile spiegargli come stavano le cose perché non si capivano e a Danièlli scappava da ridere.
Ma la storia è bella raccontata da lui, a modo suo, mezzo in italiano e mezzo francese.
- Di', o Danièlli, e il fatto di quell'uomo che hai incontrato al mare?
- Zitto che ci sono le donne.
- Eh, non sono più quei tempi: oggi ne sanno più di noi.
Allora Danièlli aveva cominciato a raccontare della volta che era tornato in paese, per la festa di Santa Maria, che anche Guendalina in realtà si chiamava Maria Guendalina, come era scritto nelle carte del municipio francese, ed erano andati tutti quanti per una picchettata agli scogli di Santo Stefano.
Era proprio il giorno di Santa Maria, nel 1961, anni prima di oggi; in quella data non c'era ancora il turismo e tutte le porcherie che siamo abituati a vedere. Una bella compagnia per pranzare in riva al mare, con le coperte sollevate sui bastoni a fare riparo dal sole, e sa pezza ‘e porceddu imbussàda in folla de murta, tutti vestiti con scarpe e calze come si usava anche al mare.
Noi bagni non ne facevamo troppi e tutt'al più prendevamo un po' di fresco seduti nell'ombra.
Fatto sta che le donne cominciano a sistemare le cose e i bambini a correre intorno.
Vladimiro ritorna di corsa:
- O ba' c'è un uomo nudo.
- Prendiamo e partiamo, io, Crescènziu e Buìccu Crabbòni. Dietro uno scoglio un uomo adulto, uno straniero, passeggiava nudo con tutta la sua roba penzolante davanti.
Cristòlu rideva mordendo un fazzoletto colore di terra:
- E allora?
A Danièlli ancora lo sdegno spezzava la voce facendolo balbettare:
- Ne avreste vo...voluto ve...dere pietre che vo...volavano -, e i giovani a ridere con malizia di quell'antica ingenuità:
- Pietre?
- Caròngius e pedrigònis e trunchèddus de linna. Cosa dite che ha cominciato a scappare?
Aveva raccolto i vestiti ed era fuggito senza neanche girarsi, lo straniero, saltando sugli scogli come un capro, veloce che non aveva lasciato neanche l'impronta.

Ridevano.
Poi Cristòlu aveva ripreso sornione:
- Altri tempi. Al giorno d'oggi non ci sarebbero pietre sufficienti per tutti quelli che troviamo sulla riva del mare, nudi, uomini e donne senza vergogna.
Il riso vinceva nella voce la disapprovazione:
- Cosa ne dici, Istèvini?
E Stefano s'era confuso, chiamato in causa in mezzo a tanta gente e la sua pelle chiara sembrava diventare di porpora. Ma gli occhi scurissimi scintillavano di malizia.
I fratelli incalzavano:
- Raccontagliela, a ziu Danièlli, la faccenda della francese.
Così, a pezzi e bocconi, era venuta fuori la storia della ragazza francese che una sera gli aveva detto - je t'aime... -: lui pensando a una canzonetta famosa che continuava - moi non plus -, quasi quella gli avesse voluto dire che la canzone le piaceva, aveva ingenuamente assentito: - anche io.
- E quella mi aveva abbracciato...
Aveva bruscamente interrotto il racconto e assunto un contegno virile e brusco, come dev'essere quello d'un uomo che richiama ciascuno al proprio dovere:
- Forza che dobbiamo lavorare - e le forbici avevano cominciato a risuonare nella vigna.

Anni prima di oggi. Ne abbiamo visto, poi, francesi, inglesi, tedesche, americane, femmine di ogni parte del mondo, al paese nostro, nude nel sole.

CAPITOLO NONO
A periodi alterni, nelle varie stagioni dell'anno, la vigna riceveva gli uomini e le donne che giungevano per i lavori.
A novembre e dicembre per zappare e per la potatura, a gennaio per gli innesti che era necessario riprendere, in primavera per le zappature leggere e per scerpare i getti che venivano alti, troppa legna inutile che avrebbe sottratto sostanza al grappolo. Poi era il tempo dello zolfo e bisognava arrivare assai prima del sole, nelle giornate quiete di vento, e lavorare spandendo la polvere gialla, vagamente ramata, attenti a proteggere gli occhi che comunque piangevano.
Quando il sole sorgeva e montava nel cielo bisognava rinchiudersi in casa per evitare il bruciore. E restare tappati l'intera giornata, al buio, distesi sul letto con le pupille coperte da una pezzuola bagnata. I più coraggiosi si lavavano il volto con l'acqua mischiata all'aceto, a occhi aperti, in modo da togliere ogni residuo celato sotto le palpebre.
Il bruciore durava solo un momento ma ci voleva coraggio.

In seguito hanno inventato le irroratrici mosse dalla presa di forza del trattore e in mezz'ora si passa un ettaro di terra, come se niente fosse.
La testa celata in un casco uguale a quelli degli astronauti.

Ma per la vendemmia è una vita speciale. Uomini e donne, una squadra, per chi può pagarla o chi sa organizzarla.
Come una festa, ma di quelle che ti lasciano stanco, alla fine e l'indomani è difficile levarsi dal letto. Bisogna farlo, però, che non si è mai vista una vendemmia cominciata e finita nello stesso giorno. Sarebbe una ben misera vigna.
Avevano cominciato tutti assieme, uomini e donne una quindicina, come un pettine che passa attraverso i filari sfiorando i tralci protesi e si ferma sui ceppi nodosi per spogliarli pian piano dei grappoli. Due per filare, uno da una parte e uno dall'altra, in mezzo il secchio che si riempie e alla fine bisogna portarlo fino al carrello fermo nella testata, cento metri più in là. A turno, perché il carico è greve, aicci sempri pràsgiada a Gesugristu, e la terra sfarina sotto il passo o t'inciampa, nei punti argillosi.
Alle volte s'incontrano, un uomo e una donna attorno allo stesso filare e allora è l'uomo che fa l'andata e il ritorno, con i muscoli lucenti di sole.
Avevano cominciato dal punto più lontano della vigna, dove cresce il ciuffo di canne che s'abbevera nel greto del fiume.
È una fortuna, questo rio che discende e un tempo scorreva anche d'agosto, quanto meno restava un po' d'acqua, immobile nelle grandi pozze in cui nuotavano i girini che volevano diventare rane, o rospi, così come diceva la loro natura, per cantare alla fine dell'estate immersi nell'aria profumata di menta.
Venivano qui a lavare i panni, nell'era antica quando l'acqua non esisteva ancora nelle case, meno che meno le lavatrici: beate le donne, in quel tempo. Ma stiamo parlando di cose che nessuno dei ragazzi chinati sui tralci ha mai conosciuto e appena appena hanno saputo la storia di zia Clarìzia, avvenuta più o meno in questi paraggi.
Oddio, adesso acqua non ce n'è più, d'estate, e poca d'inverno, salvo che non arrivi una grande tempesta, come è accaduto quando il rio Corru 'e pruna si è portato via mezzo terreno già bello e bonificato e ha lasciato un lenzuolo di pietre, lucide e bianche che non se ne ha un'idea. Tutto lavoro in più, e spese, per ricostituire la terra con un nuovo strato vegetale scaricato dai camion.
Ma anche questo troppo poca cosa, rispetto a quanto avveniva in passato: ancora ci ricordiamo l'alluvione del 1953, quando era sceso il rio Niu 'e crobu che è raro si muova, ma la volta era venuto giù con un bagaglio d'acqua che aveva sfondato l'argine in sa bingia manna de Toddi. Aveva diviso in due parti la tanca scavando un canale che era una disperazione solo a vederlo. Così succede quando si lascia la terra abbandonata.
Eh, ma è meglio non dirlo neanche, che quando gli viene in mente di piovere, anche se l'uomo ha fatto il suo dovere, nessuno può dire se gli argini saranno in grado di tenere come vogliamo, come abbiamo previsto e sperato. Questo già è vero, e dobbiamo solo augurarci di non capitare mai in quelle situazioni.
Avevano affrontato tutti assieme la vigna che quell'anno portava grappoli ancora giovani ma belli e splendenti come biglie di vetro. Grappoli dorati di vermentino.
Dice che non ci fa, al paese nostro, il vermentino.
- Chi lo dice?
I dottori della regione. Dicono che qui ci può fare cannonau e barberone, o monica, ma non vermentino.
- Così diventino ciechi e non possano più vedere questa ricchezza.
Eh, altro che ciechi, quelli il vermentino se lo trovano alla sera bello fresco sul tavolo, senza dire né a né ba, e senza sapere di mani ghiacciate nelle mattine d'inverno, di schiena spezzata, di fatica sudata, di un accidente di vita passata a zappare in campagna. Ce l'hanno avuta la vista buona, invece, per trovare il posto migliore, al caldo d'inverno, al fresco d'estate, senza troppa fatica, tanto chi paga è pantalone.
- E quando vengono qui, per una perizia o per altro, se non sentono odore di porcetto arrosto, di sicuro si lamentano. E aspettali, allora, quei soldini che ci devono dare.
Grappoli color d'oro splendenti sospesi ai fili di ferro tesati a regola d'arte da un palo all'altro, o scuri e infrascati in mezzo ai pampini verdi. Viene da passare la mano sui chicchi che sembrano voler scoppiare tanto sono gonfi di succo.
- Saranno duemila litri, quest'anno.
Per cominciare va bene, ma forte, però, perché questo non è vino di cantina e ce lo dobbiamo bere noi, con salute, che ce lo siamo lavorato senza risparmio.
C'erano ceppi che da soli riempivano un secchio e quelli che ci arrivavano sopra lavoravano sudando e sbuffando mentre gli altri avanzavano veloci e li deridevano per la loro lentezza.
A metà mattina Cristòlu era andato verso la fattoria che cominciava a crescere di magazzini, locale per gli attrezzi e porcilaia.
L'aveva costruita attorno al vecchio ulivo: all'inizio l'albero era stato l'unico riparo, poi una tettoia, poi un'altra, i tramezzi a collegare i pilastri, insomma, come è possibile fare quando la tasca è quella che è.
Da lassù si girava a guardare la vigna e tutta la gente che lavorava, i figli e le figlie, i cognati, gli amici, le bianche camicie degli uomini, i colori delle donne, più vivi di azzurro e di rosso a fare contrasto con lo smeraldo dei pampini.
Una festa.
- Voi non la pensate così, porcetti? -: e cosa potevano pensare, puliti com'erano stati dopo la morte cruenta, bianchi quali apparivano, appesi ai chiodi della tettoia sotto la quale li aveva lavati, la sera prima, nell'acqua bollente?
Con rapidi tocchi aveva ravvivato la fiamma, aggiunto un ciocco da un lato, sparse le braci sulle quali doveva sistemare gli spiedi.
- State qui e cominciate a scaldarvi -, e s'era avvicinato alla botte per spillare un bicchiere di vino, conforto e viatico dell'uomo che arrostisce seduto accanto alla brace.
Intorno all'ulivo l'avrebbe costruita, la cantina, per mettere le botti in un posto più adatto di quello dove stavano ora che prendevano caldo, e così non va bene.
La chioma sarebbe restata, alta sopra la tettoia di èternit, per dare fresco con la sua ombra e le botti giro giro disposte, ai piedi del tronco che due uomini non lo abbracciavano.
Sembrava quasi impossibile, eppure il vino fatto quaggiù era molto migliore di quello che veniva conservato in paese. Doveva essere l'aria, più aperta e più sana; difficile trovare una giornata di caldo afoso dalla mattina alla sera e anche d'estate quando veniva buio sentivi almeno un filo di vento.

Solo a tratti giungevano le voci degli uomini e delle donne impegnati nella vendemmia. Per il resto silenzio. La giornata era tersa come sa esserlo di settembre, con un cielo africano che sembra scoppiare d'azzurro e qualche nuvola bianca a contrasto, inutile, se pensiamo alla pioggia, ma bella.
Povero l'agricoltore che non ha tempo di guardare la bellezza del cielo, né voglia di raddrizzare la schiena piegata verso la terra. Quella è una guerra, o piuttosto lo era, al tempo della schiavitudine. Quand'era ragazzo lui un operaio non si poteva permettere di staccare dal filare neanche il tempo di fumare una sigaretta e il padrone non voleva che gli uomini parlassero, impegnati nella potatura o nella zappatura dei ceppi. Bisognava averlo provato, per sapere cos'era, altro che storie. I giovani, adesso, neanche se ne formano un'idea, e a loro sembra tutto naturale, i capelli lavati alla sera, la camicia elegante e il pacchetto delle marlboro. A dirglielo non ci avrebbero creduto, o avrebbero pensato a un luogo lontano e a un'età perduta nel tempo passato, molti anni prima.
Invece Cristòlu li ricordava benissimo, quei giorni, e anche i fichi degli schiavi ricordava, piccoli e neri, pieni di semi, che i buoni se li mangiava il padrone, e a chi lavorava in ricompensa gli toccava pigliare un cesto di quelli, se gli andava, altrimenti a spasso, a contare le ore come meglio credeva. Così erano i padroni.
Ma il giorno che suo padre si era presentato a mani vuote al padrone grande, senza una lira per la pastura di P., quello l'aveva guardato e gli aveva detto che non gli cercava nulla, che lo sapeva com'era andata l'annata, peggio che ci fossero passate le cavallette, e le pecore erano morte una dopo l'altra lasciandoli col sedere per terra e i conti da pagare.
Coda d'acciaio, lo chiamavamo, che sapeva il fatto suo e rideva poco, quello, e anche parole non ne gettava inutilmente a destra e a manca. Ma uomo, però, non un vigliacco. E gli aveva battuto la mano sulla spalla, per consolarsi l'uno con l'altro dello scherzo che aveva fatto il Padreterno.
Non l'aveva mai dimenticato, quel fatto, e sempre lo raccontava a suo figlio, per fargli capire che non bisogna ragionare all'ingrosso e gli uomini sono come gli alberi, uno dritto e uno storto, uno alto e uno basso, uno capace di dare frutti e l'altro sterile come una pietra bruciata dal sole. Così è la vita, e bisogna stare molto attenti, per capirla, altrimenti si confondono le cose e al buio le orecchie d'un asino possono sembrare un pericoloso fantasma.
Porco mondo, gli sarebbe piaciuto averlo avuto più a lungo, suo padre, perché il padre è uno che ha impiegato la vita per capire le cose e poi le racconta senza farle pagare, ai figli, e loro risparmiano di fare una strada già percorsa, partono dal punto dove quello è arrivato e possono andare molto più avanti.
Così la pensava. Ne aveva avuto poco di tempo, per sollevarsi a guardare il cielo e se l'aveva guardato era solo per vedere come marcava il tempo. Istèvini, Roberteddu e tutti gli altri li dovevano guardare, invece, il cielo, il mare e la terra tutto intorno, perché si capisce ben poco con lo sguardo sempre rivolto alla stessa zolla e gli occhi bruciati dal sudore che ci piove dentro.
Il più piccolo l'avrebbe voluto mandare a scuola, anche se gli veniva da ridere pensando a uno della sua razza in cerca di sostituire picco e pala cun pinna e tinteri.
L'importante però è essere uomini, e questo non lo si impara nella scuola o nell'università: ne conosceva gente laureata che era peggio di un asino allevato in campagna, e certo non gliela poteva insegnare lui la letteratura, a suo figlio, che non ne sapeva una cipolla, ma per essere uomo qualche cosa gliela poteva dire, e anche toccarli col bastone, per raddrizzarli, come faceva con le giovani piante che da sole non riescono a venir su diritte.

Si levò dal tronco che usava come sgabello, spillò un boccale dalla botte e cominciò a versarlo sui porcetti che cuocevano sfrigolando. L'aria si tinse dell'odore di carni profumate dal vino.

Quando le braci smorivano sotto l'arrosto ormai pronto, era arrivato Gavino con un sacco pieno di ricci raccolti nel fondo del mare subito fuori dalla Fortezza vecchia.
Le forbici già le avevano piantate di punta nel palo della tettoia e le vespe ronzavano in cerca dello zuccherino rimasto. Ma anche volavano sui gusci dei ricci che Gavino rompeva: non erano pieni, in quella stagione, ma saporiti sì, con quel gusto di mare che ubriaca.
Ubriaco per ubriaco ziu Danièlli diceva che preferiva bere il vino della botte grande e senza tanti complimenti ne aveva scolato un intero boccale, sarà stato più di un litro, senza neanche respirare, alla fine aveva schioccato la lingua e s'era seduto di fronte alla tavola ornata con rami di mirto.
Cristòlu tagliava la carne e la deponeva sul mirto, spolverata di sale come doveva essere per fare le cose per bene e quelli mangiavano con l'appetito della gioventù, ma a dire il vero anche i vecchi facevano la parte loro.
Ce ne volle, prima di sentire una parola: quando cominciarono, però, riguadagnarono il tempo perduto che il vino scioglieva le lingue e faceva gli occhi splendenti. Le donne ridevano e si alzavano, ora l'una ora l'altra per portare il formaggio o il gattò conservato nella teglia coperta da una tovaglia bianca.
Alla più giovane spettò l'onore di accendere la fiamma sotto la caffettiera già pronta, alta che sembrava un monumento appoggiato sopra il fornello.
Ohi ohi alzarsi per ricominciare il lavoro, sotto quel sole del pomeriggio che batteva i suoi colpi senza stancarsi, ma forse ancora un momento si poteva restare seduti all'ombra della tettoia fumando una sigaretta e parlando.
Vecchie storie mille volte sentite che ritornavano nuove e ogni volta s'accrescevano di particolari diversi: i ragazzi ridevano dandosi forti manate sulle cosce, i vecchi stavano composti ma gli brillavano gli occhi e si capiva che avrebbero voluto ridere anche loro a gola spiegata.
Istèvini aveva visto passare Arraffièli nella piazza di chiesa.
- Ma non è in Germania?
- Dev'essere tornato in vacanza.
- Arraffièli non è mai stato del tutto a posto di testa.
- Però in Germania gli vogliono bene e quando torna è sempre tutto pulito.
Altra cosa quand'era partito. Allora in paese c'era fame, ma fame davvero anche per quelli abili, immaginiamoci un po' per Arraffièli che campava la vita come poteva, aggiustandosi come manovale sotto qualunque padrone.
Per lavorare, però, non c'era l'eguale. Certo, dovevi seguirlo passo per passo, che se gli chiedevi di zappare un giardino era capace di tirare anche le piante, ma con uno che gli dicesse dove battere la zappa non c'era l'eguale.
Boìccu Cadòni si era messo in testa di sfiancarlo: così un bel giorno gli aveva comandato un lavoro in una sua tanca.
- Guarda che devi lavorare moltissimo.
- Sissi.
Gli aveva dato un picco e una pala per scavare la traccia di una condotta per l'acqua. Saranno stati cento metri in un terreno così duro che il picco faceva scintille a ogni colpo.
- E quando ho finito, cosa devo fare?
- Per adesso fa' questo - aveva risposto ridendosela della semplicità di quello - poi vedremo - e si era disteso tranquillo sopra un gran mucchio di terra, senza camicia, per godersi il sole d'agosto. Quello a zappare nel sole e l'altro coricato. Basta, a Boìccu vien sonno e si addormenta, Arraffièli continua a scavare. Nel primo pomeriggio Boìccu si sveglia. Lo scavo era appena finito e Arraffièli stava riponendo con cura gli attrezzi, fresco come si fosse alzato dal letto in quello stesso momento.
- A Boìccu pizzicava la pelle perché il sole l'aveva completamente bruciato e gli ha fatto male per una settimana intera.
- Ma Arraffièli non si era gettato dal tetto?
- Ma quale gettato, era partito a cercare il fratello.
- A circai su fradi?
Il fratello in quel tempo era in Africa, richiamato, e magari proprio allora era diventato fascista che in guerra si era divertito e comunque gli era sembrato meglio che stare in paese.
Fidèlli era in guerra e Arraffièli in paese, a campare la vita come poteva. E quello faceva sapere che in Africa non si stava poi male e gli arabi erano brava gente, non troppo più scuri di noi, solo un po' fanatici di religione, che ad esempio in chiesa c'entravano tutti quanti senza le scarpe e stavano inginocchiati con le facce appoggiate per terra. E le scarpe ordinate all'ingresso, tutte quante in fila come fossero soldati, in modo che ognuno potesse trovare le sue quando finiva la preghiera. Gente troppo superstiziosa, ma ordinata, che in Italia non ce lo immaginiamo neanche. Quelli a pregare, e le scarpe ordinate all'ingresso.
Fino a quando non arrivava Fidèlli e si divertiva a mischiarle, quelle che erano da una parte finivano dall'altra e nessuna aveva più la compagna.
- Doveva essere uno spettacolo da vedere, gli arabi che cercavano le scarpe, a urla e parolacce nella loro lingua.
Non si stava male, in Africa, e Arraffièli aveva nostalgia del fratello.
Così, un giorno che stava lavorando da manovale per costruire una casa ed erano già arrivati alla copertura, aveva disposto un tavolone lungo lungo, mezzo posato sul tetto e mezzo proteso nel vuoto.
Sul tavolone era salito e a gran cenni aveva salutato quelli che stavano dabbasso:
- Adiòsu, me ne vado da Fidèlli -, e aveva cominciato a correre finché il tavolone s'era ribaltato, facendolo precipitare per terra.
- Cosa gli era successo?
- Nulla. Era peggio di un gatto.
Si era rialzato e gli era andata bene che il padrone non gli aveva fatto pagare il tavolone come se fosse stato nuovo.
Anni dopo si era trasferito in Germania, guardiano in una villa e gli volevano bene, magro magro e nero com'è ancora che non ha un solo capello bianco nonostante cominci ad avere la sua età. Gli vogliono bene i padroni e una volta sono anche venuti in paese, bianchi e rossi con quel martinicone che gli faceva da guida, ma lo rispettavano e lo stavano ad ascoltare qualunque cosa dicesse, che parlava tedesco come se ci fosse nato, in quei posti.
- Quando lo hai visto?
- Ieri, è passato in piazza seduto in motocicletta.
Ha lasciato il manubrio, ha tirato fuori un pettinino e ha cominciato a passarselo in testa mentre la moto correva per conto suo.
Ridevano a lacrime.

- Forza che abbiamo da fare - disse Cristòlu e tutti si levarono a malincuore.
Le api ronzavano attorno al carrello dell'uva, e le vespe con loro per rivendicare i propri diritti su quel prodotto sottratto alla quotidiana ricerca.
Una squadra a continuare la vendemmia e un'altra per la lavorazione del vino.
- Portate un forcone.
Cominciava il via vai dei secchi ricolmi di grappoli dal carrello al tino dove il più giovane attendeva scalzo per iniziare la danza.
- Forza e coraggio che l'anno venturo compriamo la macchina per la spremitura e così la finiamo con questa moda antica. Te li sei lavati bene, i piedi?
Sulla pulizia dei piedi poteva garantire, quanto alla pigiatrice automatica non ne aveva sentito parlare, ma si fidava del padre che ne aveva visto di cose, e se diceva che c'era una macchina così, di sicuro non poteva mancare.
Per il momento bisogna danzare, poi si vedrà.

Non bastò il solito tino, quell'anno, che la vigna cresceva e il prodotto lo dava come deve essere quando tutte le cure sono state fatte nel tempo giusto, senza risparmio.
Bisognò cercare altri recipienti.
- Da zio Onorato ci sono ancora quelli di Todde.
E così un motocarro partì, con un uomo di riguardo per fare la richiesta, visto che zio Onorato era in pensione e quei recipienti preziosi li poteva prestare o vendere, anziché lasciarli alla polvere del magazzino.
- Recipienti come quelli non ce ne erano altri.
- Il miglior vino di tutto il paese lo faceva Peppineddu Torres.
- Sedici e diciassette gradi.
- Un cane grande di quelli di fuori lo voleva fare cavaliere, per quel vino.
- Ma va!
- Non veda più la luce se dico bugia
- Cavaliere?
- Cavaliere del Regno.
- E lui?
- Gli ha risposto di prendersela in napoli: se ne faceva una cipolla di essere cavaliere.
- Dico io, con la ricchezza che aveva.
- La ricchezza - aveva detto pian piano Cristòlu, - la ricchezza era grande, ma se ne sono visti altri, più ricchi di lui.
Il fatto è che ziu Peppinu Torres era un uomo ed è molto ma molto più difficile trovare uno che sia un uomo davvero.
- Tu dici così - gli aveva risposto Danièlli scherzando, - perché stai diventando ricco e mi sembri un altro Todde, ormai.
E per canzonarlo avevano cominciato a chiamarlo Toddi, ma attenti, però, che fosse di buon'umore, perché era capace di prendersela davvero.

Il mosto doveva riposare nei tini per il tempo necessario, assieme alle bucce e ai raspi. Non troppo, che altrimenti il vino avrebbe preso un fondo d'amaro: solo una prima bollitura, con il calore che naturalmente sprigionava dal suo interno, mentre il liquido si depositava sul fondo ricoperto dallo strato di scoria che ancora poteva essere pressato nel torchio.
Lo sapevano tutti che doveva riposare, prima di entrare nelle botti e cominciare l'oscuro cammino che l'avrebbe portato nella luce dei bicchieri sollevati con orgoglio, trasparente come un cristallo.
Perciò i ragazzi si erano stupiti vedendo Cristòlu arrivare con un caldaio metallico che sottopose al rubinetto del tino da cui spillò il liquido appena spremuto.
- Aiutate il vecchio che da solo non ce la fa - disse a quelli che lo guardavano interrogativi.
Istèvini e Roberteddu presero ognuno per un manico e portarono il caldaio sopra il grande fornello accanto al quale la madre attendeva con le bucce d'arancia.
Danièlli s'illuminò d'un sorriso:
- Vuoi fare ogni cosa alla maniera degli antichi - e fu lui a spiegare che da dieci parti di vino era possibile ricavarne una d'un liquore densissimo e dolce, raffinando col fuoco e continuamente girando con molta pazienza. Alcuni aggiungevano buccia d'arancia, altri le essenze aromatiche, a seconda del gusto.
Guardavano in silenzio il liquido che scuriva, raddensando per il calore del fuoco.
Cristòlu commentò:
- Ce ne dobbiamo ricordare di quello che facevano gli antichi. È un tesoro grande quello che abbiamo, dimenticarlo sarebbe un peccato.

(1989)


 
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