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GIUSEPPE MARCI


Nuoro, Poliedro, 2000
Vita, pensieri e opere di Giuseppe Torres
Giuseppe Marci
Il tesoro di Todde nessuno l'ha trovato.
Eppure l'han cercato per anni, a squadre, pazientemente. Hanno divelto gli embrici del tetto, frantumato i coppi, abbattuto i travi di ginepro confitti nei muri di pietra, scarnificato le pareti, smontato le pavimentazioni, strappato le grate e le barandiglie tornite, asportato i graniti degli scaloni, scavato il cortile, prosciugato i pozzi. Per anni, con un raspare continuo. Di giorno e di notte. Soprattutto la notte. Ricordo ancora quel rumore di scavo silente, al di là del muro che cingeva il giardino.
È passato molto tempo da allora. Forse mille anni, forse più. Ero appena bambino e non esisteva l'elettricità. La sera stavamo al lume di candela nella vasta cucina. O all'esterno, al chiarore delle stelle che risplendevano come dopo mai. Nitide su un cielo che scintillava contro la terra opaca. Parlavamo per ore, coi volti resi chiari dalla luna, sotto l'antico mandorlo che s'affacciava alla porta della cucina.
Mi tenevano in braccio. Io portavo una vestina lunga e non avevo le scarpe. Volavano i pipistrelli che di giorno dormivano appesi alle canne dell'androne. Non so dire se allora li temessi. Le antiche donne credevano che portassero fortuna. E anche per la fortuna non so se davvero l'ho avuta nel corso della vita. Forse sì, forse no: dipende da come si considerano le cose. Perché poi fortuna può essere anche lo stare qui, oggi, a distanza di tempo e ripensare al passato, alle cose viste, le belle e le brutte, rammentandole tutte senza soffrire, i vivi e i morti, più i morti che i vivi. Perché i morti mi sono cari; ormai li ho perdonati, non serbo rancore, li ricordo con affetto, generalmente con simpatia. Ad alcuni, poi, non posso pensare senza sentire una lacrima che viene e forse è una debolezza senile, come se il cervello fosse ormai stanco.
I vivi, invece, sono chiassosi, troppo diversi rispetto a quelli che conoscevo. Non portano alti stivali ma ciabatte di plastica e calzoni corti. Fumano sigarette americane e non reggono il sigaro. Discutono di problemi condominiali nei villaggi sul mare e nient'altro.
Non sanno più niente, non capiscono niente. Se chiedi come deve essere un uomo non rispondono. Se chiedi dove vanno e perché, tacciono. Sanno fare, forse. Mai che senso abbia ogni singola azione, in che disegno personale si inscriva, come quel disegno si raccordi all'universale ordito.
Io credo invece d'aver capito.
E ci mancherebbe se così non fosse, dopo aver speso un'intera esistenza a pensare.
Allora non pensavo: guardavo intorno sbigottito. Di tanto in tanto portavo alla bocca un lembo della vestina dove tenevo racchiusa una zolletta di zucchero e succhiavo.
Passavano in volo i pipistrelli, volava il barbagianni bianco e la civetta dalle rauche grida. Li osservavo incantato.
Nelle notti d'estate cadevano le stelle solcando il blu scuro del cielo.
Mi teneva in braccio una donna che diceva con voce dolcissima:
- Tutto ciò che desideri, figlio. Tu sei un principe, andrai su un cavallo bianco senza toccare il suolo, ti sorrideranno le bionde principesse incantate e ti inviteranno. Non dovrai mai fermarti. Sorriderai di rimando, saldo sopra la sella, continuerai nel tuo cammino.
I gatti occhieggiavano accucciati sul muro, gli ironici occhi accesi parevano fanali gialli.
Sommesso giungeva il rumore del ferro che affondava nella terra, le voci soffocate degli uomini che imprecavano a ogni pietra e sognavano forzieri colmi di monete d'oro e di gioielli. Il tesoro che Todde doveva aver pure lasciato, non se lo sarà certo portato all'altra parte perché lì, ricchi o poveri, andiamo come siamo venuti e le terre, le case, gli armenti, le gioie godute, i dolori fatti patire, tutte le ricchezze accumulate non ce li possiamo portare.
Da qualche parte doveva pur essere rimasto il forziere: perciò bisognava scavare, nonostante tutto, nonostante gli anni trascorsi, i tentativi infruttuosi, il rischio dei crolli, la fatica, gli appostamenti dei carabinieri che vigilavano, per quanto era in loro potere.
Così lavoravano, inutilmente, più di quanto mai avrebbero accettato di lavorare per un'onesta paga, alla luce del sole, protetti da Dio e approvati dalle autorità.
Lavoravano per un'illusione, perché questo era, come i fatti hanno mostrato, quel benedetto tesoro.
Su scusorgiu en Toddi nessuno l'ha più trovato.

CAPITOLO PRIMO

 

I vecchi non ricordano bene, sarà stato il 1880 o il 1881 (ma in fondo che importanza ha un anno in più o in meno nella vita d'un uomo?) quando Giuseppe Torres arrivò a C.
Forse fu il primo che scelse quella terra per una vacanza, come dopo di lui avrebbero fatto, trascorso quasi un secolo, a migliaia, gli innamorati del mare e delle spiagge infuocate.
Ma tutto questo, sul finire dell'Ottocento, nessuno avrebbe potuto immaginarlo e il mare non era ancora un'attrattiva: solo un infecondo deserto che non valeva la pena di praticare.
Così Giuseppe Torres, quando l'alba lo colse dopo una notte trascorsa a cavallo mentre scendeva verso la piana di P., non si fermò a osservare gli scogli che la luce rosata inondava ma incitò il sauro perché di volata compisse gli ultimi chilometri.
Ancora lo spronò ai piedi della salita che rasenta le pendici di Monte Sonos, tanto che praticamente irruppe con trotto serrato nell'ampio dominario in cui Giuseppe Todde aveva stanza quando gli occorreva di stare a C.
Soggiorni brevi, che Todde non amava trattenersi in quei luoghi lontani e isolati.
Avviato alla cinquantina, proprietario le cui tenute si estendevano in ogni parte della provincia, era entrato in possesso di quelle terre quasi per caso.
A dire il vero non avrebbe voluto, e molto aveva tentennato, prima di concludere l'affare. Si trattava di acquisire alcune centinaia d'ettari in una zona che forse avrebbe avuto un qualche avvenire ma che al momento contava solo un villaggio di recente formazione, pochi abitanti, pochissime case, strade malagevoli e nessuna forma di civiltà.
Chiuso il contratto laggiù era stato alcune volte per impostare la conduzione dell'azienda e bisogna dire che ne aveva riportato un sentimento di disgusto. Troppi disagi, poche le capacità tecniche degli abitanti, nessuno cui affidare il compito di sovrintendere alle opere da realizzare.
Così per anni: quell'immensa proprietà non aveva dato che una rendita esigua né era riuscito a incidere un segno, a portare, come soleva fare ovunque avesse interessi, un soffio di vita nuova, preludio ai radicali mutamenti che amava.
Le pietraie erano ancora tali, i cespugliati continuavano a offrire uno stentato pascolo per le capre, anche l'erezione di una propria dimora procedeva a rilento.
Aveva scelto un poggio arieggiato dal quale si dominava la campagna circostante, discosto dalle poche casupole del borgo e dalle stradine che i muri di fango malamente segnavano.
Per anni gli scalpellini avevano spianato i massi affioranti, mentre cominciava a sorgere la recinzione e sulla roccia si fondava il primo nucleo dell'edificio.
Lo spazio, allora, non costava niente e neppure il tempo aveva valore.
Venti passi doveva poter compiere Intoddi, su meri mannu, nella sua stanza prima di incontrare la parete, e altri venti perpendicolarmente: misure minime per un signore che edificasse la casa in cui trascorrere qualche giorno ad anni alterni. E Todde un signore lo era davvero. Padrone di terre, a migliaia di ettari, e di costruzioni, in campagna e in città. Un'intera via gli apparteneva, nel cuore della capitale, sottani, ammezzati e primi piani, officine, terrazzi e balconi: perfino una piazza che la strada formava slargandosi, intitolata al suo nome.
I capi di bestiame nessuno li avrebbe potuti contare. Meno che mai lui, il padrone, che solo chi ha poco sa quanto ha e il sentimento della ricchezza è sconfinato, non si compone di numeri, né di centinaia né di migliaia.
Così le mucche si riproducevano nei pascoli montani: ciascun branco lo conosceva, capo per capo, solo il bovaro cui era affidato e non avrebbe mai sbagliato il computo del dare e dell'avere, delle nascite e delle morti, del progredire continuo della sua mandria.
Sarebbe stata necessaria un'assemblea di tutti i bovari, per tentare un inventario generale, ma non erano tempi di riunioni plenarie o d'assemblee di villani: chi sorvegliava le bestie in foresta aveva da stare sui monti senza mai scendere al piano, e con gli occhi ben aperti, a evitare sorprese.

CAPITOLO SECONDO

 

Giuseppe Torres strinse le redini nella mano sinistra, posò le palme sul pomolo della sella, fece forza sulle braccia, tese le reni e con elegante movimento riunì le gambe per balzare a terra. Accarezzò il collo del cavallo e lo accompagnò fino alla picca in cui riluceva un'acqua tersa.
- Salute a tutti - disse rivolto agli uomini che lavoravano nella corte.
- Saludi - borbottarono in risposta.
- E dov'è il padrone?
Con un movimento della testa indicarono le arcate della veranda alta sullo scalone di granito.
Staccò la sacca dalla sella e si mosse.
- Ti sei fatto aspettare - disse una voce forte dalla veranda.
- Oh su meri mannu! - esclamò Torres stringendo gli occhi in un sorriso.
Giuseppe Todde mosse incontro al giovane che a grandi balzi saliva la scala.
- Ti sei fatto aspettare - ripeté stringendogli la mano con effusione, poi, rivolto verso la casa, - Vittoria, è arrivato tuo fratello.
Donna Vittoria comparve nel vano della porta finestra; la figura slanciata aveva in sé un tratto di forza che il passare degli anni non addolciva, se mai rafforzavano le prime rughe del volto.
Scese un gradino sollevando leggermente la gonna che sfiorava la pietra.
- Peppineddu!
Il giovane salì le scale e le baciò la mano.

Alla sera stavano in una grande cucina, il primo ambiente che nella casa in costruzione si offrisse interamente arredato. Il camino buio recava la traccia di fuochi spenti da tempo. Le finestre incorniciate dalle grate barocche aperte sulla corte. Dall'incannicciato, splendente nei vetri legati con una catena di bronzo, luceva una lampada a olio.
- Allora, gli esami? - chiese Giuseppe Todde lentamente soffiando il fumo del sigaro.
- Andati - rispose Peppino con un lieve gesto della mano. -
Vostro cognato, padrone, non è più uno scolaro. Terminata la servitù sui banchi di scuola, terminata l'opprimente consuetudine con incongeniali compagni, terminata la soggezione nei confronti di tetri insegnanti.
Una donna accostò le chicchere del caffè. Todde respinse il piattino con le zollette di zucchero e cominciò a bere soprappensiero.
- Vittoria, il tuo fratellino non ha perduto il tono infantilmente scherzoso - disse ridendo; poi, riallacciando il filo del pensiero interrotto. - E ora?
- Ora il mondo è ai miei piedi; forse sceglierò la vita dell'ufficiale o forse vorrò dedicarmi agli studi universitari.
- Come fosse la stessa cosa! - osservò sottovoce il cognato, poi, quasi sillabando, - naturalmente tertium non datur. È così, per i giovani, i loro dilemmatici ragionamenti, come se la realtà sempre s'offrisse con partizioni nette, il bianco e il nero, il giorno e la notte, priva di soluzioni intermedie, prevedibile, in fondo. Con le armi o con i libri in mano, codici, immagino, come tuo padre, come tuo nonno, quasi non esistano, oggi, nuove e più vive possibilità.
- Ad esempio, signore?
- Smetti di scherzare; tu sai che parlo seriamente. Ho sempre apprezzato il tuo ingegno e più volte ti ho offerto...
- Mi avete offerto di trasformarmi in un contadino, io che conosco il greco di Omero, di commerciare in bestiame, di vender formaggi trattando sul prezzo con rozzi mercanti che giungono dalla penisola.
Grazie dell'attenzione, ma debbo dirvi di no. Sarò un ufficiale, forse, o forse parlerò di diritto agli studenti di qualche università.
- Niente di meno - borbottò tra il paziente e l'ironico Todde - il signorino aspira a una cattedra all'università, vita riposata, al fresco, mani bianche e occhiali sottili sul naso, la cravatta rigonfia sullo sparato. E come più grande emozione un'assemblea di catarrosi professori che disquisiscono su inesistenti problemi.
Ma fammi il piacere.
- Signore - l'apostrofò Peppino con celia, lievemente atteggiando la voce in tono nasale - fa specie che proprio voi, parente e amico d'un insigne accademico, gloria degli atenei italici e lume della nostra terra per la sua sapienza, osiate disprezzare in tal modo la scienza.
Poi rifacendosi serio: - I tempi, dite: sono quelli che indicano una strada precisa, senza possibilità di alternative.
Carriera delle armi o degli studi; in fondo, neanche troppo lontano, un seggio al Parlamento. Cos'altro è possibile fare in un'isola appartata e primitiva, troppo distante dai luoghi dove si contano le grandi ricchezze e il potere. Visti da lì, scusate, i vostri sterminati possedimenti, migliaia o milioni, ma sempre starelli di una dura terra riarsa, visti da lì possono apparire una povera cosa.
- Può darsi, ma pur sempre una cosa. E seria, per giunta, costruita nel corso di anni, anzi di secoli, se contassi tutti i rivoli che compongono questo fiume; costruita non da me ma da generazioni di uomini, dalle centinaia di uomini che ancora oggi la piegano con la loro fatica. Una cosa maledettamente seria; mi auguro che tu prima o poi lo capisca. Tutto il resto è un soffio di vento. Vento gli studi, vento le armi, vento il potere politico, vento, se mi comprendi, le grandi fortune industriali cui paragoni i miei poveri beni, e ti paiono immense. Vento, nient'altro che vento. Solo la terra conta, e le pietre. Sì, anche le pietre che la ricoprono e che a te danno un'immagine di miseria. Le pietre, dico, contro le quali lottiamo con i nostri esili aratri, con le mani che le raccolgono tra le zolle, con le ceste di vimini che le contengono, con le spalle che le trasportano fuori dal campo.
Certo, conta più la pietra di tutti i tuoi consessi accademici e di tutti i parlamenti, la pietra con la quale ci confrontiamo, misuriamo la nostra forza, quelli che l'abbiamo, la forza, in una sfida che non ha fine.
Noi come il Padreterno. Egli ha riempito di pietre la terra e noi le spostiamo per il nostro lavoro. Lavoro grandioso, come il suo, ma di segno contrario. Meglio il nostro, credo. Più positivo.
- Todde - disse severa donna Vittoria - tu ora bestemmi. Spegni il sigaro e andiamo a dormire.

Luglio passò, e agosto, giornate interminabili di luce.
Gli uomini si muovevano sulla terra ridotta a una crosta, come inebetiti. Nugoli di mosche facevano impazzire le bestie che stancamente trebbiavano. Le aie erano in un'ampia zona di terreno leggermente infossata, quasi un crogiolo in cui si concentrava il calore ogni giorno più intenso.
Neppure il vento che allontanava la pula dava sollievo. Era uno scirocco caldo che trascinava sabbia rossiccia dalle coste africane, a ricordare una vicinanza, un comune destino.
Peppino sembrava un berbero. La sua pelle olivastra era diventata nera come la pece, gli occhi scurissimi scintillavano, scintillavano i denti in un sorriso felino.
Dopo pranzo montava a cavallo e andava. Gli uomini che in quell'ora canicolare boccheggiavano sotto la magra ombra dei mandorli lo guardavano scuotendo la testa: - Pazzia di signore.
I signori, si sa, sono pazzi, compiono con disinvoltura imprese che solo pagati tutti gli altri potrebbero fare.
Che senso aveva, ad esempio, quel trotto serrato sotto il sole d'agosto, il capo scoperto, la camicia slacciata sul collo e l'improvviso galoppo nella polvere dello stradone? Per andare dove, poi? In quella costera di monte che non vede un filo d'erba neppure nell'anno più fertile, un immenso rocciaio di pietra bianchissima in cui campeggia contorto il ginepro.
Quella era la meta. Giuseppe Torres la raggiungeva dopo un'ora di cammino. Dissellava il cavallo, gli tergeva la schiuma dal manto, gli inumidiva le froge con l'acqua della borraccia. Poi, mentre l'animale riposava nell'ombra, saltava su una lastra granitica che Dio onnipotente, non sapendo cosa fare di meglio, aveva lanciato laggiù ed era rimasta per metà confitta nel terreno, per metà sollevata, chaise longue disposta in fronte al mare.
Torres toglieva la camicia e si distendeva a torso nudo sulla roccia bruciante.
Il primo contatto era un lunghissimo brivido, come di freddo.
Nell'azzurro del cielo lo scuro profilo d'un falco.
Dalla terra saliva un vapore che condensava visibilmente e le immagini divenivano tremolanti, caleidoscopicamente deformate.
Sull'intero universo aleggiava un profumo alla cui distillazione concorrevano le erbe, i cespugli, i radi alberi della macchia e della scogliera; s'aggiungeva il salso del mare, dal basso giungeva l'odore della terra e dappertutto il caldo, che anch'esso ha un odore, per chi sa riconoscerlo.
Giuseppe Torres socchiudeva gli occhi fino a vedere solo una linea di mare, proprio nel punto in cui si confonde col cielo, ascoltava il debole rumore della risacca e il secco crepitare del pisello di campo che rompe il baccello, aspirava il profumo.
Perfettamente immobile per ore, cotto dal sole, come se l'esistere fosse un supremo sforzo del pensiero.

Un giorno salì al podere dove abitava maestro Gavino.
Chissà quale curiosità lo spingeva. Forse soltanto il desiderio di vagabondare attraverso i campi che il primo sole del giorno già riscaldava. Procedeva osservando la terra farinosa. Il cammino era aspro, appena un sentiero tracciato nel costone della collina. In basso un viluppo urticante, i rovi, l'albero bianco di spini che si diceva fossero quelli della corona di Cristo. Su tutto un forte odore di menta.
Scostò un sipario di canne. All'uscita dal folto il sentiero si allargava in un clivo coperto di mandorli. Più in alto gli ulivi. Ovunque la roccia affiorante fino alla cima. La casa di maestro Gavino sorgeva in una valletta eminente. La pietra era rosa, compatta nella struttura molecolare, allisciata dal tempo e dal soffio del vento. Rosa come una corolla che improvvisamente nasca tra il cardo spinoso, un tratto gentile che vince l'asprezza del monte. L'aveva costruita lassù quando l'intera vallata e il territorio circostante erano spopolati.
Nessuno ha mai saputo dire da dove venisse, e perché proprio in quel punto avesse fermato il suo passo. Forse attratto dai luoghi aveva scelto di deporre il bastone del pellegrino. Luoghi sui quali la luce si posa al suo primo apparire. Lontano l'azzurro del mare aggiunge una nota più fonda.
Aveva guidato le acque del torrente, creato i canali, domato l'arroganza dei giunchi, raccolte le pietre portate dalle alluvioni.
Con mano sicura aveva inciso nella corteccia delle piante selvatiche, incuneati gli innesti, vigilato le gemme che piano piano crescevano.
Alla sera riposava seduto sotto un vecchissimo ulivo. Le rane gracidavano e il vento portava gli odori della foresta.
Profumi di piante e di fiori, odore selvatico del cinghiale infrascato nel folto, di margiàni che scende la sera a segnare con la sua orma le zolle.
Sotto l'ulivo aveva costruito la casa e la chioma sfiorava le tegole, quando soffiava il maestrale.
Torres osservava la pietra cantone, il trave della facciata, la rozza panca appena sbozzata ai piedi della roccia più alta. Tra quei segni che sembravano appartenere a un tempo lontano si muoveva come in una sospensione di sentimento, con passo leggiero, badando a non scostare le pietre che maestro Gavino aveva disposto quando solo i falchi pensavano di abitare la cima del colle da cui si vede il mare, laggiù.
Il mare, in quel tempo, non era solcato da navi; solo il lento postale arrancava come Dio vuole verso il porto.

Venne settembre. Tutto cambiava, il vento, i colori, gli odori, il movimento del mare che ora si esprimeva in lunghi sospiri croscianti sulla spiaggia e sulle scogliere.
- Cominciano a muovere le acque - dicevano i vecchi che non sono distratti dall'effimero della vita, capaci di cogliere segnali impercettibili, la nuova trasparenza dell'acqua nella pozza alla quale attingono, il velo di umidità che al mattino ricopre le foglie.
Muovevano le acque nelle polle della foresta e tutti si auguravano che l'immane sciagura dell'estate fosse conclusa, che le vene ancora una volta alimentassero i ruscelli e i miserabili pozzi faticosamente scavati nel granito. Così era sempre successo, ma nessuno avrebbe potuto giurare che il miracolo si sarebbe ancora una volta ripetuto. E soprattutto quando. Poteva essere a settembre, talvolta a ottobre, non di rado a novembre. Candu Deus bolit. E Dio sembrava non avere fretta, almeno per le questioni meteorologiche.
I vecchi da movimenti impercettibili s'accorgono, per tutti gli altri non è cambiato niente. Niente per chi sta chino sui pampini della vigna a cogliere i grappoli accesi di colore sanguigno, che alla fine della giornata le mani sono tinte di viola, niente per chi segue il branco delle capre nella ricerca di un'erba, di un ramo più tenero, di un germoglio per sua sfortuna o per ostinata temerità nato in quei tempi.
Giuseppe Torres si preparava al congedo dai luoghi e dalle persone.
Ancora non lo sapeva, o confusamente forse lo percepiva, ma in lui era avvenuto un mutamento. A dire il vero sarebbe meglio non cercare sempre di spiegare gli eventi con mutazioni più o meno improvvise. Niente muta nel temperamento di un uomo, niente compare che già non ci fosse, nascosto in qualche piega profonda, insondato, respinto fuori dalla vigile soglia della coscienza.
Torres aveva amato quelle lunghe immobilità che erano un modo per cogliere l'essenza del vivere, l'assoluto, diciamo, se non ci spaventa il termine magniloquente. La totale immobilità che è fonte di pensiero.
Aveva visto in se stesso e si era interrogato temendo. I discorsi del cognato gli facevano intravedere un abisso dal quale si ritirava impaurito. La terra e la pietra: miti ancestrali, quasi il segno di una condanna. Per sé avrebbe voluto un diverso destino, il pulsare dell'azione, la sciabola sguainata, la parola che modifica il mondo.
Il giorno prima di partire salì al podere di maistu Gavinu.
Smontò da cavallo e legò l'animale al tronco di ginepro confitto davanti alla porta della capanna. Poco più in là il vecchio sedeva sulla panca di granito addossata al muro della casa.
Giuseppe Torres gli porse un sigaro.
- Molto gentile è la signoria vostra - sorrise il vecchio facendo spazio all'ospite perché sedesse.
- Visto da qui sembra immobile il mare, e senza rumori - disse aspirando la prima boccata di fumo dal fiammifero che Torres reggeva.
- Perché parlate del mare?
- Di cos'altro dovrei parlare? io parlo del mare e del cielo, della terra e del fuoco che la percorre inimìgu, e parlo con mrasgiàni, quando viene la notte; di laggiù tra le canne canta la sua canzone.
- Cosa dice margiàni?
- Dice della foresta e della fame antica che lo spinge all'aperto, mrasgiàni è farabutto solo per fame.
- E voi, cosa vi ha spinto in questi luoghi?
Il vecchio socchiuse gli occhi e sollevò le spalle come per dire che tutto ha poca importanza, che un luogo vale l'altro, questo o quello, per chi s'accontenta.
- Ma voi avete scelto proprio questo.
- È una storia antica e io non so se sia proprio così, tanto tempo è passato. Qui non c'era niente. Non un solo uomo nelle colline intorno, non un solo uomo prima delle pianure dietro quei monti. Un giorno di cammino e una notte per passarli. Ma poi, perché passarli, per cercare cosa, forse questo arenàsgiu che non produce nulla?
- Ma vi siete fermato.
- Il fermarsi e l'andare, ogni cosa ha il suo tempo. Qui ho esaurito il cammino.
- E allora?
- Ho esaurito il cammino e mi sono fermato. Non potevo più scegliere terre migliori e qui c'era un segno antichissimo, quella linea di pietre raccolte come un muro fatto dagli uomini del tempo di Noè. Loro hanno levigato la rocca altissima che vediamo fitta nell'unico punto fertile della piana e non ho mai capito come abbiano fatto, con quali mezzi, a sollevarla, e dove l'abbiano trovata: attorno c'è solo il ciottolame portato dalle piene del fiume. Sono come la capra vagabonda che ha trovato un riparo. Qui anch'io ho inciso il segno che rimane. Ho ripulito ai piedi della pietra fitta. Ho raccolto ogni sasso, ho zappato la terra e l'ho disciolta come farina. L'ho ingrassata col letame delle mie bestie. L'ho bagnata con l'acqua che conduco dalla pozza dove guizzano i girini anche in agosto. Quest'ordine di pietre che ho segnato vicino ai muri antichi resterà com'è per anni e anni, così come l'ha fatto maistu Gavinu.

 

CAPITOLO TERZO

 

Il fuoco sbocciò prima di giorno in un folto di cisto.
Come una grande corolla che a poco a poco si apre crebbe carnoso, scivolò nell'erba secca e sulle spine del cardo, avvolse la frìsia e un grande lentisco, fasciò il mandorlo soffocato dai rovi, saltò il letto del ruscello fatto di polvere arabescata dall'impronta delle capre. Gli oleandri crepitarono accartocciandosi. Poi fu la volta della stoppia nella Tanca de mesu. Il maestrale soffiava teso, come ormai da tre giorni, squassando le chiome dei fichi, schiantando i rami dell'ulivo di maistu Gavinu. Senza interruzione, né di giorno né di notte; più rabbioso, la notte.
Risalì il versante della collina, ritrovò il cespugliato nella Serra de is Morus e lo percorse fino alla cima, fino al roccione dal quale sorgeva l'olivastro proteso nel vuoto. L'olivastro bruciò come una torcia che mano invisibile tenesse sospesa sulla campagna.
Bruciò più di un'ora, prima di cominciare a sciogliersi in lingue di fuoco, quasi volesse lardellare la capanna che ziu Pìllimu aveva costruito addossata al costone. Gocce infuocate caddero sulla copertura e si infrascarono nelle fronde di oleandro che ricoprivano i travi di ginepro. Quando fu giorno fatto della capanna restava soltanto un circolo basso di pietra annerita che ziu Pìllimu guardava, le mani incrociate sotto le ascelle, le spalle un po' curve, immobile.
Aveva corso e gridato per ore, stretta nel pugno una scopa di lentisco con la quale batteva le fiamme. Inutilmente. La cortita degli agnelli era contigua alla capanna. Il fuoco la prese d'un soffio, prima che il vecchio potesse aprire il cancelletto e liberare gli agnelli belanti.
Il gregge era sparso nel mandorleto che le fiamme circondavano.
- Tè Calisgèrta, tè - urlava ziu Pìllimu e la sua voce modulava ora ordini secchi, ora affettuosi richiami.
- Aiò Coa 'e nii, aiò Bellu frori.
I cani incalzavano il gregge verso lo stretto varco di roccia che appena odorava di fumo. Due pecore passarono, poi quattro, poi galoppò Bellu picciòccu, l'irruento montone che precedeva un gruppetto di femmine ballonzolanti.
Il vento girò d'improvviso come un generale che ha visto una falla nello schieramento e invia una rapida squadra a contenere il nemico. Le fiamme mossero le creste rabbiosamente ritorte dal cielo alla terra per chiudere il varco lasciato alle spalle. Solo il passo di roccia era libero dal fuoco, non un cespuglio che non portasse orgoglioso la sua lingua di fiamme. Gli scampanii e i belati si rincorrevano tra l'abbaiare dei cani, poi fu silenzio e un acre odore che il vento non cancellava.
Ziu Pìllimu guardava una per una le carcasse riverse. Quando arrivò a contarne duecento si fermò. I piedi gli bruciavano per il gran caldo, dal terreno salivano soffi di fumo.
- Ahi ahi, Gesu Cristu - diceva tra sé volgendo lo sguardo su quel mondo fumante.
Ricordò l'erba di marzo, dopo le grandi piogge di febbraio, rigogliosa che veniva voglia d'accarezzarla. Le pecore allora strusciavano lucenti di lana folta sull'orbace dei pantaloni. Affondava le mani nel vello - bè Calisgèrta, bè Coa 'e nii - e lo guardavano confidenti.
- Me l'hai fatta la beffa, Gesù Cristo - e le lacrime scendevano nel volto fuligginoso. Tornò verso la capanna. Attraversò il varco d'ingresso, gli scarponi affondati in un tappeto di cenere. In un lato, ricolmo di tizzi semicombusti, c'era un secchio di rame. Voltò le spalle e uscì. Nello spiazzo il guscio d'una tartaruga che il fuoco aveva fermata mentre cercava riparo. Lo colpì violentemente con un calcio. - Anche la tartaruga.
Levò il viso al cielo, gli occhi stretti tra le palpebre semichiuse. - Porco mondo - disse con un ruggito che sembrava un singhiozzo, e fu il solo commento per una così grande sventura.

A mezzogiorno gli uomini erano riuniti nel dominario di Todde.
Venivano da Bacusprezzus, da Norvesu, da Su Pisanu, dai cespugliati cresciuti sulle falde dei monti, dai piani coltivati che riu Trottu irrigava, dai campi che guardano il mare e si confondono con l'arenile.
Non era rimasto un solo filo d'erba. Bruciate le stoppie, bruciati i mandorleti, bruciati gli olivastri e i lentischi sui crinali dei monti, bruciata anche la grande vigna che cominciava a dar frutto.
Le fiamme avevano invaso le terre circostanti trasformandole in un'immensa fornace. Nella vigna non erano entrate, le zolle triturate dall'aratro, libere d'ogni erba, ostacolo insormontabile. Ma il calore aveva cotto i giovani pampini, disseccato le pertiche, inaridito i flussi della linfa. Quello che fino a poche ore prima si mostrava come un segno verde nel giallo della campagna era ormai campo bruciato fra campi bruciati, identico il colore scuro, colore di morte.
Gli uomini avevano percorso i viali della vigna scuotendo la testa. Allungavano le mani verso i ceppi, strappavano una foglia e la stringevano in mano. La foglia crocchiava come tabacco essiccato dal sole e si frantumava in schegge polverose.
- Ora possiamo vendemmiare.
- Sì, passami il cesto.
I grappoli mummificati ascoltavano indifferenti quell'amara ironia.
Cominciavano a fare i calcoli del danno che colpiva il padrone ma che anche su di loro sarebbe ricaduto. E delle cause che avevano portato a quell'immane disastro.
- Questa è opera di Perdìsgi.
Perdìsgi il capraro, occhi scuri da arabo, due dita di barba nera, passo corto e veloce nei sentieri del monte che solo lui conosceva.
- Ah, Perdìsgi, sei proprio un campione.

Erano più di venti, riuniti attorno ai graniti del pozzo. Ciascuno vedeva nell'altro la sua immagine rispecchiata, i segni della fuliggine nelle mani, nei calzoni, nella camicia, sul collo, sul volto. I segni di un pensiero che, terminata la fatica della lotta contro le fiamme, si faceva più chiaro e diceva di giorni futuri senza troppe certezze, appesa a un esile filo la speranza che il padrone volesse continuare l'impresa guastata dal fuoco.
Giuseppe Todde scese lentamente le scale.
Valerio Cadoni, il capo dei servi, fece un passo avanti.
- Siamo qui, padrone. Quello che non c'è più è la vigna, i frutteti, i mandorleti, is cresùris de figumurìsca, i pascoli, la canna. Finzas su tumbu. Tutto bruciato. Mille starelli partiti in un paio d'ore, con l'aiuto di Dio e del vento, per nostra e vostra soddisfazione. Più di quello che abbiamo fatto non potevamo fare.
Todde tolse dal panciotto un astuccio di pelle, sfilò un sigaro, spezzò con i denti la punta, lo inumidì con la lingua e l'accese.
- Avrete sete - disse sottovoce, poi, con tono più alto. - Portate da bere!
Due donne arrivarono con una damigiana che deposero accanto al pozzo assieme alla coppa di sughero. Valerio versò un buon quarto e lo offrì al padrone. Todde bagnò le labbra e restituì il recipiente a Valerio perché bevesse e lo facesse circolare tra gli uomini.
Nessuno parlava. Il sole splendeva nel cielo terso. D'attorno l'odore del fumo.
Todde aspirò una boccata del sigaro, sollevò con un dito il cappello troppo calcato sulla fronte e rimase immobile.
Gli uomini aspettavano senza parlare. In tutta la corte non s'udiva una sola voce, i cavalli, vicino alla picca, sbuffavano affondando tranquillamente le froge nell'acqua. Valerio si asciugò il sudore: - Cosa dobbiamo fare?
- Nulla! - rispose Todde con voce quieta.
- Come nulla?
- Nulla di diverso da quello che sempre abbiamo fatto. Certo, non ci sarà la vendemmia, ma vino ne abbiamo nelle nostre botti, per me, per voi e per chi ci si voglia annegare dentro.
Basterà fino al prossimo anno. Al resto penseremo. Penseremo alle bestie che sono rimaste, penseremo alle piante e a ogni altra cosa, col tempo e con la pazienza.
- Non facciamo nulla - ripeté Valerio come per imprimersi bene il concetto.
Todde alzò la voce e con tono perentorio disse: - Ascolta, Valerio - poi, come iniziando un ragionamento - ascoltatemi tutti. Io vedo, sento, capisco. Tutta la notte sono andato di qua e di là dove il fuoco bruciava. Conosciamo la terra. Voi meglio di me, ma anche io la conosco. Uno non può essere padrone di una terra se non la percorre, se non sa dove sgorgano le fonti, dove il suolo è fertile, dove crescono gli alberi. E conosco gli uomini, voi che mi state di fronte e avete piantata la vite, avete curato le gemme. Conosco ziu Pìllimu che stanotte ha pianto le pecore. Le sue pecore. Lui era il vero padrone del gregge, non io; o forse ziu Pìllimu è più che un padrone: è un uomo che parla con le pecore. Nessuno di noi ride perché ziu Pìllimu parla con le pecore e le pecore lo capiscono. È una cosa giusta.
Tacque solo un momento. Gli uomini si erano avvicinati a lui senza accorgersene.
Riprese quasi parlando a se stesso: - Ziu Pìllimu ha bisogno delle sue pecore per essere l'uomo che è. Quanto a me... quanto a me fino a poco tempo fa non sapevo neppure che questa terra esistesse ed era bene così. Ma oggi è mia e voglio parlare con lei come ziu Pìllimu parla con le sue pecore. A modo mio, voglio farlo; io non conosco parole d'affetto, ma so che quando decido di ottenere una cosa, l'ottengo. Costi quello che costi.
Qui tutto è contrario: il cielo è contrario, la terra, il vento, la pioggia che non viene mai quando serve, e se arriva produce disastri. Sono contrari anche gli uomini... come in tanti altri posti.
Sarei stato più fortunato se non fossi mai venuto quaggiù, voi più fortunati, chissà, se foste nati altrove.
E invece proprio qui noi siamo, io, voi e il diavolo che ci ha fatti.
Non me ne andrò e non cambierò idea, piova, tiri vento, venga la siccità, scoppi l'incendio.
Voglio vedere chi è più duro, lui o noi.
- Cussu mallandròni - disse una voce.
Todde per la prima volta in quella mattinata sorrise.
- Oggi abbiamo parlato anche troppo. Andate in buonora, ragazzi. Tu, Valerio, rimani.

Giuseppe Torres, ritto accanto a una colonna del loggiato, non aveva perso una parola.
Osservava quegli uomini scuri, osservava il cognato che ora teneva in mano il cappello a larghe tese e parlava fittamente col capo dei servi, in disparte.
Poi circolarmente spostava lo sguardo sull'anfiteatro di monti all'intorno, brùncus e cùccurus che si rincorrevano l'uno dietro l'altro, quinte teatrali sfalsate in infinite profondità.
Una lieve foschia si muoveva pigramente, ora abbassandosi ora levandosi per scoprire le macchie sanguinanti dei lentischi.
I servi erano andati e anche Valerio si apprestava a partire.
- In un modo o nell'altro gliela faremo capire.
Brandelli di discorso che il vento portava. Torres li percepiva macchinalmente, comprendeva che venivano disposte le contromisure per evitare il ripetersi della disgrazia. Ma la sua mente era altrove.
Sarebbe dovuta essere, quella, la mattina della partenza. Si era levato nel cuore della notte per viaggiare nelle ore più fresche.
Stava sistemando le sacche della sella quando verso settentrione il cielo s'era acceso di livida luce. Il resto era venuto da sé. Aveva partecipato alla lotta contro il rogo che avanzava invincibile, aveva corso, aveva gridato, aveva sentito il respiro della vampa, il sapore del fumo che chiude la gola, gli occhi che sembrano piangere scintille di fuoco.
Alla fine era tornato al dominario di Todde, s'era levato la camicia che odorava di fumo e l'aveva lanciata lontano.
Poi aveva immerso le braccia nella vasca di pietra, le palme sul fondo, le ascelle poggiate sul bordo, il volto a pelo dell'acqua. Così era rimasto sovrappensiero, prima di risalire in silenzio sulla veranda dalla quale aveva assistito al colloquio tra Todde e i suoi uomini.
Nella corte non c'era nessuno. Una donna usciva rapidamente dalla cucina, passava sotto il mandorlo che tesseva una trama d'ombra e s'infilava nel buio di un magazzino.
Scese le scale diretto alla tettoia sotto la quale riposavano i cavalli, scostò con un piede le galline che razzolavano nella lettiera e insellò senza fretta.

Alle spalle del dominario c'era un piccolo colle alle cui pendici vegetavano vigorosi due cespugli che producevano bacche giallastre.
Li sfiorava lo stradone che muoveva verso la campagna e poi, più lontano, superate le scale dei monti, si perdeva nelle pianure che circondano la capitale.
Tra quei due cespugli cui la gente del luogo dava il nome di tomàta burda iniziava un sentiero che risaliva la china del colle fino al ciuffo degli olivastri e si immergeva tortuoso tra le rocce sconvolte da chissà quale originario cataclisma.
Torres discese lentamente. Precedeva il cavallo reggendo le redini e pronunciando caute parole di incoraggiamento. Quando giunse in pianura controllò la tensione del sottopancia, montò in sella e diresse verso le aie.
In pochi minuti raggiunse il rio Corru 'e pruna, mise il cavallo al passo e proseguì lungo la riva sabbiosa. Un filo d'acqua segnava ancora il letto del fiume fitto di giunchi. Dove le canne si levavano alte, là si trovava una pozza in cui l'acqua cadeva con una cascatella che non s'esauriva neppure nell'estate più secca. Piegando a sinistra salì verso la casa di maestro Gavino.
Il vecchio era intento a spargere finocchi selvatici nelle gabbie dei conigli.
- La signoria vostra doveva partire.
- C'è stato il fuoco.
- Il fuoco viene e poi va. Quel che rimane fermo è il cuore degli uomini.
- Ho visto una distruzione senza fine. Nulla è rimasto di quello che cresceva sulla terra. Tutto distrutto.
- È la vita. Molti nascono, pochi muoiono vecchi, i più li ferma un colpo, anche se sono giovani, quando il loro tempo è giunto. Così succede alle erbe e alle piante. Per ogni albero che vediamo formato mille ne ha ucciso la mancanza dell'acqua, la terra superba, il vento, il fuoco, il fulmine, la roncola dell'uomo.
- Che senso ha tutto questo?
Il vecchio affondò le dita nel taschino del corpetto per estrarre un mozzicone di sigaro. L'accese, aspirò due boccate, soffiò sulla brace e lo mise in bocca dalla parte del fuoco. Sedette sulla panca e per qualche minuto assaporò il fumo in silenzio.
- Un giovane non può capirlo. Ogni cosa ha il suo tempo e quando accade è giusto che sia così.
- Che senso ha tutto questo? - ripeté Torres.
- Forse non lo vediamo, da qui, ora. O forse, veramente, non ogni singola azione degli uomini ha un senso, non ogni goccia che cade dal cielo, non ogni soffio di vento. Ma tutte assieme, le gocce di pioggia, le fatiche degli uomini, le improvvise sfuriate di vento, le giornate quiete di sole, tutte assieme si spiegano.
Cosa mi chiedi della mano di un uomo che mette il fuoco nell'erba? Che cosa conta, che importanza può avere?
- Un danno enorme. Irreparabile.
- Niente è irreparabile in ciò che gli uomini hanno fatto e disfatto.
Ecco, solo se noi raccogliamo una pietra ogni giorno e la posiamo sul muro, una pietra ogni giorno, senza smettere mai, questo ha valore. È un segno che non si cancella. Potrà arrivare la mano che distrugge, il piede che sale sul muro e fa franare la pietra. Il segno rimane. Nessuno ha la forza dell'uomo che costruisce, nessuno avrà mai la pazienza di rimettere ogni sasso nel campo. Il segno rimane.

Alla sera nell'alta veranda Todde e il cognato sedevano su due panche di legno. Il giovane ascoltava la voce dell'uomo che si modulava in un tono ricco di suoni. Sembrava venisse da una lontananza di secoli, antichissima musica come una nenia, dolcissima voce virile che attenuava la pena.
- Il vecchio ha ragione. Il seme della distruzione non potrà prevalere, finché ci saranno gli uomini che fanno, caparbiamente, per vedere compiuto un disegno. E poi, forse, non è questione di volontà: è che nasciamo così. Né ti so dire se sia migliore la sorte di chi s'accontenta di contare le ore che passano senza ragione o quella di chi vorrebbe moltiplicarle, le ore, spinto da una smania che lo spinge ad agire ignorando il riposo. Non so, e in fondo non m'importa di sapere.
Sorrise con un gesto d'intesa: - Preferisco impiegare il mio tempo nel fare.
- Non c'è più niente da fare - borbottò Torres muovendo la mano in direzione dei monti scuri che circondavano la casa.
- Al contrario, caro il mio giovinotto, al contrario. Qui c'è tutto da fare. Il mio lavoro un banale incidente lo ha interrotto. Capita. Può capitare. Chi agisce deve mettere nel conto un momentaneo insuccesso.
Sollevò le spalle con noncuranza.
- Fa parte del gioco.
Tacque a lungo, come se il discorso fosse finito. Si levò in piedi, arrivò alla barandiglia tornita, appoggiò le mani e respirò profondamente rivolto verso il cielo stellato.
- Qui occorre un uomo che sappia quello che vuole, che sappia vincere la partita accettando la sfida della terra, del cielo, del vento e degli uomini.


CAPITOLO QUARTO


Il giallo della ginestra accendeva le pendici del monte.
Monti scavati dalle unghie del tempo, forre precipiti di nudo granito e, in fondo, l'argenteo moto dell'acqua che scendeva di pietra in pietra ora mormorando sommessamente, ora ruggendo in un salto di spuma.
Accanto al letto del fiume il sentiero si svolgeva, spira dopo spira, sfiorando i rami ancora spogli della tamerice e dell'agnocasto, spariva in un intrico formato dalla spina del Cristo, riemergeva ai piedi delle rocce che vincevano l'abbraccio del lentisco per lanciarsi verso il cielo.
- Qui possiamo fermarci - disse Valerio smontando dal cavallo e lasciando libero l'animale che avvicinò avidamente il muso alle acque del torrente.
Staccò dalla sella una zucca e la tese al primo dei cavalieri che lo seguivano. L'uomo bevette un lungo sorso di vino senza scendere da cavallo, poi passò la zucca e forbì con evidente soddisfazione i baffi rossastri.
- Alla salute di Peppineddu - esclamò scoprendo i candidi denti.
- E di tutti - risposero dodici voci profonde.
La zucca viaggiava veloce, mani forti la impugnavano, le teste si rovesciavano leggermente e un piccolo arco di vino rosso usciva gorgogliando.
- Alla salute.
Valerio riebbe il recipiente vuoto e lo appese alla sella, poi si volse agli uomini che sedevano a cavallo stretti negli spolverini scuri: - Quando le loro signorie vogliono, possiamo andare. Abbiamo un'ora buona di cammino.
- Andiamo - risposero tre o quattro voci e il rumore degli zoccoli risuonò allegramente nella foresta che s'era appena svegliata dal sonno notturno.

Giuseppe Torres li sentì quando erano ancora lontani.
Non poteva vederli. Sa Serra de zinnìbiri àrgiu era ricoperta da un manto di ginepri. Il sentiero, in quel tratto, come un oscuro tunnel dal quale non si vedeva il cielo. I cavalieri salivano piegandosi sull'arcione per schivare i rami bassi. Poi, allo scoperto, affrontarono il tratto più erto, quello che conduceva alla radura dei lecci dove Torres aspettava.
Lecci centenari, tronchi perfettamente diritti, chiome di verde scurissimo che ancora non rallegrava il tenue colore delle nuove gemme. A spezzare il freddo di quella tersa mattina di marzo un fuoco robusto bruciava nel camino formato da quattro lastre di pietra. E di pietra era fatta la capanna che ospitava i bovari nei lunghi soggiorni in foresta. Lì pascolavano le mucche di Todde, il branco selvaggio che a ogni stagione si accresceva e nessuno poteva dire con esattezza di quanti capi fosse composto.
Mitica mandria mugghiante che scendeva una volta all'anno dalla foresta, nel giorno della marchiatura. Allora il banditore suonava nella cornetta agli angoli delle vie per avvertire le donne che tenessero raccolti i bambini.
Da lontano, arrampicati sui tegoli del tetto e sui rami dei mandorli, i ragazzi vedevano una nube di polvere. La terra prendeva a tremare ritmicamente, un rimbombare sordo che s'accresceva e si coloriva di sonanti muggiti.
La mandria svoltava di carriera passando attraverso l'arco di granito che segnava l'ingresso alla corte di Todde. Chiuso il cancello i servi approntavano le soghe per stringere al collo le mucche e rovesciarle, avvinta la fune alla narice, mentre il ferro incandescente sfrigolava sul cuoio e l'aria s'empiva d'odore bruciato.
Gli stanchi buoi da lavoro immersi nella mandria scalpitante costituivano un riparo dietro il quale gli uomini cercavano rifugio quando la bestia appena segnata si levava, libera dai legami, pazza per il doloroso oltraggio.
Giorno di fatica e di festa, gara di valentia nel roteare il lazo, prova di forza tra l'uomo e l'animale.
Valerio, che disteso supino, coi piedi legati, spostava a forza di braccia, da una parte all'altra del corpo, un sacco di farina pesante cento chili, Valerio stringeva con le dita le froge del toro più grande, la mano sinistra serrata sul corno. Per interi minuti l'uomo e la bestia apparivano immobili, immagine scolpita nella pietra, sola forma di vita il guizzare dei muscoli, il sudore e la bava. Il toro, grado a grado, piegava la testa verso terra, fino a crollare di schianto, ogni resistenza doma. Grida gutturali salutavano il vincitore e il vino scorreva con abbondanza.
Terminata la marchiatura la mandria partiva, restituita alla foresta dove trovava pascolo in abbondanza e poteva riprodursi a maggior gloria e ricchezza del padrone grande.

Dalla capanna, sul fare dell'alba, i servi avevano tratto gli spiedi, li avevano resi tersi fregandoli con la pietra, avevano infilzati i quarti dei vitelli che ora arrostivano sfrigolando sulla brace. A ogni spiedo un uomo, paziente; la zucca del vino pronta a compensare l'arsura del fuoco. Altri servi tagliavano i rami del mirto coi quali ornare i tavoli di pietra rozzamente scolpita che formavano cerchio in quella radura, tavola rotonda disposta per le occasioni importanti. Sul mirto i vassoi scavati nelle cortecce di sughero, le salsicce e i formaggi per i quali le terre all'intorno menavano vanto.
Torres entrò nella capanna. A un anello sul focolare aveva legato la cuccuma annerita dal fumo che portava sempre con sé nella sacca della sella. Versò il caffè e lo bevette amaro, non fino al fondo, però. Rovesciò ciò che restava sul fuoco che sfrigolò rabbiosamente. Da un ramo di ginepro confitto nel muro prese uno straccio, posò un piede sullo sgabello di ferula e fregò lo stivale fino a renderlo terso. Ripetuta l'operazione con eguale meticolosità sull'altro stivale uscì calcandosi in testa un cappellaccio.
Il panorama all'intorno era immoto, non un filo di vento a disperdere la nebbia che saliva dalla terra.
Si appoggiò a un roccione e cominciò a fumare il sigaro.
Lo scalpitio dei cavalli si faceva più chiaro. Poteva ormai distinguere le voci dei fratelli che percorrevano l'ultima parte del sentiero.
Li aspettava con un misto di gioia e di preoccupazione. In lui contrastanti la gioia dell'incontro, il piacere dell'ospitalità e il timore che quei luoghi, consacrati alla divinità della solitudine, potessero essere profanati dalla festosità degli uomini che arrivavano irruenti, animati da una prorompente voglia di vivere.
- Ecco lì il fratellino - esclamò una voce allegra e lo sprone cercava il fianco del cavallo che superò di volata gli ultimi metri. Il cavaliere scese mentre l'animale ancora correva e rumorosamente mosse verso Peppino Torres, abbracciandolo con effusione.
- Giulio - disse Torres rispondendo all'abbraccio - benvenuto.
Poi, a voce più alta: - Benvenuti tutti, scendete, il caffè è pronto.
- Vino ci vuole, altro che caffè - rispose Annibale con voce tonante mentre colpiva col palmo della mano il posteriore del cavallo per farlo allontanare.
- Vino e formaggio a chi si è levato prima di giorno per venirti a trovare, fratello - disse stringendogli gli avambracci e guardandolo fisso negli occhi.
- E Todde? - chiese Tigellio raggiungendoli.
- Arriverà più tardi; viene per la via di Norvesu. La strada è più lunga, ma praticabile col calesse. Solo l'ultimo tratto dovranno fare a piedi, passo passo, come richiede l'età.
- Chi c'è con lui? - domandò Giulio.
- Il professore, e un gruppo d'amici che vengono dalla capitale, qualcuno dal continente.
- Beviamo a chi affronta l'arduo cammino - propose Giulio schiudendo i suoi denti da lupo, mentre il vino rosso già gorgogliava.
- Intanto mangiate - Torres invitò mostrando con largo gesto della mano le tavole apparecchiate - il pane è caldo, salsiccia e formaggio li conoscete.
Giulio si chinò sulla sorgente, affondò le mani nell'acqua gelida e le fregò vigorosamente sul volto e sui capelli neri come le penne di un corvo.
- Brr, acqua freddissima, vino robusto e aria di montagna. Tu sì che l'hai indovinata, fratello.
Per tutta risposta ricevette una pacca sulle spalle che lo fece sobbalzare. L'intera compagnia rise rumorosamente.

Il sole era già alto nel cielo quando comparve il gruppo guidato da Giuseppe Todde.
Procedevano tranquillamente appoggiati ai lunghi bastoni, come chi voglia salire senza affanno e si ferma alle svolte della via per guardare il paesaggio e scambiare impressioni con i compagni di viaggio.
Todde li precedeva, in pugno una canna d'India, il passo vigoroso nonostante gli anni. Accanto a lui un uomo di poco più anziano. Ancora distante dalla radura il padrone grande si fermò, sollevò con l'indice la tesa del cappello, portò una mano alla bocca e gridò: - O su merisgèddu!
Torres scendeva a lunghi passi e in breve lo raggiunse.
- Buon giorno, su meri. Buongiorno a voi, signori, e benvenuti in foresta.
- Peppi - disse Todde - ti ricordi mio cognato, Giuseppe Torres? L'ho sottratto agli studi, forse alla vita militare, certamente alla carriera politica. Qui conduce l'esistenza che più si addice alla sua natura dinamica e insieme forastica. Dirà sì e no dieci parole al giorno. Con quelle ha costruito tutto ciò che hai visto nelle vallate e nelle pianure fino al mare. Dove niente esisteva oggi cresce un giardino. Senza di lui qui sarebbe un deserto: ha creato dal nulla. Per questa terra egli è un dio.
Torres accennò un sorriso tendendo la mano.
- Mio cognato si diverte a farmi arrossire, professore. Sono comunque lieto che siate qui e abbiate visto i risultati del nostro lavoro, del mio e del suo. Ciascuno è orgoglioso delle cose che fa.
- Risposta piena di modestia e buon senso - disse il professor Todde con un largo sorriso. - Ben trovato, giovinotto, vostro cognato mi ha molto parlato di voi e di ciò che avete fatto da quando siete qui. In termini assolutamente entusiastici, e ciò è contrario alla sua natura, per cui ero certo del vostro valore.
Torres si schermì imbarazzato.
Riprese Todde: - Non amplifico nulla. Dico solo quello che è giusto dire. Caro Peppi, noi ci conosciamo da oltre cinquant'anni, tu sai che non ho mai speso una parola che non fosse necessaria e so conoscere gli uomini e i loro meriti. Bene, ti ripeto che dieci anni fa, quando Torres è arrivato a C., all'intorno non potevi trovare altro se non terreni rocciosi e desolati. Non consorzio umano ma pochi individui dispersi nella campagna, non frutteti ma rovi, non case ma capanne che ogni inverno cancellava. Dieci anni: il mutamento puoi vederlo da solo.
Si guardarono intorno. Tutto era terso, nella fredda aria che il sole non riusciva a scaldare. Gli alberi, i cespugli, i fiori, lo scampanio delle mucche, il canto degli uccelli: l'universo naturale offriva una splendida cornice al mondo costruito dal lavoro degli uomini.
Lo sguardo si volse alla radura verso cui erano diretti.
Todde indicò con la mano. - Quelli che vedi lassù, schierati come dodici colonne sul ciglio della radura sono i fratelli di Torres. Medici, avvocati, ingegneri, ciascuno di loro eccelle in una professione civile.
Si accostò al suo interlocutore abbassando la voce: - Tutta gente in gamba. Epperò, credimi, ha più lui il senso dell'esistere, che vive qui perduto in questa terra lontana, di tutti loro che hanno fatto studi profondi e praticano quotidianamente la scienza.
- Può darsi, caro cugino, può darsi. Non credo che tra le due cose esista un legame necessitante. Ma ciò non pertanto tu sai che non ho mai condiviso codesta tua strana opinione, codesta polemica che conduci contro gli uomini di scienza -. S'interruppe un momento, poi riprese ridendo: - Senza dire che potrei anche offendermi, io che sono la massima espressione degli studi accademici nella città in cui viviamo.
Todde proruppe in una risata. - Va là, professore, sai come la penso. Tu sei una rara eccezione, ma di tutti i tuoi colleghi non ce n'è uno col quale trascorrerei volentieri più di dieci minuti. Un professore in genere sa parlare di due soli argomenti: i problemi che studia e se stesso. L'uno argomento troppo specialistico, l'altro, se mi consenti, di nessun interesse generale.
Il resto della comitiva era nel frattempo arrivato. Fatte le presentazioni ripresero il cammino per giungere alla radura dove erano attesi.
Li accolse un suono sottile che il più vecchio dei bovari traeva da una piccola canna chiusa con un tappo di sughero.
- Ah la vita bucolica, solo in quest'isola è possibile ancora trovarla nella sua antica essenza - disse una voce d'accento continentale.
- Guglielmo, ti prego, nel nome della nostra amicizia, non cominciare con le stupidaggini.
Tutti tacquero interdetti. Detta col tono sicuro e pacato che il professor Todde usava nel suo insegnamento, quella frase poteva suscitare la reazione dell'ospite cui era rivolta.
Ma Todde riprese bonariamente: - I signori scuseranno se mi permetto di rivolgermi con tale franchezza al mio giovane amico che stimo per le sue qualità intellettuali e che ho invitato quaggiù perché veda, impari e comprenda quello che non potrebbe mai capire, stando a casa sua, neppure con anni di studio.
Allora, Guglielmo, la tua frase è innocente, ma, se lo consenti, un po' sciocca. Tu sei un economista, non un poeta. Lascia da parte i luoghi comuni e basati sui dati reali.
- Il dato reale mi dice - cominciò con umiltà il forestiero - che un uomo suona l'antica fistola pastorale nella pace mattinale della foresta, mentre le carni arrostiscono sugli spiedi e d'intorno l'aroma si diffonde come ai tempi d'Omero.
- La differenza, e non è cosa da poco, è che non siamo più ai tempi d'Omero, la civiltà ha fatto i suoi passi, l'industrializzazione è ovunque avvenuta e ha portato enormi progressi, il sistema di vita è cambiato, in meglio. Dico il sistema di vita, intendimi, non parlo soltanto dei fatti economici.
Qui, invece, è tutto come era allora, duemila anni fa, cinquemila, o quanti ti pare. Nulla è mutato. Quell'uomo continua a suonare la sua canna come i progenitori facevano nella notte dei tempi. Se ti piace chiamarlo bucolico, fai pure. Sappi, però, che arricchisci il repertorio dei luoghi comuni, non certo la comprensione dei fatti economici.
Il forestiero taceva pensoso.
Il padrone grande volle tendere una mano al suo ospite.
- Peppi - disse - la nostra vita è ormai trascorsa, tante cose abbiamo veduto. Tu hai studiato e sei diventato il primo nel tuo mondo. Io, fatta salva la naturale modestia, credo di poter dire altrettanto per me nel campo in cui ho operato, il commercio, gli affari, la conduzione delle proprietà. Molte cose sono cambiate in questa terra nel corso degli anni: c'è stato un grande progresso, la ricchezza è cresciuta. Al nuovo secolo consegneremo un mondo completamente diverso da quello che abbiamo trovato. E in parte eguale, con gli antichi suoni di canna e le altre tradizioni ereditate dai padri. Il tuo amico non ha tutti i torti.
- Peppino - riprese gravemente l'anziano professore - non confondere anche tu il particolare con l'universale.
Hai sessant'anni, hai lavorato per quarantacinque, vieni da una famiglia ricca e la tua ricchezza l'hai enormemente accresciuta. Ma rifletti un momento, considera che tutti i tuoi beni rappresentano la somma di un grande sforzo compiuto da tanta gente. Uomini, donne, bambini che lavorano dall'alba al tramonto tutti i giorni della loro esistenza e in cambio hanno una piccola parte dei frutti prodotti dalla loro fatica. La tua che qui appare una sterminata ricchezza è niente, se la confronti con quella di un proprietario lombardo, di un francese o di un tedesco. Puoi permetterti, ad anni alterni, di trascorrere qualche mese a Nizza, e questo ti costa in moneta l'equivalente di quanto circola qui in un intero anno.
Non vedi la differenza tra l'accumulo di beni che si riproducono e anche s'accrescono, ma non consentono distrazioni, pena il disfacimento, e le attività che invece generano flussi di denaro a totale beneficio di chi conduce un'impresa? Altro che fistole pastorali.
I servi avevano cessato di girare gli spiedi sulle braci ormai smorte e volgevano i visi accesi dal caldo verso il gruppo dei signori poco distanti.
- È pronto - disse Torres.
Osservò i suoi fratelli, tutti più alti di lui, vigorosi nella persona, che s'avviavano al tavolo conversando animatamente. Li considerò con l'affetto del sangue e con la consapevolezza della distanza che li separava. Loro di professioni onorate, paghi dei successi ottenuti e lieti di ciò che la vita sapeva offrire. Egli mosso da un bisogno inestinguibile di azioni nuove, afflitto dal pensiero del tempo che passa e ci sottrae la possibilità di vedere frondoso l'albero appena piantato. Una sete che continuamente ti spinge, dalle prime luci del giorno fino al buio della sera, con la rabbia che la notte sottragga ore preziose. Poco importa della fatica, poco importa se altrove, lontano dal nostro orizzonte, esistano altre possibilità. Perché quella che abbiamo è assoluta, dispone di noi a suo piacimento, moltiplica le energie fisiche e accende le capacità della fantasia per progettare il futuro.
Un disegno egli aveva, vasto e complesso, e riguardava l'intero territorio fin dove arrivava la vista, e anche oltre, dietro i crinali dei monti.
Ogni terra aveva percorso, ogni cespugliato, ogni pianura, ogni salto, ogni foresta fin dove spaziava il nome di Todde. Per ogni angolo della terra aveva stabilito un destino.
Era solo questione di tempo. Sapeva che i suoi sforzi incontravano un limite. Ritmi e cadenze della natura non potevano essere travalicati. Perciò occorreva stabilire in anticipo e con precisione che cosa fare e quando per amministrare il fluire delle stagioni e ricavare il risultato più alto possibile.
Settant'anni. Questo il termine massimo nella vita di un uomo. Quasi trenta li aveva già trascorsi, dieci impiegati nel lavoro cui si era accinto. Solo lui sapeva le ansie e le cure di quell'impresa. I signori della città, i suoi impetuosi fratelli, potevano apprezzare nell'insieme ciò che avevano visto, giunti per brevi momenti a festeggiarlo. Sarebbero ripartiti senza aver colto l'essenza delle cose, l'intimità della gemma che cresce giorno per giorno e solo la vedi se conosci la pianta, la distingui tra mille, ne riconosci la fisionomia come sai fare con il volto dell'uomo. E la zolla che era superba e rifiutava l'aratro: a poco a poco si piega, cede la sua durezza, acquista fertilità e il frutto ogni anno s'accresce.
Più vicino, forse, agli uomini che quotidianamente zappano la terra, a loro unito dalle comuni consapevolezze e dalla speranza. Irrimediabilmente diviso dall'impossibilità di comunicare il progetto. Egli solo sapeva come le campagne circostanti si sarebbero trasformate e quando, secondo quali cadenze. Se l'avesse detto non avrebbero potuto capire, sarebbero rimasti sgomenti per la vastità dell'impresa. E invece quell'impresa realizzavano giorno dopo giorno, senza averne paura, l'uno e l'altro reciprocamente indispensabili, che da solo non avrebbe avuto la forza necessaria, da soli non sarebbero stati capaci d'andare oltre i confini d'un miserabile orto.
Più vicino a loro, comunque, che a tutta la scienza dei dottori venuti da fuori.
L'aveva ferito il professore Todde, con quei discorsi astrusi sulle ricchezze che tali sono ma non si traducono in moneta. Cos'era mai la moneta? La terra la percepiva come un canone morale. Fare bisognava, non per il possesso, anche se è vero che poi uno possiede e gli altri devono accontentarsi di una povera ricompensa, uno starello di grano, la cesta dei fichi neri, piccoli e pieni di semi. Lui, d'altra parte, che cosa possedeva lui che era l'architetto di ogni cosa visibile per l'infinito all'intorno?
Niente di niente, Todde il padrone di ogni cosa.
Tutto possiede, però, chi comprende l'essenza dei fenomeni, le ragioni dell'agire e sa vivere in sintonia col mutare delle stagioni, col sorgere del giorno e col calare della notte.
Badava che niente mancasse al desinare degli ospiti. Un cenno del capo e i servi portavano sulla mensa altre carni tenute al caldo dalla frasca di mirto coperta con bianche tovaglie su cui mani di donna avevano ricamato le iniziali intrecciate.
Gli ospiti parlavano e bevevano, le caraffe di coccio subito vuotate e nuovamente riempite.
Parlavano e mangiavano. Solo Torres, in silenzio, beveva piccoli sorsi di caffè e guardava che niente mancasse sulla mensa, vigile e insieme lontano coi suoi pensieri.
L'anziano professore spiegava: - Questo paese, come la maggior parte d'Italia, è agricolo: l'industria agraria vi è preminente ed estensiva, però senza capitali materiali, con pochi d'intelligenza e, soprattutto, con assai scarsi ricavi.
Si guardino attorno, signori, vedano quel che è stato possibile fare con un certo sforzo economico e con le indubbie capacità che questo giovine mostra nel suo lavoro; ma il profitto dell'impresa, indispensabile componente di ogni azione dell'uomo, il profitto dell'impresa in che cosa consiste?
Tutti si volsero verso il padrone che sorrideva: - La guerra delle tariffe - annuì - ci ha rovinato la guerra delle tariffe. Avevamo un traffico così bene avviato con la Francia.
- Ma allora, perché continuate? - domandò il forestiero.
- Chiedetelo a lui - disse di rimando Todde indicando Torres. Torres sorrise senza rispondere.
- E poi vorrei dire - continuò il forestiero - con tutto il rispetto dovuto e, ovviamente fatti salvi i presenti, non per dovere d'ospite ma perché vedo tangibili prove: non è che una certa qual naturale apatia renda l'isolano statico e per così dire poco incline all'intrapresa, neghittoso finalmente?
- Guglielmo - riprese il professore - ancora ripeti parole consuete e prive, in ogni tempo, di reale consistenza.
Si suole accusare l'isolano di neghittoso e apatico.
Conviene tu sappia che un proprietario del circondario di O., nei tempi floridi del commercio, andava con vapori da lui noleggiati a Marsiglia e di là talvolta a Parigi per vendere il suo bestiame.
Taluni dimoravano fuori regno parecchi mesi, con le famiglie, per occuparsi di quel negozio, e spedivano nell'isola valori in oro non indifferenti. Dopo il 1888 i traffici con la Francia cessarono del tutto. Io vorrò scriverle, queste cose, spiegarle con dati e statistiche. Altro che apatia e neghittosità: la guerra delle tariffe, capisci? Questa è una scientifica spiegazione; il resto solo uno sciocco e immotivato insulto che la terra non merita né i suoi abitanti.
Torres ascoltava con attenzione il discorso del professore, soprattutto colpito dalla passione che l'uomo di scienza spiegava nel difendere una causa alla quale era manifestamente legato da fortissimi vincoli.
Dietro il lato economico intravedeva gli uomini, quelli che come lui amavano l'azione, volevano sperimentare diverse possibilità, rischiavano quotidianamente il proprio danaro ma, più di ogni altra cosa, la fiducia che ognuno ha in se stesso.
E tutti gli altri uomini vedeva, quelli che non hanno niente da rischiare perché già tutto hanno perduto il giorno in cui sono nati, gli uomini e le donne che da una giornata di lavoro nei campi assolati non ricavano il necessario per una magra minestra.
Guardava il giovane allievo del professore e pensava alle cose che non si sanno ma sulle quali egualmente sembra possibile costruire mondi di definizioni teoriche e di valutazioni morali.
Strinse gli occhi beffardi e tristi quando un ricordo gli attraversò la mente e sollevò senza accorgersene il bicchiere in cui era rimasto un fondo di caffè, quasi volesse brindare a Clarìzia.

Erano tornati due servi, una sera. Doveva essere autunno: nella corte grande le donne sedevano in cerchio attorno al mucchio delle mandorle e sgusciavano incessantemente. Nel piazzale si diffondeva il fresco odore dei gusci che crescevano come un piccolo colle, promessa di fuochi festosi nell'inverno.
Erano tornati due servi, sul far della sera, lentamente, a cavallo dell'asino. Al più giovane gli occhi lucevano di lurida malizia.
- E ita novas, ziu Arremùndu? - aveva chiesto Torres volgendosi all'anziano, come era giusto che fosse, se anche non lo avesse infastidito lo sguardo del giovane.
- Ha saputo, padrone, cos'è successo a Clarìzia?
Clarìzia non aveva mai lavorato per lui, ma Torres conosceva la donna, ne ricordava la figura alta e vigorosa, nonostante gli anni, i capelli nerissimi e quel volto dalla carnagione chiara che stupiva, vittorioso nella sfida col sole e col vento salso che giorno dopo giorno scuriva a tutti gli altri la pelle.
- Cosa le è successo?
Clarìzia era uscita prima di giorno con due ragazze del vicinato. Sul capo portavano la cesta dei panni e andavano al fiume a lavare. Per tutto il giorno avevano fregato sulla pietra liscia che sorge dall'acqua nella riva di Antoni Urgu. Poi avevano steso sui grandi cespugli e all'ombra d'un mandorlo avevano atteso che i panni asciugassero.
Arèga, la più giovane, non aveva ancora quindici anni. La noia l'aveva spinta a girovagare nei campi. Era tornata e, come fosse cosa di nessuna importanza, aveva detto: - Ci sono mandorle.
- Molte? - aveva chiesto Allèni.
- Molte - aveva risposto secca.
- Smettetela - era stato l'ammonimento di Clarìzia.
Per una buona mezz'ora non era successo più niente. Poi Allèni aveva ripreso: - Tutte quelle mandorle perdute - e Arèga aveva fatto eco: - Se le mangeranno i porci.
- Picciocchèddas accabaìdda - aveva ripetuto Clarìzia.
Ma il discorso questa volta s'era fatto più serio. Che quella grazia di Dio stava buttata e nessuno l'avrebbe mai raccolta, già terminata l'abbacchiatura, già passate le donne per una seconda pulitura del terreno.
Quel che restava, restava unicamente a beneficio dei porci.
- E i cristiani muoiono di fame.
Il ragionamento era ineccepibile, il rischio, comunque, elevato; il padrone della terra noto per la sua durezza.
Clarìzia era povera, occasioni di lavoro riusciva a trovarne sì e no per una cinquantina di giornate all'anno. Tutti gli altri giorni che Dio mandava li passava lungo le strade campestri, osservando le siepi, là dove cresceva qualche erba che poteva in modo conveniente essere adoperata per cucinare una minestra alla sera. D'altra parte era sola, il marito morto da tempo, non aveva figli e il suo corpo vigoroso sapeva accontentarsi.
Cos'altro fare, altrimenti? Pazienza ci vuole.
- Smettetela - aveva ripetuto col tono di chi vuole chiudere un discorso.
Ma le ragazze erano partite egualmente.
Saranno state via neanche mezz'ora, diciamo un pugno di mandorle nel grembiule, quando era apparso l'uomo.
- Cosa dirà il padrone delle mandorle? - aveva chiesto a mo' di saluto, evocando l'autorità offesa dalla raccolta di quel misero frutto.
Le ragazze avevano risposto che nulla avrebbe detto se nulla ne avesse saputo, impossibile scoprire la scomparsa di poche mandorle perdute tra i sassi e in mezzo alle spine del campo.
- Non è così, - aveva ribattuto l'uomo - ogni cosa ha un padrone.
Il discorso era già a un punto morto.
Clarìzia lo aveva seguito fin dalle prime battute tenendosi in disparte: solo quando s'era resa conto della piega che gli avvenimenti prendevano era uscita dalla fitta cortina di agnocasto. Conosceva l'uomo e non lo stimava, tanto rozzo e volgare che anche nel tratto fisico s'annunciava sgradevole.
Facendo forza a se stessa aveva cercato di spiegare: - Non è stato un gran danno.
- Hanno rubato - era stata la risposta secca: inutile dire che tutt'al più con due centesimi la si poteva chiudere, quella discussione divenuta troppo lunga.
L'uomo non era disposto a mollare la preda.
- Andiamo in paese - ordinava perentorio alle ragazze che piangevano silenziosamente.
Clarìzia fece un passo avanti portando le mani alla vita: - Cosa vuoi?
L'uomo rise storcendo in modo osceno la bocca: - Meriterebbero di essere frustate.
Rise ancora, mentre diceva che si sarebbe accontentato di molto meno per chiudere la faccenda.
Sempre ridendo prese a slacciarsi i calzoni.
Le ragazze piangevano mute. Clarìzia soppesava il pro e il contro, la giovane età delle ragazze, la brutalità dell'uomo.
- Fai con me - aveva mormorato, preparandosi ad accogliere sopra di sé il bestione che sogghignava dicendo: - Non c'è differenza.

Ziu Arremùndu, terminato il racconto, taceva con imbarazzo.
Il giovane aveva un turpe riso negli occhi.
Torres lo guardò e disse con freddezza: - Non mi servi più.
Il giovane smise di ridere. Torres ripeté: - Non mi servi più; te ne puoi andare.

A questo ripensava sentendo le parole di Todde. Il vecchio professore sapeva che dietro le cifre delle statistiche ci sono gli uomini che vanno per i campi e molte volte una mandorla rubata, il frutto del fico d'India sottratto ai maiali, una cicoria che cresce ai bordi della via sono le uniche risorse cui affidarsi per mantenere in piedi il corpo nella lunga giornata.
Entrò nella capanna e nuovamente riempì il bicchiere di caffè. Un servo accucciato accanto al camino borbottò: - Non vi piace il forestiero, padrone?
Torres sorrise e uscì.
Arrivavano le corbole con i dolci, i fiaschi di malvasia avevano sostituito le caraffe del vino rosso.
Il professore riprese il discorso.
- Certo, vi ha influenza l'indole che ci è propria. Ma essa dipende però dalla secolare sventura di cattivi governi che hanno spento o attutito ogni individuale energia.
- Ci sarà mai un risorgimento, per questa terra? - esclamò Todde con sdegno.
- Può darsi, - rispose il professore - lo spero e lo auguro. Ma penso che il risorgimento vero non lo si possa attendere da una lenta evoluzione delle nostre forze, ma debba, se vuolsi pronto, essere meglio determinato dall'afflusso di nuovi capitali e genti nuove, da un diverso indirizzo nell'opera legislativa e di governo che dia campo largo alla iniziativa e all'energia privata.
- Io non avrei tanta fiducia - per la prima volta parlò Torres - nella gente che viene da fuori e come sempre, come in fondo è naturale, volge più l'occhio al personale guadagno che non agli interessi della terra. Mi sembra una partita che dobbiamo vincere noi.
- È possibile che abbiate ragione - annuì il professore.

 


CAPITOLO QUINTO


Vetri rotti e frammenti di sogni.
Sapeva bene che non era una traduzione fedele; un apocrifo, piuttosto; scritto non autentico, verità debitamente occultata per scoprirne una più vera.
Le parole latine gli risuonavano nella mente in quel primo mattino.
Vivi e scintillanti di luce, schegge di vetro, vitrea fracta, i frammenti di sogno che risalivano alla coscienza e si fissavano stabilmente come un rovello che non s'attenua.
Somniorum fragmenta. Piccole parti avulse.
In questa nuova lectio tutta sua personale la frase ritornava insistente, gli mulinava nel cervello, accompagnava il moto perfettamente bilanciato dei passi. Dodici dall'albero di trinchetto alle gomene arrotolate sotto il bompresso: la fine delle cose tangibili.
Più avanti l'indistinto del mare e del cielo: identico colore di grigio e di verde miscelati in compiuta omogeneità. Null'altro.
Nessuno che potesse dire dove terminava il cielo e cominciava l'acqua del mare.
La si supponeva, l'acqua, dal fruscìo che produceva lo scafo nell'avanzare; la percezione della realtà unicamente affidata all'orecchio, l'occhio incapace di distinguere in un universo soffuso di filamenti nebbiosi.
Dodici passi in su e dodici in giù, le mani incrociate dietro le spalle, il corpo fatto lieve a evitare che la meccanicità dei movimenti turbasse i pensieri.
Era un viaggio di ritorno, ma insieme un allontanamento dalla meta.

Dieci giorni prima Todde lo aveva convocato nella capitale.
- Devi partire.
- Perché?
- Perché un uomo come te non può fossilizzarsi, chiuso in quel buco di terra come in un'ossessione ormai da quindici anni.
- Non ho bisogno di niente.
- Forse solo di una vacanza.
- Non ho bisogno di una vacanza.
- Hai bisogno di cambiare il corso delle idee, di vedere uomini e terre diverse. Di imparare nuovamente a parlare. Ti accorgi che anche con me ormai pronunci soltanto monosillabi?
- Comunque non posso: ho appena cominciato un lavoro di bonifica in Sa serra...
Todde rise sonoramente. - Falla finita. Tu parti stasera.
- Stasera? Ho altro da fare, stasera.
- Non mi chiedi neanche dove vai?
- Non lo chiedo perché lo so. Torno a C. tranquillamente, a cavallo.
- Il cavallo lo riporterà il servo e non soffriranno la nostalgia. Tu partirai con un comandante mio amico. Il suo clipper va in Africa per una settimana. Poi risale a Marsiglia. Lì sarai sbarcato, libero d'andare dove ti pare e per quanto tempo vuoi. Se accetti un consiglio vedi la Cote d'azur, avrai mie lettere di presentazione e tutte le comodità necessarie.
- Ci mancànta scetti is aràbus.
- Cosa dici?
- Dico che mi spedite in partibus infidelium - rispose Torres con tono corrucciato e insieme scherzoso.
- Ho fatto qualcosa, signore, per meritarmi questa punizione?
Todde gli tese sorridendo la mano. - Ti ritrovo qual eri quindici anni fa, allorché ti ho strappato al mondo e ti ho conquistato alla nostra causa. Ma senza esagerare, capisci? Hai poco più di trent'anni: il tuo orizzonte non può sempre essere quello dei quattro monti che chiudono C. A bordo troverai tutto quanto ti serve; ho provveduto io. Fai buon viaggio - concluse abbracciandolo.

Poche ore dopo stava appoggiato all'alta murata della nave che si staccava con dolcezza dalla banchina.
Aveva guardato a lungo gli uomini mezzo nudi che salivano e scendevano chini per il gran peso attraverso lo scalandrone traballante.
Così la nave era stata a poco a poco caricata; quel ribollire di uomini e di merci s'era alla fine calmato e gli addetti alle gomene, esaurito il loro compito sedevano sulle bitte d'ormeggio.
L'irreale silenzio era stato rotto da una voce cantilenante.
- Tutti ai posti di manovra.
La nave si era mossa come se non le importasse.
La città, dall'alto, dominava un ampio tratto di golfo, l'acqua lievemente increspata dal vento, le banchine ormai vuote di navi. Erano partite tutte, sul far della sera. Anche il traffico delle carrozze sembrava scemato, nella grande strada che chiudeva il porto, la vita rallentata sui marciapiedi polverosi dove si muovevano pochi passanti.
L'ultimo raggio di sole aveva illuminato il promontorio calcareo che saluta il viaggiatore, stazione di partenza per i gabbiani che scelgono di seguire la scia ignorando la meta.
Doppiato il capo si erano tuffati nel buio della notte, mentre il vento prendeva a sferzare con maggiore intensità il volto del viaggiatore che non smetteva di passeggiare sul ponte, l'occhio rivolto alla costa.
In quel saliscendi di colline, nello stretto sentiero che s'inerpica faticosamente e precipita in stretti tornanti fino a raggiungere la scogliera, da qualche parte il suo cavallo tornava condotto dal servo. Avrebbero viaggiato per tutta la notte, consapevoli degli ostacoli disseminati lungo il cammino. All'alba sarebbero giunti alla discesa di P., di fronte a loro gli scogli che la luce dell'alba tinge di rosa.
Meglio non pensarci.

Era rimasto sul ponte, nel soffio del vento, gli occhi rivolti verso l'oscurità della terra che nessuna luce interrompeva.
Il contrasto con l'interno della nave non poteva essere più evidente.
I corridoi e le sale erano ornati dai lumi che splendevano entro i globi di vetro. Il teak restituiva un colore caldo che esaltavano le rosse guide sulle quali il passo affondava. La compagnia, al tavolo del comandante, elegantemente assortita.
Torres giudicava quella cena niente più che un fastidio e sorridendo alla sua maniera rinchiusa rispose all'invito che cordialmente gli veniva rivolto: - Seat down near me, young man.
Buon diavolo, in fondo, quel comandante che aveva visto altri mari sotto la chiglia e oggi s'accontentava di un piccolo cabotaggio mercantile, là dove le commesse ancora chiamavano la sua nave.
- We are going at a good clip - diceva con evidente soddisfazione accarezzandosi i favoriti rossi e folti.
La cabina fu invasa da un forte profumo che Torres trovò troppo dolce, mentre prontamente s'alzava assieme agli altri uomini per salutare le signore che entravano.

Sedevano attorno al tavolo, nella cabina calda e luminosa, terminata la cena e il comandante, sorseggiando un bicchiere di porto, raccontava la sua malinconia.
- Navi del tempo che non è più, grandi navi. Sono passati trent'anni da quando scese in mare l'Ariel, il clipper più bello che mai si sia visto. Sì, l'Ariel, quello scomparso nel '72 sulla rotta australiana.
- Chi lo comandava? - chiese il primo ufficiale.
- Gran Dio - commentò tristemente il comandante - Cachenaille era al comando, quando la nave sparì; prima di lui, per molti anni, l'aveva comandata Keay. Il capitano Keay diceva che l'Ariel era di perfetta bellezza, di simmetrica grazia nelle proporzioni, e aveva ragione. Non c'è niente al mondo che possa essere più bello, le signore mi perdonino, di una nave, e quella era la più bella di tutte, di tutte. E la più veloce.
Una signora chiese: - Portava passeggeri?
- No, madam. L'Ariel faceva servizio sulla rotta del tè. Il Black Ball Line portava passeggeri, dall'Europa all'America; attraverso l'Atlantico per circa trent'anni. Trentamila passeggeri ha portato: milleduecento bambini sono nati a bordo. Capite cosa vuol dire? La vita, sure, la vita. Ora tutto è finito. Le eliche e il vapore li hanno uccisi. Pace all'anima loro - concluse levando il bicchiere in un ultimo saluto.

Torres passeggiava in coperta assieme al primo ufficiale, il vento ravvivante rabbiosamente la brace dei sigari.
- Il vapore è il futuro.
- Non c'è alcun dubbio - rispondeva Torres. - Epperò io comprendo quell'accorata nostalgia del passato, di un passato che è stato onesto e ha il segno di una sua grandiosità.

All'alba il clipper era giunto a La Goulette.
La terra era apparsa alla prima luce del giorno e aveva accompagnato la nave che entrava in porto. Colori forti che contrastavano col cielo terso in cui non si stagliava neppure una nube.
Torres osservava l'incedere lento, turbato dal pensiero della terra su cui stava per mettere piede. Un continente che sentiva più antico di quello lasciato la sera prima: provava suggestioni arcane che non giungevano alla soglia della coscienza.
Non aveva dimenticato il cavallo che ora affrontava le ultime curve prima di giungere al dominario e alle cose di tutti i giorni, la vita e gli interessi dai quali ancora si sentiva strappato, ma era pronto a vivere la nuova esperienza e ad appagarsene: il clima dei luoghi e le sensazioni immediatamente a lui congeniali.
Così aveva seguito la bianca folla che si stringeva attorno alla nave affaccendata nelle operazioni d'attracco e aveva osservato quei volti scuri e quegli occhi scintillanti che gli ricordavano occhi e volti della sua quotidiana esperienza.
- Di questi ne abbiamo anche noi - esclamò a voce alta senza avvedersene.
Gli rispose il sorriso del primo ufficiale che, terminate le manovre, s'era fermato al suo fianco.
- Voglio farvi una proposta - disse fattosi serio.
- Vi ascolto.
- Bene, la nave starà in porto alcuni giorni. Avremmo il tempo per una breve escursione verso l'interno, se vorrete accompagnarmi.
- E Tunis?
- La visiteremo al ritorno. Ciò che mi propongo di vedere credo valga la rinuncia alle bellezze della città.

Somniorum fragmenta.
Era iniziato là quello che ora gli appariva come un sogno che ritorna e mostra alla memoria sequenze tra loro non collegate.
Lunghe ore trascorse sulla groppa del dromedario. Diecimila volte meglio il cavallo, per Dio; la bestia aveva un andare effeminato che lo infastidiva. Poi il deserto. La prima grande duna. Rossiccia e calda. Era sceso affondando gli stivali nella sabbia che accoglieva la sua orma e ne conservava la traccia. Così, segnando una pista, era giunto alla sommità e si era lasciato scivolare sull'altro versante dove la duna formava un piccolo seno.
Era rimasto a lungo supino, gli occhi capaci di inquadrare, oltre la vastità azzurra del cielo, un ricciolo di sabbia che alla sua destra si levava, biondo venato di rosso, a incorniciare da un lato la veduta. Le mani affondate nella rena che fluiva sottile.
Ripeté a fior di labbra i versi del Byron:

Oh! that the Desert were my dwelling place,
with one fair Spirit for my minister.

La voce dell'ufficiale lo aveva ridestato dal sogno. S'era levato scuotendo la mantella che gli copriva le spalle ed era tornato pensoso.
I convolvoli azzurri e le vecce d'un rosso violaceo splendevano nella superba fioritura primaverile.

Alla sera avevano fatto tappa nella tenda che si disegnava scura sul chiarore della sabbia.
Uomini vestiti di bianco erano andati loro incontro portando le dita sulle labbra e sul cuore.
Sotto i rami di una contorta prosopis ricevettero l'offerta ospitale di un dolcissimo tè à la menthe che bevettero in silenzio mentre il vento della sera carezzava i loro volti ispidi.
Poi il suo compagno avviò una conversazione che Torres ascoltava senza partecipare. Godeva il suono della lingua francese che l'ufficiale pronunciava con intonazione inglese e i beduini restituivano soffiata, dolcemente modulata come un'antica nenia.
Non aveva niente da dire perché gli sembrava che tutto fosse già stato detto, nulla da aggiungere alla sintonia che s'era creata con quegli uomini sconosciuti. Li sentiva simili a sé e alla gente che con lui viveva in un mondo non meno difficile di questo, altrettanto severo con gli uomini e le donne che faticavano per trar fuori dalle viscere della terra un secchio d'acqua con cui attenuare l'inesauribile sete.
Dormirono sotto la tenda, distesi sui tappeti che ricoprivano la sabbia del deserto, protetti dal padiglione su cui soffiava lieve il vento della notte.

Al mattino erano ripartiti.
La città apparve improvvisa, cuspide azzurra che si leva dal deserto.
Alle falde di quel promontorio roccioso su cui gli uomini avevano avviticchiato le case, altrettanto inatteso, il verde dell'oasi. Miracolo dell'acqua che ruscellava sotto le palme come fosse cosa normale e gli orti venivano su rigogliosi e le frutta pendevano dai rami.
Vagabondò per le vie della città, azzurre le facciate, bianche le vesti, neri gli occhi delle donne che si stringevano nei veli e sparivano veloci al suo passare.
Il souk era un crocevia di quell'intrico urbano e delle genti che vi facevano capolinea giungendo da luoghi lontani. Uomini di razze diverse che vestivano i più disparati abbigliamenti o che si presentavano quasi discinti, la pelle colore dell'ebano segnata da armoniose cicatrici che irradiavano come un reticolo fatto di sottili treccine.
Li spingeva il bisogno, la sete di conoscenza, il demone del commercio. Parlavano una babele di lingue, suoni che parevano musiche o ansiti gutturali comunque incomprensibili. Eppure non c'era niente che volesse capire: quanto naturalmente si spiegava sotto i suoi occhi già lo faceva partecipe di quell'umanità povera di beni materiali ma ricca di una vita interiore che ogni atto rivelava.
Sentendosi osservato aveva sollevato gli occhi incontrando lo sguardo di un altissimo uomo vestito di nero, nero egli stesso, o piuttosto tinto di venature bluastre, che sedeva severo su un dromedario bianco. Si erano guardati a lungo negli occhi senza sorridere, con reciproca simpatia.
Tra i banchi delle spezie si era aggirato assaporando e distinguendo gli aromi che venivano dai mucchi colorati e si confondevano in un unico profumo frizzante.
Era stato il suo modo di entrare in quell'universo fino a ieri sconosciuto ma che riconosceva affine per mille segreti segnali, il mondo di una vita possibile, quando si estingue il bisogno di una comunicazione fatta di parole e la coscienza diviene più acuta, capace di cogliere l'essenza dei fenomeni.
L'idea del distacco l'aveva accettata con rassegnazione, strappato a quelle distese di sabbia dal moto traballante dell'animale che andava e sembrava non provasse mai la stanchezza.
Tunis li aveva accolti in un pomeriggio assolato, l'imbarco fissato per il tramonto: avanzava il tempo per una breve visita.
Si immersero nel souk che il suo compagno già conosceva. Si lasciò guidare, costretti dal tempo a una rigida selezione in quell'intrico di suoni e colori.
Viluppi di stradine coperte, facciate nascoste da ricchissimi arazzi, catacombali profondità di magazzini ricolmi di merci.
Attraverso i corridoi interni di un negozio di tappeti, saliti e discesi infinite volte i gradini di piccole scale che congiungevano piani diversi di uno stesso edificio, dall'oscurità sbucarono nell'accensione di una terrazza bianca.
Tunis giaceva di sotto, mollemente sdraiata come la concubina delle stampe antiche. Sembrava priva di vita, nella interminabile sequenza di terrazzi deserti, eppure dal basso giungeva un brusio intenso che diceva di un moto senza fine, delle passioni celate nell'intrico dei vicoli, nelle facciate chiuse, nei cortiletti interni da cui sorgeva un ciuffo di verde.
Erano ritornati al labirinto del mercato con un'unica meta: la zona dedicata al commercio delle essenze. Il profumo stordiva. Un'antica sapienza lo aveva distillato in tutte le possibili variazioni, ciascuna con la sua personalità, tutte assieme in grado di produrre una mistura che estenuava lo spirito.
Il mercante sorrideva volpino scoperchiando piccolissime ampolle. Da ognuna cavava una goccia e la versava sulla parte interna del polso che Torres tendeva: al contatto con la pelle una fresca esplosione che ogni volta si ripeteva.
Su tutto l'aroma del limone ancora acerbo.

Si era staccato dalla costa con un sentimento d'angoscia che non lo lasciava mentre il clipper da molte ore solcava silenzioso le onde.

Il bompresso fendeva l'infinito, impossibile individuare il punto di congiunzione del cielo col mare. Un unico colore avvolgeva la nave, bioccoli di nebbia ne sfumavano i contorni.
Torres ritrovava sensazioni provate altre volte, in anni lontani, viaggiatore nei mari del nord.
La suggestione divenne più acuta quando un suono fortissimo di sirena lacerò quella ovattata tranquillità. Come venuta dal nulla l'enorme sagoma di uno dei grossi vapori della Hamburg America Linie sbucò dalla nebbia sfilando a babordo.
Allora ogni pensiero vago si spense d'incanto e la consapevolezza precisa dei luoghi, della situazione e dei propri desideri si riaffermò.
Quelle navi collegavano la capitale della sua isola e le città del continente e della vecchia Europa. Incontrarne una significava che il viaggio di ritorno verso settentrione cominciava a trasformarsi in un allontanamento dalla propria terra, la prora rivolta a mete lontane, profondamente incongeniali.
In quel momento la nebbia si aprì e fu come se un faro fosse stato acceso su uno scenario policromo. Le acque del mare riebbero l'ornamento di variegati colori, il cielo apparve splendente, la terra bruna vestita dai toni della macchia e della foresta che digradava fino al mare. Sembrava di poterla toccare, la costa bianchissima fatta di sabbie che alte scogliere tratto a tratto interrompevano. Territori deserti dove cresce il giglio della sabbia che di luglio le donne coglievano per ornare il suo studio. Vi si ritirava nei pomeriggi più caldi, quando all'intorno il riverbero era intensissimo, per trovarvi frescura e oscurità. Il profumo del giglio sembrava trasformare quell'ambiente spoglio nel centro di tutte le possibili raffinatezze.
Profumi più asciutti portava ora il vento primaverile che faceva occhieggiare il giallo della ginestra tra tutte le essenze della macchia.
Cominciava il viaggio che non avrebbe voluto compiere, perduta per un tempo infinito la consuetudine con le cose amate, proiettato verso terre che immaginava fitte di case, da troppi uomini popolate, agghindate con finti giardini di una riviera elegante.
Attese in cabina che la nave completasse la manovra d'attracco nel porto di Marsiglia, chiuse al collo la fibbia della mantella, prese la sacca e uscì dopo aver abbassato la falda del capello come a escludere la possibilità di una visione più ampia.
Si infilò nella prima carrozza di piazza borbottando: - A la gare -. Il viaggio in treno non fu particolarmente sgradevole, nonostante percepisse la presenza dei troppi viaggiatori nella strettezza dello scompartimento. In piedi, assai spesso, per sfuggire le chiacchiere e per osservare dal finestrino aperto su un ballatoio lo scenario che continuamente mutava.
Dalle vaste pianure, su per un'impervia montagna e nuovamente verso il basso, in un'angusta via tracciata nel costone del monte. Attraversavano zone fittamente popolate, villaggi fioriti, tratti di costa resi preziosi da abitazioni costruite con cura.
Calcolò con fastidio che una di quelle case valeva quanto l'intero villaggio in cui abitava.
A Nizza era atteso e non poté fare a meno di sorridere pensando alla maniacale abitudine di Todde che amava predisporre ogni dettaglio dei propri spostamenti e aveva spiegato per lui la stessa precisione organizzativa che a sé riservava.
- Monsieur Torrés - esclamò avvicinandosi un individuo allampanato che per chissà quali misteriosi segnali lo aveva riconosciuto.
Si sentì sovrastato da quella pertica d'uomo che parlava fittamente sciorinando i particolari dell'accoglienza per lui preparata, la carrozza, la casa, la finestra sul mare, la governante, la vasca già colma d'acqua calda, la ricca cena e, per finire, il music-hall.
Mentalmente scartò l'orrida visione delle ballerine sgambettanti e si preparò ad accettare tutto il resto come un male inevitabile; fortunatamente non troppo grave.

Così era cominciato il soggiorno francese.
Todde era un uomo di mondo che per i suoi affari e per un certo gusto del vivere stringeva e manteneva relazioni ovunque il lavoro o un periodo di vacanza lo portassero. Non di rado l'una cosa coincideva con l'altra: soleva ripetere d'essere giunto a un'età e in una condizione di fortuna che quasi l'obbligavano a suggere dall'esistenza alcuni piccoli piaceri, primo fra tutti quello di un treno di vita più riposato in cui s'alternassero le fatiche e i momenti di svago.
E poi, nonostante l'aria burbera, aveva un temperamento in fondo gioviale, amava la compagnia e la buona conversazione, aveva la curiosità di conoscere persone diverse con le quali stabiliva rapporti che alimentava attraverso sostanziosi scambi di lettere. Nizza era il luogo dove più spesso si conduceva, quando gli era possibile, in compagnia di donna Vittoria.
Scelta abbastanza logica, in fondo: poche ore di carrozza dal porto in cui sbarcava giungendo dalla sua isola, varcata la frontiera trovava stili di vita diversi, una lingua che amava, un generale bon ton che non disprezzava e fresche serate da trascorrere nella promenade sulla riva del mare.
Qui tutto era più quieto rispetto alla terra dalla quale veniva.
L'amava, su questo non esiste alcun dubbio, ma la giudicava eccessiva, sovratono, come soleva definirla, troppo marcata nei pregi e nei difetti. Invece egli preferiva un costume di vita più calibrato, basato sul principio dell'attenuazione di ogni parola e di ogni atto.
Aveva il vezzo di pensare che non solo gli uomini ma anche la natura avrebbero dovuto dirigere i loro propositi con l'obiettivo di raggiungere un simile portamento, schivando ogni eccesso e ogni troppo intensa coloritura nel dire e nel fare.
Torres, che seguiva un'assai differente filosofia della prassi quotidiana, non s'occupava di così fatte questioni teoriche e specialmente aborriva ogni pensiero troppo incline alla considerazione di un ipotetico dover essere. Preferiva dichiararsi seguace di una visione del mondo fondata sull'accettazione di tutti quegli accadimenti che appaiono a ogni uomo sensato come immodificabili e se un macigno non può essere spostato, tanto vale utilizzarlo come schienale nelle nostre soste campestri.
- Io sono uno - amava ripetere a se stesso, quasi per darsi la prova della propria cocciutaggine - che quando piove non piglia l'ombrello ma s'accontenta dell'acqua e quando il sole picchia preferisce accoglierne i raggi sulla pelle, salvo trovare qualche attimo di ristoro nel rezzo, se questo è possibile.
Forte di una così fatta teoria era giunto a Nizza, alla fine di marzo, abbronzato come un guerriero berbero e disposto ad accettare tutto ciò che il cognato aveva predisposto per lui, nonostante che, se avesse potuto condurre liberamente la scelta, avrebbe deciso in tutt'altra maniera. E innanzi tutto non sarebbe partito.
Ma la vita è quella che è. Inutile stare a dire cosa avremmo voluto fare: conta solo il modo in cui reagiamo alle situazioni nelle quali, spesso nostro malgrado, siamo costretti a trovarci.
E mai nessuno si avvide, negli ambienti nizzardi che Torres frequentò per più di due mesi, degli orientamenti speculativi del nostro giovane eroe.
Forse soltanto un po' taciturno egli apparve, ma ciò fu sbrigativamente attribuito all'indole degli abitanti di quell'isola selvatica dalla quale diceva di provenire, e non si indagò oltre. Tanto più che aveva singolari accensioni e mostrava un'insolita facondia, pur nell'impaccio della lingua francese che non era di suo certo possesso, allorché si trattava di affrontare generici e non impegnativi argomenti, quali ad esempio le previsioni climatiche.
Di cirri e di nembi parlava con inusitata competenza, socchiudendo gli occhi che ridevano ironici e offrendo ai suoi interlocutori un quarto d'ora di serena conversazione.
A se stesso lo offriva, in primo luogo. Perché quando il discorso si faceva più intrigante il suo sguardo d'un subito s'offuscava.
Soprattutto aborriva la domanda che in ogni ambiente annoiato gli veniva posta con tono vacuo: - E voi, di che cosa vi occupate, giovinotto?
Se la decenza l'avesse consentito avrebbe risposto che s'occupava degli affari suoi, contrariamente ai più.
Come diavolo infatti spiegare che il suo interesse andava ai campi e alle mucche, in quel lavoro egli capace di scorgere un soffio di luce razionale inimmaginabile da parte di quanti le terre le valutano dal grado di redditività e i capi bovini, naturalmente, dal peso?

- E voi, di cosa vi occupate, giovinotto?
Torres fissò il suo interlocutore notando che il viso abbronzato e vigoroso faceva contrasto coi capelli ormai candidi.
Erano nella sala di una vasta dimora affacciata sulla Promenade des Anglais, le palme a sfiorare i vetri delle finestre.
Ancora durava l'eco degli applausi coi quali erano state salutate le ultime note del concerto eseguito dalle giovani figlie del padrone di casa.
- Vostro cognato mi scrive dei prodigi che compite nella sperimentazione di nuove colture - riprendeva l'anfitrione con cortesia.
Torres si preparava a ripetere le generiche frasi che aveva in serbo per così fatte circostanze.
L'ospite lo prevenne. - Vorrei capire la ragione delle cose che fate.
Il signor D. era forse l'amico più caro di Todde.
Partito dall'isola giovanissimo aveva condotto i suoi traffici un po' dovunque nel mondo. Al principio in Francia, in seguito sulle rotte oceaniche per l'America del sud.
Costruita una discreta fortuna s'era ritirato in Provenza, in compagnia della moglie che in quella regione era nata, e dei figli. O per meglio dire si muoveva, secondo il gusto e la stagione, in quella fascia di terra che forma le Golfe du Lion, addentrandosi fino alle uggiose pendici dei Pirenei che dominano Carcassonne. Più di rado, e solo spinto dalle insistenze della famiglia, sceglieva il sole della costa nella sua residenza di Nizza.
- Permettete che vi presenti mia figlia Sophie.
Torres si chinò con una rigidità non priva di grazia per salutare la giovane donna che gli rivolgeva un sorriso.
- Il nostro amico - continuava il padrone di casa in un francese che mostrava la traccia di tutte le parlate del mondo e ancora non aveva perso la durezza della lingua materna - il nostro giovane amico è uno studioso e un innovatore.
- Si occupa di musica? - chiese Sophie.
- No - rispose il padre con tono affettuoso - egli è piuttosto uno scultore che modella la terra. Ma ancora non mi ha detto il come e il perché.
Torres prese a spiegare le ragioni del proprio lavoro, come disegnasse un gran quadro in cui ogni figura ha il suo ruolo e il suo movimento, mentre tutte sanno collocarsi nella generale armonia della composizione.
Illustrò le linee generali e il dettaglio, le ampie prospettive di fondo e i particolari minuti.
L'interlocutore tratto tratto lo interrompeva chiedendogli una precisazione, la definizione di una misura economica, il ragguaglio su un aspetto tecnico di cui si mostrava curioso.
Torres parlò a lungo, si infervorò nel discorso, seppe trovare toni di insospettata eloquenza.
Quando tacque Sophie gli disse: - Se non lo custodiste dall'altra parte del mondo verrebbe voglia di chiedervi di mostrarcelo, questo disegno. Fosse bello solo la metà di quel che traspare dal vostro discorso sarebbe sempre un capo d'opera.
Torres sorrise con imbarazzo.
Così s'iniziò un'amicizia che di giorno in giorno cresceva.
Sophie provava piacere nel vincere la ritrosia di quell'uomo taciturno che faticava a muovere le prime parole, ma s'accendeva negli occhi di una luce ironica e raccontava storie certamente inventate di paesi lontani dove gli uomini vivevano una vita impensabile nell'era moderna. Poi aveva modi di dire e uscite improvvise che lasciavano sconcertati, difficile capire se scherzasse o se parlasse con serietà.
Come quando, passeggiando accanto agli stabilimenti balneari, s'era oscurato nel vedere un giovanotto robusto che sedeva nella chaise longue vestito d'un bel costume a righe e aveva detto che l'unico costume da imporgli sarebbe dovuto essere quello del bagno penale, a un vagabondo pieno di forze che trascorreva inoperoso il suo tempo buttato sulla riva del mare. Forse senza sapere che quell'individuo poteva essere il figlio di una ricca famiglia che nient'altro aveva da fare se non stare lì a godere la vita.

Torres apprezzava la compagnia di Sophie.
La ragazza aveva un modo spigliato di affrontare la vita e lo trattava con una confidenza per lui totalmente nuova della quale si lusingava non senza provare imbarazzo.
Poteva dipendere dai mondi diversi nei quali erano vissuti: Torres ben comprendeva che gli studi e i viaggi dell'età giovanile avevano significato per lui assai meno del claustrale ritiro nel corso del quale era diventato adulto. Sophie, al contrario, era cresciuta in un mondo aperto, aveva frequentato società in cui la spigliatezza e il tono della conversazione rappresentavano valori importanti. Al fondo però, lo avvertiva come un segno di incolmabile distinzione, c'era una differente costruzione psicologica e se l'uno faceva dell'osservazione e della riflessione il canone fondamentale della propria esistenza, l'altra mostrava una vitalità che si esplicava in un costume di vita decisamente frenetico e, poteva anche darsi, poco meditativo.
S'era mai chiesta, lei che aveva viaggiato attraverso mondi ricchi e poveri dove abitano uomini tra loro diversissimi, s'era mai chiesta, ad esempio, il senso di queste differenze, il perché dello scombinato meccanismo che governa la sorte degli individui?
Personalmente non amava e non odiava nessuno.
Come Byron diceva che avrebbe preferito dimenticare la specie umana, trovare nel deserto il suo dwelling place, ma dell'universo degli individui, come di quello degli alberi e delle pietre non è possibile dimenticarsi se non nei nostri sogni privati. E allora? È concepibile che un giovane maschio adulto, forte e pieno di vita, trascorra le mattinate sdraiato su una chaise longue senza provare l'irrefrenabile impulso di muoversi, di fare una cosa qualsiasi, ma comunque di fare?
Era forse una giustificazione, la ricchezza? E perché, non avrebbe anch'egli potuto cessare da ogni lavoro, fosse stato un puro problema di sopravvivenza economica?
Di ben altro si trattava, e lo comprendeva ogni qualvolta gli tornava in mente la gente che a C. grattava la terra dal mattino alla sera. A quelli, dai quali sembrava così biologicamente lontano, si sentiva legato come mai gli era capitato con uomini per cultura o per censo, per fisica fisionomia, se vogliamo, più simili a lui.
Con chi mai, nelle veglie serali, quando il bicchiere veniva riempito e svuotato lentamente e le armoniose voci virili risuonavano accanto al fuoco, con chi poteva parlare della vita e della morte, e di quel che c'è dopo, definitivamente spenti i colloqui con gli uomini, allorché forse continuiamo a dialogare con le radici degli alberi e delle erbe e la nostra vita prosegue nell'universale armonia?

- Siete proprio tetro, stasera - gli disse Sophie guardandolo con occhi azzurri che ridevano.
Era il segnale che la conversazione s'era fatta troppo tesa e la giovane donna gli offriva un modo gentile di interromperla con onore.
Torres, che non era insensibile a quegli sguardi, accolse la proposta e galantemente rispose: - Perdonate, signorina, i vaneggiamenti di un povero uomo incupito dalle troppe riflessioni solitarie.
- Avreste bisogno di una donna, nel vostro eremo, per comprendere che la vita può essere affrontata più lietamente, senza nulla togliere alla gravità degli intenti.
Torres rabbrividì, come sempre gli accadeva quando gli capitava di accogliere nella sua terra un qualche visitatore.
Gli pareva che luoghi per lui quasi sacri potessero venir profanati da presenze estranee di uomini che superficialmente guardassero le cose senza comprenderne significato e valore. Non si dirà delle donne.
Rispose con tono assorto: - I greci tagliarono un bosco sacro di cornioli e fu l'inizio delle loro sventure.
Sophie reagì indispettita: - Avete un modo di eludere le questioni, non rispondete alle domande, spostate il discorso da un argomento all'altro senza che sia possibile cogliere un nesso logico. Alle volte siete poco gentile.
Torres tese la destra. - Pace, signorina. Non intendevo essere scortese. È che alle volte seguo un filo tutto mio di ragionamento. Cose senza senso. Vi prego, non parliamone più.
- Oh, parliamone, invece, caro il mio signore perennemente ombroso. E sappiate, intanto, che un qualsivoglia individuo dotato della giusta creanza sarebbe stato onorato dell'attenzione che si dedica a lui e alle sue cose, si sarebbe fatto in quattro per ottenere, che so, il privilegio di una visita in quella landa selvaggia dove abitate e che tale resterà nonostante tutti i vostri sforzi. Avrebbe allestito la più bella pariglia dei suoi cavalli per accogliere l'ospite, avrebbe steso il proprio mantello nella polvere del sentiero, avrebbe fatto cortine di rami e di fiori per fermare gli insolenti raggi del sole. E voi, invece? Solo una strampalata storia di cornioli tagliati, come se la vostra isola avesse avuto mai una qualche aura di sacralità.
Il tono concitato del discorso le aveva arrossato il volto sul quale per contrasto spiccavano lievi efelidi ambrate.
Torres la fissava con insistenza nel profondo degli occhi.
- Siete un impertinente. Cosa avete da guardare così? - chiese confusa mentre sistemava un ricciolo che si era disposto di traverso sulla fronte.
Torres osservava la bionda trasparenza di quei capelli e i suoi occhi ridevano.
Anche Sophie rise rovesciando leggermente la testa all'indietro.
- Sappiate che con i vostri sacri cornioli qui da noi, in Francia, si preparava il rob de cornu, un succo astringente - gli occhi le brillavano di malizia.
- Siete un uomo insopportabile, ma non riesco a offendermi con voi - concluse con dolcezza.


CAPITOLO SESTO


Più o meno trenta giorni dopo quella discussione sui sacri cornioli cui abbiamo indiscretamente assistito, una domenica mattina quattro persone attraversavano le vie silenziose di Genova, comodamente sedute vis à vis nei sedili di un landò.
Il cocchiere dirigeva per le calate dove sonnecchiavano i mercantili ormeggiati. Trattenne le redini per fermarsi accanto a un uomo seduto col viso rivolto al sole e gli chiese un'informazione. L'uomo vuotò con calma il fornello della pipa e la ripose nel taschino del camisaccio poi, senza parlare, indicò con la destra la sagoma di un vapore poco distante.
Il cocchiere fece schioccare la frusta, il signor D., che sedeva pensieroso accanto alla propria consorte, sollevò il bastone e col pomo sfiorò la falda del cappello in un cenno di saluto.
Sophie disse: - Sei triste, papà.
Il signor D. le prese la mano con un sorriso. - No, figlia, solo pensavo che è ben strana la vita.
Lasciò la mano della figlia e strinse con forza il pomo del bastone.
Sophie aspettava. - Cos'ha di strano la vita? - chiese con allegria.
- Pensavo. Sono circa quarant'anni da che io ho lasciato l'isola e qui sono giunto con molti sogni nel mio fardello. Tu ora ci vai in compagnia del tuo sposo, uno dei primari giovani di laggiù.
Quante cose sono accadute in questo frattempo, chissà se la riconoscerei, quella terra a cui penso ogni giorno con un sentimento che non saprei definire. Come fosse una persona cara che non hai più veduto. La sogni la notte e la mattina ti svegli con la malinconia che ti prende quando capisci ch'è stata una illusoria parvenza, non la realtà che avresti voluto.
- Si può porre facilmente rimedio - disse Torres che sempre cercava una soluzione operativa. - Il vapore è qui per questo, c'è solo da salire a bordo.
Il signor D. scosse la testa. - Non è così semplice, figlio, e non di questo si tratta. È che alle volte penso a come sarebbe stata la mia vita se non fossi mai partito, se tra quella gente io fossi rimasto che ho lasciato quando ero poco più che un bambino.
Sai: ogni qual volta sono capitato in questa città, sempre sono venuto sui moli con la speranza di vedere un uomo che arrivasse di là - con il braccio levato accennava in direzione del mare - e quando li vedevo arrivare, uomini e donne, facendo finta di niente, a loro mi accostavo per sentirli parlare. Quelle voci forti e aspre che sono l'essenza stessa della melodia. Un suono profondo, capisci, che viene di dentro, vorrei dire dal cuore, se non temessi di apparire un vecchio sentimentale.
Torres ripeté l'invito: - Venite con noi.
- Sì - esclamò Sophie - e anche tu, mamma, venite con noi.
Il signor D. mise un piede sullo scalino del landò accingendosi a scendere. - No, figlioli, un'altra volta, forse. Piuttosto, vi prego, non appena arrivate, baciate per me quella terra.

Così a Dio padre deve apparire il mondo, mentre sospeso in un punto lontano osserva le immagini della terra e del cielo che gli scorrono davanti.
Torres stava fermo sul ponte e la costa sfilava lentamente, quasi che un tiro di possenti cavalli trainasse una scenografia sulla quale la mano di un pittore avesse tracciato i profili dei promontori, le bianche pareti calcaree che precipitano nell'azzurro del mare, i ginepri delle foreste, il timido rosa dell'oleandro.
Il vento di terra portava gli odori che ritrovava dopo il lungo distacco, i profumi del timo serpillo e dell'elicriso, dei cisti e delle cèppite che il primo caldo di maggio esaltava.
In piedi accanto alla murata poteva chiudere gli occhi e immaginare d'essere nel piccolo chiuso di maestro Gavino.
In nessun luogo del mondo aveva mai trovato una concentrazione di aromi simile a quella che respirava muovendosi tra i giunchi e le canne, sfiorando con le mani la menta che cresce rigogliosa nelle acque del ruscello.
Sophie stringeva nel pugno un leggiero ombrellino con il quale si difendeva dai raggi del sole.
S'accostò al marito posandogli la mano sul braccio.
- Il signore è taciturno, stamane.
Torres si scosse e sorrise: - Guardavo la costa. Non l'avevo mai vista così nitida come oggi ci appare, non l'avevo mai vista tanto bella.
- È bella - confermò la donna - bella e selvaggia.
Torres osservò in tono sommesso: - Il bello non è mai selvaggio; è proporzione, armonia. È razionalità.
- Cosa vuoi dire?
- Che nulla mi appare selvaggio in questa veduta, né negli aromi che dalla terra si diffondono. Prova tu a scernere dall'insieme le singole parti, scoprirai che ognuna ha un ruolo, come nel bouquet preparato da un abile compositore che abbia studiato gli effetti immediati e le più recondite risonanze.
- Non ti capisco. Come puoi tu dire questo, al cospetto di uno scenario che di per se stesso esclude l'intervento ordinatore dell'uomo? Tutto è così naturale e selvaggio. Primitivo come doveva essere nel giorno della creazione.
- Ammesso che la creazione sia stata selvaggia e primitiva, come a te piace pensare e non il primo atto ordinatore e il frutto di un perfettissimo progetto, come io piuttosto sono convinto che sia.
Sophie guardò perplessa il marito.
- Eppure ogni cosa sembra avere un tratto primordiale che contraddice i tuoi argomenti. La natura che vedo e le genti che abitano la terra, delle quali ho letto, sempre conosciute per le loro semplici costumanze, per il loro rozzo modo di vivere.
- Letteratura.
- A dire?
- Non sempre le cose scritte hanno il valore della verità.
- Ma - protestò con un certo vigore Sophie - sono pagine di eccellentissimi viaggiatori e studiosi che venivano dalle più sviluppate nazioni europee. Tutto hanno indagato, tutto visto e conosciuto.
- Senza capire niente.
- Oh, è una ben strana pretesa. Forse che solo tu, mio signore, puoi aver capito tutto?
- Ho capito le cose che ho capito, poche o molte che siano - rispose Torres con durezza.
- In questo mondo ho aperto gli occhi e sono cresciuto percependolo col sentimento, riconoscendomi in esso. In seguito ho cercato di farmi una ragione dei fenomeni, di quelli che vedo e di quelli che sento dentro di me. Ho frequentato gli uomini e li ho osservati. Non fanno lunghi discorsi, è vero; ma questo non denuncia una minore complessità del loro intelletto, tutt'altro. Vivono e operano con semplicità, ma la semplicità dei costumi e delle tecniche può anche non significare minore capacità; penuria di mezzi, piuttosto, che esalta ogni sforzo e rende grandioso il risultato, quand'anche umilissimo. Il resto sono solo sciocchezze.
Sophie strinse la mano che teneva sul braccio di Torres e osservò con una dolcezza che garbatamente si velava d'ironia - Il mio signore non si deve adirare, semmai riconoscere che le sue proposizioni possono avere dello stravagante, specie se confrontate con le numerose testimonianze che le contraddicono. Ho letto, ad esempio, la relazione di un giudice inglese che è stato nell'isola, non molti anni fa.
- Ci mancava solo il giudice. Inglese, per giunta.
- Qualcosa non va? - chiese Sophie allegramente.
- Non scherzare, Sophie. Non scherzare con un uomo semplice e rozzo quale io sono, secondo il tuo dire, che non può comprendere più d'un'idea alla volta e con fatica, con molta fatica.
Torres socchiudeva gli occhi divertito, poi d'improvviso li incupì e cominciò con voce profonda: - Se avessi potuto fare un altro lavoro avrei voluto insegnare.
Chi insegna pensa che gli uomini possano cambiare, apprendano nozioni e idee nuove, modifichino se stessi, e in meglio. Un professore è un uomo che vuole trasformare la realtà. Il giudice, al contrario, è uno che la realtà la fissa con la pretesa di definirla nel giudizio. E nella successiva sentenza.
Lasciamo perdere ogni altro aspetto del problema, compresa l'assurdità dell'idea. Converrai tu con me che in tutto questo c'è della malizia, un atteggiamento mentale che nel suo primo moto può anche celare il segno di una malvagità dell'indole?
- Sei pazzo - diceva Sophie divertita.
- Lasciami parlare, visto che hai introdotto il discorso - continuò Torres con veemenza. - Giudice e inglese, per di più. Ma quando mai gli inglesi hanno capito nulla degli uomini? In quale parte del mondo, ovunque essi siano giunti, in quale parte del mondo li hanno osservati, si sono preoccupati di capirne i modi di essere? Quando mai, anzi, li hanno ritenuti uomini? Portatori di pesi, piuttosto, soldati delle loro armate, esecutori di ordini, schiavi.
Ti prego - soggiunse pacato - non fare affidamento sulle parole del giudice inglese.
- Ma i tuoi conterranei, lo diceva anche mio padre, si sono ritrovati in queste relazioni e ne sono stati onorati.
- I miei conterranei, molti di loro sarebbe più giusto dire, sono come le scimmie del giardino zoologico che si compiacciono per l'attenzione dei visitatori eleganti.
- Sei pazzo, - ripeté Sophie con affetto - completamente pazzo.
Torres continuò come non fosse stato interrotto.
- Circondano festanti il visitatore e si rallegrano per il fatto che mostra interesse, accettano qualunque imbecille venga da fuori solo perché è venuto da fuori, condividono i suoi giudizi oltraggiosi, unicamente chiedendo di essere distinti dalla massa degli isolani che egli etichetta con disprezzo. È il loro modo di sentirsi cittadini del mondo.
Non sanno o fanno finta di non sapere che, ripartito il visitatore, la distanza annullerà nella sua mente le differenze e un identico giudizio conserverà degli uni e degli altri, di quelli che ha visto nei monti più aspri e di quelli che, con abito civile, ha incontrato nelle case di città. Tutti primitivi e selvaggi, a titolo eguale.
- È un giudizio assoluto, il tuo - disse Sophie fattasi seria - non ammette eccezioni.
- Ah, no, le eccezioni ci sono. Ci sono gli uomini pensosi che vengono e guardano con umiltà, senza la pretesa di capire tutto in una breve vacanza. E ci sono, fra i miei conterranei, coloro che hanno il sentimento della propria dignità, che non scodinzolano attorno al forestiero e non si affrettano a sciorinargli di fronte quello che sembra essere il meglio della terra in cui siamo nati.
Il sole s'era fatto più caldo. Sophie agitava il ventaglio, Torres si accarezzava i baffi col palmo della mano.
- Cosa è venuto a fare, nell'isola, il tuo signor giudice inglese?
- A cacciare.
- Immagino sia rimasto stupito di non trovare né elefanti né tigri - sogghignò Torres - e l'avrà giudicata una mancanza deplorevole.
Prese sottobraccio la moglie e cominciarono a passeggiare sul ponte.

Senza fretta e senza emozioni il vapore discendeva da nord verso sud accosto alla riva che ai passeggeri sembrava di poter toccare soltanto tendendo la mano.
Giunto all'estremità meridionale, superata un'isola bassa e stretta, rallentò la marcia.
Per doppiare il capo di C., all'imboccatura del golfo, la rotta prevedeva un difficile passaggio nelle acque non sempre quiete che dividono il capo da un alto isolotto in ogni tempo privo di abitazioni.
Dietro il promontorio su cui s'accende il lume del faro, al di là dei piccoli colli affacciati sui golfi contrapposti che due diversi mari formano e l'acqua dello stagno divide, un villaggio stretto attorno a un minuscolo centro che si identificava nella strada principale.
A sud la piazza dalla quale si sarebbe potuto vedere il mare, se mai qualcuno avesse avuto la bizzarra idea di guardarlo.
A nord le aie, ed erano, ovviamente, già fuori dall'abitato, appena prima dei campi coltivati e della foresta dove si aggira margiàni.
Tra il nord e il sud due file di case che in qualche punto ispessivano fino a dare l'apparenza di un agglomerato; nessuna chiesa, nessuna banca, nessun palazzo municipale, nessun ufficio, nessuna stazione di forza pubblica.
Niente di niente, insomma, se non un cimitero che le spinosissime acacie recintavano poco lontano dal mare. Laggiù si arrivava senza particolari cerimonie e si riposava cullati dal rumore della risacca.
Torres sorrideva.
Passava in rassegna la terra come un generale che ispeziona la truppa. Il vapore sembrava rallentare apposta per rendergli un servigio.
Quello era lo scoglio dal quale pescava, quella la spiaggia bianchissima dove portava la cavalla perché si rinfrescasse i garretti nelle calde sere di luglio, quello il promontorio roccioso dal quale il capraro muoveva il branco per l'abbeverata alla foce del rio che si insabbiava nella spiaggia poco più avanti. Proprio dove appare la sabbia dorata.
Indicava le terre che si mostravano come il vapore avanzava nel golfo e sembrava sfiorasse i ciuffi delle canne, le tamerici piegate sull'arenile, le siepi di fico d'India abbarbicate sugli alti costoni bagnati dal mare.
Sophie lo scopriva diverso, non più taciturno, non più sorvegliato nei moti di una misurata ironia.
Pareva un bambino che s'accende nel volto e mostra la gioia di rivedere volti e luoghi familiari e amati.
L'aveva sposato senza riceverne particolari dichiarazioni d'amore, e ora gli scopriva toni del sentimento e degli affetti che pensava ignorasse.
Torres era interamente felice. Le presentava gli scogli, le spiagge, i campi di grano, le vigne, gli alberi solitari protesi sulle costiere battute dal vento.
Di ogni luogo, di ogni pianta, di ogni segno dell'uomo inciso in quel vasto paesaggio conosceva la storia.
Raccontava animato, partecipava ai dolori e alle gioie narrate, era capace di evocare un ricco universo là dove chiunque avrebbe tutt'al più ipotizzato la presenza di un selvaggio pastore e del suo miserabile armento.
- Vedrai - le diceva - l'uomo più semplice è come un libro di storia. Bisogna conoscerli i casi, gli intrecci, le supreme passioni da cui ciascuno si sente commosso.
È un romanzo che si dispiega sotto gli occhi di chi voglia osservarlo, stando da un canto, in silenzio, senza turbare lo svolgersi degli eventi.
Laggiù presente e passato vivono insieme, i fatti da molto trascorsi serbano attualità, influiscono sugli avvenimenti dell'oggi, con essi dialogano; gli uomini non dimenticano quelli che li hanno preceduti sulla stessa terra e parlano con coloro che verranno.
Sophie lo ascoltava trattenendo il respiro.

Il vapore arrancava.
Superato il groviglio delle scogliere ora la costa si adagiava bassa in un semicerchio che la nave attraversava diagonalmente.
Finché dall'acqua si levò un colle bianchissimo di calcare nelle pareti tagliate alla vista del mare. E quando lo ebbero doppiato, la città si disvelò, capitale turrita che la cupola sobria della Cattedrale dominava.
Candido miraggio di case e palazzi allineati sulla riva dove gli scuri profili delle palme si levavano verso il cielo con la preziosità di un ricamo orientale.
La nave accostò alla banchina.
Volarono le cime che mani vigorose afferrarono e fissarono alle bitte. Gli argani digrignarono per sollevare scale e scalandroni subito animati da un movimento fitto, signori composti nella nera redingote e portatori discinti che sopportavano immani pesi.
Immobili i cavalli bretoni attendevano legati alle stanghe dei pianali.
Torres guidò Sophie verso una carrozza sostenendole il braccio.

A casa di Todde erano attesi.
Il domestico li introdusse nella sala dove i fratelli di Torres commentavano la sorpresa di questo più piccolo e mezzo selvatico che improvvisamente ritorna con una moglie francese.
Le donne chiacchieravano impettite negli scomodi divani; solo Todde taceva.
Quando la porta venne aperta mosse incontro al cognato e alla giovane moglie cingendoli in un unico abbraccio.
- Cosa succede? - domandò zia Climene senza muoversi dalla poltrona in cui era stata sistemata.
- Esti arribàu Peppineddu.
- Come?
- È arrivato Peppino - le ripeterono marcando le sillabe - con la moglie francese.
- Ih - commentò la donna con tono acuto. - Come se qui non ce ne fossero, donne. Che bisogno c'era di cercarne una in quei posti sperduti?
L'attenzione di tutti era rivolta alla donna che parlava.
Zia Maria disse in tono più basso e comunque calcando le sillabe perché la vecchia sentisse: - È figlia di uno di Villacidro.
- Ah - commentò zia Climene.
Anche Sophie guardava verso la vecchia che si stringeva nella mantellina di lana con atteggiamento regale.
Accostatasi al marito gli chiese chi fosse e cosa mai dicesse nel suo strettissimo linguaggio.
Todde, che le stava daccanto, prima che Torres potesse parlare: - Sophie - disse - la vecchia signora, che è stata sorella di mio padre e quindi è mia zia, rappresenta la generazione più antica della nostra famiglia. Ha espresso il desiderio di conoscerti e voglio essere io a officiare questa presentazione.
La vecchia sospirò, Todde le prese una mano tra le sue e la tenne con affetto.
- Non ho capito una sola parola di quelle che hai detto alla forestiera.
- Zia, non è una forestiera, è la moglie di Peppineddu Torres.
- Uhm - fu la sola risposta.
- Sophie, - disse Todde per completare la presentazione - voglio che tu conosca la nostra zia Climene.
Sophie si chinò rivolgendo un saluto all'anziana signora.
- Cosa ha detto? - domandò zia Climene.
- Ha detto che è molto contenta di fare la vostra conoscenza.
- Ma come parla?
- Parla francese - spiegò Todde.
- Ita brigùngia - replicò la vecchia.
- Sophie, - prontamente Todde tradusse - zia Climene ti da il benvenuto nella nostra famiglia e ti augura ogni felicità.
Poi fu la volta dei fratelli di Torres che a uno a uno si avvicinarono alla bella cognata con inchini eleganti e studiate formule di saluto e d'augurio.
Ultima l'abbracciò donna Vittoria. - Cara sorella, della tua grazia aveva bisogno Peppino che troppo a lungo ha vissuto solitario e scontroso, lontano dagli uomini e dalla società civile.
- Credo non sia proprio possibile - rispose Sophie ricambiando l'abbraccio - convincerlo a mutare sistema di vita.
- Vuoi dire che non lo vedremo più spesso in città, ora che tu sei qui a richiamarlo di tanto in tanto dalla campagna?
- Voglio dire che io sarò là, con lui. Non abiteremo in città.
Donna Vittoria allegava diecimila ragioni per spiegare alla cognata le asprezze dei luoghi, le difficoltà della vita, l'assoluta mancanza di ogni genere di conforto, la lunghezza del tragitto che avrebbe impedito, in un caso di emergenza, mai Dio lo volesse, il soccorso di un medico, l'arrivo immediato di una medicina. Oltre alla tristezza di un'esistenza trascorsa senza la possibilità di scambiare due chiacchiere con un'amica, di partecipare a una festa, di incontrare un ospite appena appena elegante.
- Vita già disdicevole per un uomo solo, e mai ho cessato di deprecare le idee di Todde che hanno spedito mio fratello laggiù. Ma che una donna, poi, giovane e francese, per giunta, abituata a un treno di vita mondana, ai salotti e ai ricevimenti, ai viaggi e alle luci delle feste, che una donna vada a vivere tra quelle sterpaglie mi pare un eccesso assolutamente ingiustificabile.
- Torres risponderebbe - rise allegramente Sophie - che la vita è tutta un eccesso. Tanto vale accettarla com'è.
Todde, naturalmente, non condivideva i punti di vista della moglie - Dio santo, che discorsi son questi che fai a due giovani ricchi di energie e di forze. Nelle solitudini e nelle asprezze di C. si ritroveranno capaci di creare un mondo nuovo. Peppineddu lo ha già dimostrato e Sophie, bene, Sophie non mi sembra una fragile creatura che si lascia spaventare dalle difficoltà.
Dall'altra parte del mondo intere famiglie si sono spinte in territori assai più selvaggi, hanno affrontato enormi distanze e rischi gravissimi ma hanno portato la civiltà da un oceano all'altro. In fin dei conti staranno a una notte di viaggio da noi, e non è detto che le cose non cambino in meglio, quando una comoda strada raggiungerà il paese rendendo tutto più semplice.
- Aspettala, tu, la strada - ironizzò donna Vittoria - ma non vedi che in quest'isola di strade non se ne fanno, di linee ferroviarie meno che meno, e le sgangherate diligenze ancora collegano centri importanti con grave impaccio per chi voglia spostarsi?
- Cambierà - rispose serafico Todde - già sta cambiando. Le strade che tu non vedi, le reti ferrate cominciano a svilupparsi. Certo, non quali vorremmo che fossero e quali la terra richiede per i suoi bisogni, ma pur sempre ci sono e ancor più ci saranno nel nuovo secolo che si annuncia. Sarà il loro. Sono giovani, avranno tutto il tempo che vogliono per stare in città e certamente proveranno rimpianto per gli anni trascorsi nella semplicità di C.
Lascia che lì si ritrovino e misurino se stessi.
- Posso chiedere, quanto meno, che Sophie si trattenga un po' qui con noi? Starà il tempo necessario per ambientarsi e conoscere la società della capitale.
- Sorella, - disse Torres - società per società è meglio conosca un mondo di uomini veri. Ziu Pìllimu, Antoni Mraci, Clarìzia, Arèga che al mattino mi prepara il caffè valgono assai più dell'intera tua società cittadina.
- Tu sei ormai diventato un uomo inurbano. Colpa di mio marito e mia che non ho saputo oppormi alle sue folli proposte. Avrò per sempre il rimorso di aver partecipato alla rovina del più giovane della famiglia, quello da cui forse avremmo potuto ricevere grandi soddisfazioni.
- Temo non ci sia più niente da fare - osservò Todde sornione - il ragazzo è perduto alla causa della civiltà. Tutto ciò che possiamo fare per lui e per la sua giovane e bella consorte è temperare la loro terribile condizione di romiti coi soccorsi che il vivere moderno generosamente elargisce anche a chi gli volta le spalle.
- Siete una banda di matti - commentò secca donna Vittoria - parlare con voi significa semplicemente sprecare il fiato.

Lo sdegno non fu comunque tale da impedirle di provvedere personalmente agli acquisti per la nuova famiglia.
Sapeva che il fratello, in tutti quegli anni, mentre s'era occupato della costruzione d'una bella dimora, non aveva certo speso il suo tempo nella cura dell'arredamento. Dormiva su una stuoia di canna posata sul tavolaccio retto da due cavalletti e l'unica suppellettile di cui disponesse era rappresentata da un vecchio armuà che lei stessa gli aveva inviato.
Torres aveva poi chiesto un'étagère che sempre aveva conosciuto nello studio paterno. E i libri aveva ottenuto, generosamente donati come viatico nel momento del suo ritiro in campagna da tutti i fratelli che avevano rinunciato, forse senza troppo dolore, alla loro quota d'eredità.
Così s'era ritrovato possessore d'una biblioteca curiosamente formata, per lasciti diversi, da testi di medicina e botanica, da un ricco repertorio giuridico e da una ben fornita sezione di letteratura costruita nel tempo per opera di un anziano parente che a lungo s'era occupato di lettere inglesi.
Per gusto personale l'aveva poi completata con la gran parte dei romanzi che il secolo produceva, in Italia, in Francia, nella lontana Russia e nella sua piccola terra, dove pure vivevano uomini stravaganti e bizzarri ma non indotti, anzi, si può dire, capaci di un'intensa consuetudine con la lettura e con le fatiche della penna.

- Allora vediamo - diceva donna Vittoria scorrendo un'interminabile lista - vediamo: una credenza, un buffet e un tavolo di noce, sei seggiole e una seggiola a sdraio di Vienna, dodici seggiole imbottite con relativo sofà, un letto matrimoniale, tre letti d'una piazza, cinque comodini, due toelette, un armuà, cinque quadri, un quadro per sala, tre cornici per le finestre del salotto con rispettivi panneggi, un tavolo per fare dolci, una poltrona imbottita, una lampada per la camera da pranzo, due vasi per la consolle dell'ingresso, una coltre imbottita per due piazze, tre coltri piccole, cinque materassi e cinque cuscini, quattro tappeti, una coperta di lana bianca, due banchi e tre seggiole di ferro per la loggia.
Quanto alla mobilia per il momento siamo a posto, ti pare?
La domanda era rivolta a Sophie che, sprofondata in poltrona, agitava il ventaglio.
Per giorni aveva seguito la cognata alla ricerca del necessario per l'arredamento della casa. A donna Vittoria s'era affidata per ogni questione organizzativa. Di suo, senza parere, aveva introdotto un criterio di scelta che selezionava con gusto e insieme badava alla funzionalità dell'arredo.
Giornate faticose, nel caldo estenuante di quella capitale che rammentava Nizza per le flessuose linee delle palme ma tradiva la vicinanza africana con le torride temperature di quel principio d'estate.
Nell'uscire dall'androne buio e fresco provava la sensazione di immergersi in una tiepida acqua che l'avvolgesse e per un momento le bloccasse il respiro. Poi, per reazione, un lungo brivido freddo.
Uscivano di preferenza al mattino, in compagnia di una serva che le assisteva nel giro di compere.
Le strade del porto vivevano di uno straordinario fervore; le merci più varie venivano offerte da venditori che illustravano con voce potente qualità e prezzi dei prodotti. Le donne contrattavano, dicevano parole argute, ricevevano insolenti proposte cui sapevano rispondere senza arrossire.
Ma anche gli uomini si muovevano tra quella folla di venditori. Solenni negli abiti scuri, le mani incrociate dietro la schiena, i padri di famiglia compivano la quotidiana ricerca per riportare a casa i cibi migliori, possibilmente a buon prezzo. Molte signore, come donna Vittoria, andavano in compagnia della serva che stipava gli acquisti in una sporta e poi la trascinava per le scale di casa. Altre si avvalevano dei ragazzini che offrivano i loro servigi armati di corbole nelle quali sapevano far stare inverosimili quantità di merce.
Sophie incominciava a capire la parlata del luogo, un dire cantilenante cui associava suoni e immagini di un oriente che non aveva mai visto ma che si figurava più o meno simile al mondo che aveva davanti agli occhi e ogni giorno di più le appariva dotato di un umore e di una vitalità capaci di conquistarla.
La seconda parte della mattinata era dedicata agli acquisti per la sua casa, e anche allora, come in un grande teatro, Sophie si divertiva a osservare la commedia dei venditori che vantavano la qualità delle merci e ne difendevano i prezzi.
Di contro donna Vittoria, resa arcigna dall'alta gorgiera increspata, tutto osservava come colpita da un insopprimibile senso di fastidio, tutto svalutava lamentando le incapacità degli artigiani moderni, la decadenza dei materiali, le odiose pretese dei mercanti. E minacciando, da ultimo, un acquisto in blocco nei negozi del continente, dove pareva le regalassero, le merci, quelle che mani sapienti avevano costruito impiegando materiali preziosi.
Così, laboriosamente, ogni pezzo era stato soppesato, valutato, infine scelto e portato in un magazzino di Todde dove restava in attesa dei carri per il viaggio fino a C.
L'afa del pomeriggio era come una cappa che gravava sul mondo. Non la turbava un solo rumore, non voce di carrettiere né cigolio di ruote, non frinire di cicala o cinguettio di uccelli; nessuno, fosse uomo o animale, trovava l'energia sufficiente per vincere l'oppressione della calura ed esprimere una qualsivoglia forma di attività.
Solo donna Vittoria continuava imperterrita nel lavoro.
- E quanto alla suppellettile ho la sensazione che abbiamo dimenticato qualcosa... dunque, vediamo: quarantotto piatti piani, ventiquattro fondi e altrettanto da frutta, una zuppiera, quattro piatti grandi, sei medi, sei ovali piccoli, due bicchieri grandi per acqua con relativi piattini, dodici bicchieri per birra, dodici bicchieri grandi di cristallo a calice, dodici bicchieri per il liquore, quattro saliere, sei caraffine di cristallo liscio, altre sei di cristallo a righe, tre vassoi, un porta rosoliera in ceramica, due scodelle grandi, un servizio completo di posate, una vinagriera, una caffettiera, che non serve a niente perché mio fratello ne possiede una serie completa, una lattiera, una zuccheriera di ceramica e una di nichel. Eppure ho la sensazione che abbiamo dimenticato qualcosa.
Continuava a passeggiare su e giù per la stanza, con un foglio in una mano e un lapis nell'altra. Camminava, leggeva ogni singola voce e spuntava sul foglio.
- Più che una sensazione è una certezza. Mi verrà in mente, stai certa, mi verrà in mente prima o poi. Per il momento concludiamo l'elenco: un lavamano e relativo boccale, un lavamano e un boccale per la toeletta della vostra camera, un lavamano e un boccale per l'altra toeletta, due bottiglie e due bicchieri per comodino.
L'elenco era finito e donna Vittoria assumeva un'aria delusa. D'improvviso batté il lapis sul foglio ed esclamò con voce trionfante: - Ecco. Sai cosa abbiamo scordato?
Sophie non sapeva e continuava ad agitare inutilmente il ventaglio.
- I bicchieri per la malvagìa, ecco cosa abbiamo scordato - e sillabando con voce tranquilla scrisse sul foglio alla voce acquisti: dodici bicchieri per malvagìa.
Sophie la guardava con ammirazione sincera ma non sapeva impedirsi di sorridere un poco.

CAPITOLO SETTIMO

 

Uno scrittore conterraneo di Torres ha detto del carro trainato dai buoi, strumento di lavoro e di guerra, testimone di un'immane fatica, esso stesso fatica, ma anche invocazione, preghiera, maledizione, incantesimo. O nulla; giaciglio nelle notti d'estate per il contadino che dorme con la berretta piegata sotto la testa.
Come tutte le cose, del resto, in una terra che al più misero oggetto concede una duplice sorte, quella quotidiana e pragmatica della dimensione sensibile e una seconda recondita che sfiora la sfera del metafisico.
C'è sempre un momento in cui chi è nato laggiù percepisce nitidamente questa duplicità di natura e di essenza. E si ferma incantato a contemplarla, come fosse un sortilegio che solo in circostanze propizie disvela agli umani gli straordinari segreti dell'universo.
Carri e soltanto carri, per Torres, quella sera in cui la carovana lentamente si componeva e nell'aria volavano le voci di incitamento dei servi e schioccavano le corregge di cuoio infisse nei manici d'olivastro.
La complicata manovra d'uscita dal cortile su cui s'affacciavano i magazzini che Todde aveva in città veniva ripetuta da ogni carro. Il giogo piegava la cervice fino a sfiorare col muso la terra e imboccava la grande carraia mentre il pungolo cercava la bestia di sinistra per imprimere l'accelerazione necessaria a descrivere in modo appropriato la traiettoria.
Solo una volta la ruota d'un carro colpì il paracarro in granito e il carico sussultò mentre Torres lanciava una voce al carradore distratto.
Il sole calava in un estenuante tramonto che sembrava non dovesse concludersi quando la carovana si compose in linea diritta. In testa i carri con la mobilia tenuta insieme dalle cime di canapa, poi quelli con le suppellettili fini che le coperte avvolgevano, quindi i tre su cui viaggiavano le serve e le provviste di cibo. L'ultimo lo trainavano due immensi tori dal mantello ramato. Portavano le bianche collane dei giorni di festa coi fiori verdi fissati per mezzo di borchie d'ottone, e il bianco e il verde e il color dell'ottone spiccavano sui manti che gli ultimi raggi accendevano sino a farli di fuoco.
Sul carro era stata montata la centina ricoperta da tende e da drappi per formare un padiglione. All'interno, sulle stuoie distese, su quelle arrotolate e disposte come schienali, splendeva un bianco tappeto. Ma inutilmente.
Sophie non aveva voluto sentire ragioni: non desiderava viaggiare sul carro. A nulla erano valsi i mille discorsi sull'asprezza del sentiero, sul buio della notte e sulle molteplici insidie che accompagnano il cammino di ogni viandante.
Era sempre stata un'ottima amazzone e non vedeva perché avrebbe dovuto rinunciare a un modo gradevole di compiere il viaggio per annoiarsi nel fondo del lentissimo carro.
Torres provò a ripiegare su un'altra proposta: l'avrebbe portata con sé sul cavallo. Nella mente si rappresentava l'immagine della donna seduta dietro le spalle, il braccio stretto attorno alla vita, e se ne compiaceva. Cullava un ancestrale ricordo di uomini fieri che tornavano alla terra su focosi cavalli, a stento regolati con la forza della mano che teneva le redini, lo sguardo levato verso l'orizzonte senza vedere la gente ferma ai margini della via. La donna rannicchiata alle spalle forse preda di una rapina.
Sophie intuiva. Rovesciando la testa scoppiò in un'allegra risata: - No, signor mio, vi ringrazio. Posso fare da me.
- Non abbiamo neppure una sella da amazzone - tentò Torres in un'estrema resistenza.
- Fortuna che so farne a meno e potrò dimostrartelo.
Senza dire una sola parola Torres smontò dal cavallo che apposta per lui era stato condotto fin lì dal paese, gli batté la mano sul collo e galantemente offrì il braccio alla donna perché montasse più facilmente.
Dal basso la vide in un controluce accecante seduta sul grande sauro che scalpitava. Notò che la criniera dell'animale e i capelli della donna avevano un identico colore di grano e per un momento rimase ammirato a guardarli.
Un servo lo riscosse presentandogli un altro cavallo. Rifiutò l'appoggio e con un balzo fu in sella toccando lievemente di sproni. Era il segnale della partenza.
Todde, che con donna Vittoria aveva assistito alla scena dal balcone di casa, sorrideva.
Tutti levarono le mani per un saluto e i campani dei gioghi presero a scandire il loro ritmo lento.

Il villaggio di Q., a pochi chilometri dalla capitale, costituiva l'ultimo segno dell'uomo prima del contatto col vasto mondo naturale, coi monti e col mare che attendevano i viaggiatori diretti a C.
A Q. Torres e Sophie arrivarono precedendo la colonna.
La donna aveva spinto il cavallo al galoppo, con un ritmo serrato aveva corso la pianura sfiorando i giunchi e le canne della palude.
Nella piazza di Q. un ramo di palma inclinato sulla facciata di una piccola casa segnava la cantina dove Torres faceva sosta per il congedo dal mondo prima di avviarsi sul sentiero scosceso. Legarono i cavalli agli anelli ed entrarono.
Sophie era accesa nel volto e i biondi capelli liberati dal fazzoletto che li aveva tenuti durante la corsa sembravano illuminare la buia cantina. Gli avventori si fecero da parte senza guardare la donna, rivolto all'uomo un chiuso saluto.
Sedettero al tavolo che l'oste asciugava del vino versato. Torres allungò le gambe, accese un sigaro e cominciò a fumare tenendo le braccia distese, le palme sul tavolo. Sophie lo guardava. Posò una mano sulla sua e gli sorrise.

Quando i carri arrivarono Torres fece un cenno all'oste che portò le brocche del vino agli uomini rimasti di fuori. Sophie si levò e uscì raccogliendo i capelli nel fazzoletto. Torres lasciò due monete sul tavolo e la seguì.
I carri si misero in moto nello stradone illuminato dalla luna.
Camminavano nella bassa pianura in cui la vite cresceva ricca di pampini e profumata. Sophie non aveva mai sentito un aroma tanto intenso: sembrava che l'aria della notte ne fosse impregnata per inebriare i viandanti. I cavalli andavano al passo e nessuno parlava.
D'improvviso lo stradone si ridusse a sentiero, le vigne sparirono e il cespugliato rioccupò con orgoglio il posto che gli era stato assegnato nella notte dei secoli: il mare apparve annunciato dal borbottio dei ciottoli che lieve la risacca muoveva.
- Sembra un grosso gatto che ronfa - disse sottovoce Sophie frenando il cavallo perché il rumore degli zoccoli non turbasse quell'armonia.
Mentre la colonna continuava il cammino discesero il ciglio che li separava dalla spiaggia e si fermarono sulla riva del mare.
La costa sabbiosa segnava un dolcissimo arco che a occidente era chiuso dalla massa scura di un promontorio. Rade luci brillavano in lontananza, forse sull'acqua. Torres raggiunse una piccola duna, colse un giglio di mare e lo porse a Sophie.
Ripresero il sentiero con un trotto tranquillo. In lontananza udivano lo scampanio delle bestie che andavano senza fatica nella pianura.
Prima dell'alba raggiunsero i costoni protesi sul mare. Fermarono i carri e fecero passare le zucche colme di vino.
Poi le ruote cominciarono l'interminabile lamento sui graniti del monte. Salirono e discesero per risalire e discendere ancora. Il mare si avvicinava e si allontanava, alle volte dall'alto lo dominavano, alle volte sembrava dovessero immergersi e le ruote affondavano nella sabbia sfrigolando.
Il sentiero era quasi scomparso, ridotto a un'esile striscia che divideva i macchioni di cisto, passaggio difficile per un cavallo, impensabile per un carro pesante.
Nei passi più aspri un uomo precedeva il giogo, la mano posata sull'estremità del timone, un altro seguiva i buoi sfiorandoli appena col bastone di olivastro. L'uno e l'altro dolcemente parlando come chi ha un affettuoso consiglio da dare. - Piano... da qui... ancora uno sforzo... dai.
Scesero e risalirono per un paio d'ore. Il sole s'era già levato rischiarando le pendici dei monti e le scogliere quando raggiunsero un canalone in cui era segnato il letto di un torrente.
Piegarono a sinistra verso la montagna e raggiunsero una radura ombreggiata dai lecci.
Liberi dalle bestie che lentamente muovevano verso la fonte i carri allineati tendevano il timone intraversato dal giogo come una croce rivolta all'azzurro del cielo. Torres e Sophie discesero dai cavalli, slacciarono le selle che un servo depose in un canto e si diressero verso la sorgente. Al ritorno il fuoco brillava nel focolare di pietra e gli uomini distesi per terra affettavano il pane coi lunghi coltelli.
Una donna si avvicinò con due tazze fumanti di caffè; le altre stendevano le coperte per formare un giaciglio sotto il leccio che cresceva al centro della radura. Torres sedette con la schiena appoggiata al tronco, accese un sigaro e tirò la falda del cappello sugli occhi. Sophie s'era distesa al suo fianco e teneva gli occhi rivolti verso il cielo.
Li risvegliò un profumo di carni che arrostivano. Il sole era alto, ma sotto le fronde degli alberi giungeva un fresco vento di mare. La sorgente formava una vasca trasparente: Torres, tolta la camicia, vi immerse le mani per poi frizionare vigorosamente il petto e le spalle. Sophie gli asciugò i baffi stillanti di gocce dorate. Sedettero sulle rocce che erano piovute nel giorno della creazione disponendo sedile e desco per ciascuno di loro. Al centro i vassoi ornati di mirto su cui posavano le fette di pane che il contatto con le carni appena tolte dal fuoco rendeva fragranti.
Dopo pranzo gli uomini cantarono con voci antiche e cupe versi che parlavano d'amore e di lontane avventure.
Un vecchio volle improvvisare una quartina in omaggio alla padrona:

In d'unu bellu mengiànu
esti frorìa una rosa,
pru bell'esti sa sposa
chi no fuèdda italliànu.

Sophie disse che mai aveva conosciuto poeta tanto abile né ricevuto omaggio più gradito: le donne risero compiaciute, gli uomini lanciarono grida di gioia e si complimentarono col vecchio dandogli vigorose pacche sulle spalle.
Il cantore taceva confuso, forse commosso per la soddisfazione con cui la donna aveva accolto i suoi versi.

Prima del tramonto tutto era pronto per la partenza, i carri disposti in bell'ordine, i gioghi resi forti da una giornata di riposo e di pascolo. Torres levò la destra indicando la strada e la colonna si mosse. Li attendeva un tragitto più breve ma anche più aspro rispetto a quello della notte precedente, attraverso crinali montuosi che salivano erti e altrettanto precipitosamente scendevano tagliati da forre scoscese.
Quando giunse la notte Sophie guardò con stupore la volta del cielo: - Non avevo visto mai tante stelle.
Era un firmamento nuovissimo e scintillante, quello che si offriva allo sguardo, intenso per luminosità, ricchissimo per numero di stelle. La Via Lattea tracciava una striscia nello scuro del cielo.
- Quello è il gran carro e quello è il timoniere.
Torres cavalcava pensoso: - Dicono che la bionda chioma di Berenice fu rapita nel cielo; all'oriente ha Boote, la Vergine a mezzogiorno e tocca all'occidente la coda del Leone.
Sophie lo guardò a lungo prima di chiedergli: - Come sai queste cose?
Torres sollevò le spalle con noncuranza. - Leggo, alle volte. Vecchi libri.
Fermò il cavallo e recitò pian piano:

Quel Conon vide fra celesti raggi
Me del Berenicèo vertice chioma
Chiaro fulgente.

Volse lo sguardo alla colonna che si avvicinava e portò l'indice sulle labbra: - Ssh, che non sentano i miei uomini. Non devono sapere. Mi prenderebbero per matto.
Rise divertito. - Chi ubbidirebbe a un comandante impazzito? È forse credibile un uomo che parla di chiome chiaro fulgenti?
Si protese dal cavallo, sfiorò i capelli della moglie e aggiunse: - Come la tua.
Il cavallo, improvvisamente spronato, riprese il cammino. Sophie rimase un istante interdetta, spronò a sua volta e lo raggiunse. - Ma anche loro amano la poesia.
- Qui tutto è poesia. Quando cala la notte le ombre nei boschi, il rumore del mare, le stelle del cielo, la paura degli uomini: tutto è poesia. Noi guardiamo stupiti e raccontiamo le storie mille volte sentite del tempo in cui le fate che dormono nelle case di pietra sul promontorio di Campulongu venivano sulla terra per incontrare gli uomini. Ma quando il sole sorge le dimentichiamo, le storie. Un uomo che zappa non ha da pensare alla poesia.
Per la prima volta Sophie si accorse che la voce del marito risuonava profonda come una musica dolce.

CAPITOLO OTTAVO

 

Erano attesi quando, due ore dopo il sorgere del sole, varcarono l'alto portone del dominario.
I carri sparirono nelle rimesse. Torres spinse il cavallo fino al centro della corte, si fermò, volse lo sguardo all'intorno e discese.
Affidate le redini a un servo si avvicinò a Sophie e l'aiutò a smontare.
- Benvenuta, signora - le sussurrò prendendola per mano e guidandola verso una bassa tettoia che ombreggiava la cucina.
Sedettero su una panca e aspettarono. Dalla cucina uscirono tre serve che reggevano corbole di giunco ricoperte da tovaglie immacolate. Quando le ebbero deposte davanti ai padroni le due più anziane si ritirarono.
Rimase Dora, giovanissima e chiara di carnagione: si chinò, sollevò la tovaglia liberando una tiepida fragranza di pane appena tolto dal forno. Prese una focaccia e la tese alla padrona dicendo: - Su pani po sa meri.
Sophie non capiva il significato delle parole, ma il gesto era di per se stesso eloquente. Si levò per abbracciare Dora e la baciò su entrambe le guance. La ragazza arrossì, fece un rapido inchino e raggiunse le compagne.
Torres disse: - Oggi è giorno di festa, ogni lavoro interrotto - poi, rivolto alle serve, aggiunse: - Vino per tutti.
Nella corte c'era un forte brusio, mentre i padroni passavano tra gli uomini e le donne che mangiavano il pane caldo e il formaggio portato dai magazzini assieme alle caraffe del vino.
Si diressero allo scalone formato da blocchi di granito che conservavano i segni del taglio e salirono nella veranda dalle arcate rotonde.
Torres disse: - Ecco la casa.
Sophie fece correre lo sguardo all'intorno. L'edificio doveva contare decine di stanze, ma il tono generale veniva dalla vasta corte e dagli archi della facciata principale che costituiva il lato d'un quadrato, gli altri tre formati dalle pareti dei magazzini su cui si aprivano le finestre solidamente ferrate. Percorse la veranda fino al portoncino d'ingresso. Si fermò a osservarlo. Sul portoncino un picchiotto di bronzo, volto leonino che reggeva tra le fauci un anello. Carezzò la criniera dorata prima di azionare il saliscendi e aprire la porta. L'interno era buio.
Attraversò un'anticamera, percorse un corridoio, aprì le porte di tutte le stanze, discese una scala, uscì su una terrazza che dominava la vallata sottostante e le poche case dalle quali era formato il paese. Il sole le ferì gli occhi e preferì rientrare per continuare l'esplorazione.
Altre scale, altre stanze, altri corridoi. Tutto assolutamente vuoto; anche i camini di pietra imbiancati di fresco come le pareti non mostravano traccia di fumo. Sentiva che la casa l'aveva aspettata per incominciare la sua vita.
Mentalmente la ringraziò per quell'attesa e per il fresco che le donava, per il senso di protezione offerto dalle finestre che le grate di ferro dividevano in tanti riquadri, dai muri massicci, dai portoncini ferrati che chiudevano gli anditi e moltiplicavano la sicurezza. Diffuso un odore che imparò a riconoscere come proprio di quegli ambienti, di quelle murature, della calce data sulle pareti, un odore che la casa non avrebbe perduto negli anni e che già sentiva di amare.
Aprendo una porta più piccola varcò la soglia di una camera illuminata da un finestrino aperto all'altezza del volto.
Era la stanza che Torres aveva scelto per sé. Più che un letto un giaciglio; una sedia di paglia, uno scaffale coi libri, un tavolino sormontato dal lume a petrolio. Su un ripiano fucile e pistole. Bianchissime le pareti e prive di quadri. Un vaso sul pavimento conteneva un cespo di elicriso disseccato dal sole ma ancora profumato. Con titubanza Sophie fece due passi avvicinandosi allo scrittoio.
Per la repentina partenza Torres aveva lasciato in disordine qualche libro e pochi fogli sparsi.
Un tagliacarte intercalato tra le pagine conservava il segno in un volume. Sottolineate col lapis le righe in cui l'autore scriveva: - La poca raccolta, comunemente gl'infingardi attribuiscono alle cattive stagioni per non rendere pubblica la loro pigrizia.
Una postilla aggiunta al margine commentava: atteso che le sostanze economiche siano pari all'impresa, il che raramente si dà, almeno da noi.
La curiosità spingeva Sophie che però avvertiva come un senso di colpa l'indiscrezione di quello sguardo rivolto senza permesso alla parte più segreta della vita di un uomo, ancorché suo marito.
Decise d'uscire. Accanto al letto un basso sgabello su cui era posato un volume rovesciato. Sophie lo aprì senza vedere né il nome dell'autore né il titolo.
Lesse due versi:

Alone, alone, all, all alone
Alone on a wide, wide sea!

Chiuse il libro e lo rimise come lo aveva trovato.
Nella veranda l'accolse una luce intensissima.
Torres aveva fatto trasportare le panche e le sedie di ferro.
Su una panca sedeva, le braccia distese sulla spalliera. Gli stivali rossobruni spiccavano nel contrasto con la sedia verde sulla quale aveva allungato le gambe. Sophie lo guardava senza che egli s'accorgesse di lei.
Reggeva tra i denti un sigaro e fumava con brevi boccate senza produrre un filo di fumo. Gli occhi socchiusi rivolti verso i monti circostanti: se non fosse stato per una ruga che gli tagliava trasversalmente la fronte poteva sembrare la rappresentazione vivente della serenità.

Nelle settimane successive la casa si trasformò in un cantiere operoso.
Dalla città venne un pittore che portava una cassa ricolma di polveri colorate.
La cassa fu sollevata sul ponteggio costruito di fretta e il pittore sparì per giorni e giorni alla vista di tutti.
Soltanto Sophie aveva accesso nelle stanze in cui il maestro lavorava, anzi, non lo lasciò mai solo, seguiva la nascita degli affreschi osservando ogni pennellata, ogni colpo di spatola. E suggerendo, chiedendo modifiche, proponendo soluzioni.
Il pittore si volgeva bruscamente verso la voce che giungeva dal basso, deciso a interrompere quella collaborazione che si rivelava estenuante. Ma ogni volta incontrava il sorriso degli occhi azzurri che lo addolcivano e lo riportavano alle fantasie artistiche della gioventù.
La donna che chiedeva alla mano del maestro di piegarsi ai suoi desideri sapeva anche lusingarlo esaltandone le doti.
Una volta gli disse che mai in Francia aveva veduto un simile talento. - Lo sapete, vero, maestro, che avete un grande talento?
Maestro Scano scese la scala, socchiuse gli occhi che si perdevano in un mare di rughe e rispose: - Lo so, signora. Glielo dico come fosse una sorella, senza falsa modestia. Io so quello che valgo, nel bene e nel male, perché ci sono cose che so fare benissimo e altre che non riuscirei a fare neanche se le studiassi mille anni.
Come so che se avessi cercato fortuna nelle strade del mondo, probabilmente l'avrei incontrata, perché queste mani non sanno restare inoperose e questi occhi, grazie a Dio, vedono la giusta luce di una pittura.
Però non ho voluto lasciare la terra dove sono nato, sapendo bene che un contadino mi avrebbe chiamato per dipingere di azzurro e di rosa la facciata della sua casa, che un signore mi avrebbe chiesto, come voi fate, di affrescare la volta e le pareti di un palazzo.
Cos'è tutto questo, signora? Ve lo dico col cuore in mano: è un nulla.
Queste volte voi le vedrete e forse i vostri amici, la mia pittura qui resterà racchiusa e nessuno saprà niente di maestro Scano e della sua arte. Mentre magari nello stesso momento uno che vale dieci volte meno di me dipinge nella vostra Francia le pareti di un'osteria e la gente vede il suo lavoro, molti ne parlano, la voce si diffonde, diventa famoso, lo chiamano qua e là. Eppure, sono immodesto, vale meno di me.
La mia pittura resterà celata fra queste pareti. Passeranno gli anni, vi auguro molti e tutti felici, diciamo fra cento quando io e voi non ci saremo più, le canne marciranno, l'intonaco si staccherà e buonanotte alla pittura di maestro Scano. Di me si perderà anche il ricordo.
Sophie rabbrividiva al presagio: pensava a quella casa come all'eternità invincibile che sfida le intemperie e i secoli, pensava ai figli che sarebbero venuti e avrebbero conservato, come sperava, i luoghi e le memorie. Ma sapeva che il pittore poteva avere ragione.
- Non crediate che io sia scontento - riprese il maestro con una luce beffarda negli occhi - me li giro nello scodellino del colore, tutti i pittori e i critici del mondo, le gallerie famose e la gloria.
Oggi dipingo per voi - continuò facendosi serio - cerco di farlo nel migliore dei modi, con tutto il sentimento di cui sono capace. Sono io, di fronte alla parete bianca, ai pennelli e ai colori. Tutto questo ha una grande dignità. Io dipingo per voi, voi siete contenta, io sono contento di quello che faccio, perché altrimenti non lo farei neanche se mi ricopriste d'oro, e sono contento della vostra soddisfazione.
Cos'altro dovrei chiedere di più alla mia arte? L'immortalità? Siamo seri, deu seu mistu Scanu, nato sulla riva del mare in una terra in cui immortali sono il vento, la pietra e purtroppo la fame. Non siamo a questo punto, né io né voi. Per me lo devo solo ai miei pennelli. Non è già una gran gloria, questa?
Sophie ricordava il vecchio violinista che aveva visto una volta a Notre Dame suonare per i passanti e per gli uccelli del cielo; o forse soltanto per se stesso. Allora aveva pensato che, per quanto umile, quell'uomo apparteneva all'universo della musica e poteva sedere al fianco dei grandi musicisti vissuti nel passato, degno di entrare nel loro paradiso e dialogare con gli antichi maestri dell'arte, intenderne le ragioni ed esserne apprezzato.

Maestro Scano compì il suo lavoro e Torres fu ammesso nelle stanze. Nella camera da letto vide una grande conchiglia al cui interno erano rappresentate le acque di un lago e le vele correvano mosse dal vento; sulle rive le signore con gli ombrellini passeggiavano sfiorate dalle rondini.
Tutto era azzurro, e chiaro, appena un puntino le macchie scure delle rondini.
Nella sala da pranzo l'artista aveva rappresentato una scena di caccia, piccoli veltri e cavalli stilizzati che venivano dal fondo della pittura, mentre in primo piano la preda, una donna dai biondi capelli vestita di un velo che il vento della corsa muoveva.
Così di stanza in stanza Torres passava con la testa rivolta verso l'alto, la bocca aperta. Sophie lo guardava e rideva.
- Ti piace tutto questo?
- Se piace a te.
- No, voglio sapere cosa ne pensi tu.
- Io al posto della donna avrei messo un cinghiale - disse con finto corruccio.
Sophie gli passò la mano fra i capelli scompigliandoli.
- Sei un uomo rozzo e non capisci l'arte - esclamò divertita.

Allorché le donne ebbero terminato il loro lavoro le rustiche mattonelle di terra brillavano rosso cupe quasi fossero un terso pavimento di marmo.
Sophie guidò gli uomini che trasportavano la mobilia e la casa cominciò ad assumere la fisionomia che avrebbe conservato negli anni.
Nella credenza di sua mano dispose il volant lavorato all'uncinetto e le scintillanti serie di bicchieri acquistati assieme a donna Vittoria. Torres venne invitato ad ammirare. Entrò camminando in punta dei piedi, osservò le tende, i tappeti, le sedie, i divani, le trapunte dei letti, i vasi sulla consolle, le specchiere e i quadri alle pareti.
- Bellissimo.
- Non hai altro da dire?
- Ho detto bellissimo. È il massimo.
- Davvero lo pensi?
- Davvero.
- Davvero davvero?
Torres cominciava a guardarsi attorno con preoccupazione cercando dove poter posare la cenere del sigaro.
Sophie gli porse un piattino verso il quale egli protese la mano, ma proprio in quel momento la cenere si spezzò e cadde sul tappeto.
L'uomo mostrava una faccia contrita. - È un segno del destino.
- Cosa vuoi dire?
- Voglio dire che qui tutto è molto bello, ma come potrò entrare, io, con i miei stivali impolverati, con i miei abiti che odorano di campo?
- Tu qui sei il signore.
- Macché signore, sono un contadino.
- Potresti toglierti gli stivali, calzare le pantofole...
La interruppe con un gesto brusco, mentre il viso simulava un'ira profonda. Le strinse il polso e la portò verso la sua stanza. Dallo scaffale trasse un grosso volume. - Stammi bene a sentire, donna francese, tu hai ancora molto da imparare della lingua italiana.
Sfogliava rapidamente le pagine del libro. - Questo è un vocabolario. L'ha scritto il signor Trinchera che conosce ogni parola della lingua italiana e a lui io interamente mi affido nei casi dubbi; quando un problema è troppo complesso il significato della parola mi aiuta a trovare la soluzione.
Sophie lo guardava senza capire se l'uomo scherzasse o fosse veramente adirato.
- Dunque, vediamo. Pantofola: ecco cosa dice il signor Trinchera: specie di calzatura donnesca senza quartiere e col solo tomajo sotto al quale sta il piede.
- Ora guardami bene e dimmi: hai mai visto qualcosa di donnesco in me? Come hai potuto pensare, anche per un solo momento, che io potessi circolare senza quartiere?
Gli occhi gli ridevano mentre riponeva il volume.
Sophie lo guardava perplessa, forse un po' spaventata.
- Non ti capisco.
- Voglio soltanto dire - spiegò con un volto che si era fatto improvvisamente serio - che non sono uomo da chicchere e piattini. Tu qui sei la padrona e puoi fare qualunque cosa ti aggrada. Quanto a me terrò la mia stanza in cui la cenere può cadere per terra senza problemi e gli stivali polverosi magnificamente si adattano allo sgabello su cui stendo le gambe.
Ho bisogno di uno spazio in cui non viga altra legge se non la mia.
Sophie continuava a guardarlo perplessa.

Dormivano in un altissimo letto dalle spalliere di ferro. Sul capo le onde del lago che maestro Scano aveva dipinto. La fiammella della stearica faceva tremolare le onde e il paesaggio lacustre si animava, le vele correvano più veloci, le signore stringevano forte l'ombrellino temendo che il vento potesse strapparlo dalle loro mani quando le rondini volavano basse annunciando la pioggia imminente.
Torres allungava due dita verso la candela dopo averle inumidite a contatto con la lingua. Stringeva lo stoppino che sfrigolava spegnendosi.
Ed era, fino al canto del gallo, il buio più fitto.

Una mattina svegliò la moglie poco prima di giorno.
- Vieni con me.
Sophie si lasciava condurre ancora intorpidita dal sonno.
Salì sul cavallo del marito, si appoggiò alle sue spalle e continuò a dormire.
Si risvegliò nel folto di un canneto.
- Dove siamo?
Guardava intorno stupita: il cavallo avanzava tra le canne, il paesaggio circostante completamente nascosto, impossibile per lei capire dove fossero arrivati.
- C'è profumo d'acqua - disse e Torres sorrise.
Le canne, che prima sfioravano le gambe dei cavalieri, diradavano aprendo un sentiero.
A una svolta Torres trattenne il cavallo che si fermò.
- Cosa fai? - chiese Sophie, mentre egli, sceso di sella, armeggiava con un involto.
Lo sciolse e Sophie vide un'ampia mantella scura; Torres la sorreggeva con due dita, la faceva ruotare e la posava sull'omero destro. Con la mano sinistra le diceva d'attendere e poi spariva dietro la svolta del sentiero.
Dopo un poco riapparve, senza una parola impugnò le redini del cavallo e cominciò a camminare. Fatti alcuni passi il sentiero incontrava un ruscello che un rudimentale ponte permetteva di superare.
Torres prese in braccio la moglie e la depose per terra. Facendosi da parte come in un inchino le indicò con la destra la strada.
Sophie camminava. S'accostò al ponticello e vide che la mantella lo ricopriva: la calpestò sorridendo.
Superato il ruscello il sentiero si richiudeva e le canne formavano una volta che impediva la vista del cielo. A ogni canna era appeso un grappolo di fiori dell'acacia spinosa, morbidi grani dorati che diffondevano un dolce profumo.
Sophie sorrideva e continuava il cammino sapendo che stava per incontrare un'altra sorpresa.
Tra le canne un nitrito le disse che era giunta.
La cavalla attendeva col puledro: entrambi avevano il manto color porcellana.
Si avvicinò alla cavalla e la baciò sul muso, poi prese la cavezza e tornò sui suoi passi.
Torres, seduto in riva al ruscello, volgeva le spalle al sentiero.
Li sentì arrivare e senza voltarsi disse come se intonasse una canzone: - Un qualunque individuo dotato della giusta creanza avrebbe allestito la più bella pariglia, avrebbe steso il proprio mantello, avrebbe fatto cortine di rami e di fiori.
Si voltò e soggiunse: - Che cosa di meno per voi, mia signora?
A Sophie che rideva le lacrime scendevano lungo le guance.

 


CAPITOLO NONO


- Per questo mi avete chiamato?
Torres con le ciglia aggrottate guardava il cognato.
Todde si levò dalla poltrona sulla quale sedeva e lo prese affettuosamente sottobraccio.
- Ma no, avevo desiderio di vederti dopo mesi di lontananza. Dimmi, piuttosto, come stanno le bambine?
Torres rispose con cortesia, ma la sua mente era altrove, occupata da un pensiero molesto che non lo lasciava.
- E via - esclamò Todde - mi pare che tu stia facendo una tragedia per una cosa da poco.
- Non faccio tragedie, e comunque non è una cosa da poco.
- Ah no? E cos'è mai, forse un delitto di lesa maestà, la richiesta che ci hanno fatto perché assistiamo un funzionario del Governo?
- Io dico solo che non ho né piacere né tempo da dedicare a un bellimbusto che viene da fuori.
- Parola mia, alle volte penso che la vita in campagna ti abbia dato alla testa facendoti scordare le regole del vivere civile.
Todde strinse con le mani le braccia del cognato e guardandolo negli occhi gli disse in tono scherzoso: - Non hai ancora quarant'anni e parli come un vecchio bisbetico. Cosa sarà del tuo carattere quando avrai raggiunta la mia età? Fortuna per me che non sarò qui a sopportarti.
A sua volta Torres gli strinse le braccia con affetto.
- Vediamo - riprese Todde con calma - in fondo, di che cosa si tratta? Ci chiedono di dare assistenza a un gentiluomo che viene in missione per visitare i luoghi della casa di pena.
Siamo confinanti, siamo gente di mondo, abbiamo alcuni e non trascurabili interessi in comune con quei signori, non ultimo quello concernente la sicurezza nelle campagne dove vivi con la tua famiglia. Un vecchio amico mi chiede di prestare un minimo d'assistenza al colonnello Cravèro che giunge da Torino. Mi dici cosa può venirne di male?
- È un militare? - si informò Torres.
- Ha lasciato la carriera delle armi per assumere la direzione dell'istituto di pena.
- Bel mestiere!
- Lascia perdere le ironie e dimmi perché vuoi negare una ospitalità di pochi giorni che non si rifiuta a nessuno.
- Vi risponderò con le parole che ripeteva la buon'anima di vostro cugino, il professore Todde, Dio l'abbia in gloria. Quello era un uomo che sapeva vedere le cose.
- Vuoi forse dire che io non le vedo? - sorrise Todde.
- Non mi permetterei mai - rispose Torres ricambiando il sorriso - il mio, anzi quello del professore, è un discorso di carattere generale, uno sguardo sulle situazioni reali, a prescindere dalle opinioni dei singoli, dal fatto che vedano o non vedano quello che capita.
- Siamo caustici, questa mattina.
Ma dimmi almeno in che cosa consiste questo benedetto discorso.
- Ricordate la faccenda della nave?
- Quella battezzata col nome dell'isola?
- Proprio quella. Il professore diceva che se i trenta a passa milioni spesi per la nave fossero stati impiegati per inalveare i devastatori torrenti dell'isola rendendo più produttive le campagne che sono aride sei mesi dell'anno, la nostra gratitudine verso il Governo sarebbe stata più grande.
- E questo cosa c'entra?
- C'entra, c'entra, e come se c'entra. Voi lo sapete quanto lo so io. Cosa ha fatto il Governo per la siccità dell'anno appena trascorso? Cosa ha fatto quando i nostri grani che Dio solo sa come li abbiamo lavorati inaridivano sulla spiga nei campi? Cosa ha fatto quando improvvisamente siamo diventati tutti signori e abbiamo cominciato a mangiare carne ogni giorno, tanto non c'era più acqua per abbeverare le bestie ed era meglio che le mangiassero i cristiani, piuttosto che lasciarle morire l'una dopo l'altra in foresta? Cosa ha fatto l'anno in cui il fiume è sceso e si è portato le terre, i frutteti e anche una casa con tutta la gente che c'era dentro, donne e bambini? Sono io che devo dire tali cose a voi che le sapete meglio di me? Ma se abbiamo costruito tutto da soli dove c'era il deserto e non passava anima viva. L'abbiamo inventato noi, il villaggio di C. Il Governo l'ha scoperto quando si è trattato di farci pagare le tasse. E adesso cosa vogliono, che gli alloggiamo i funzionari, che sopportiamo le loro insolenti frascherie di signori di città, che mostriamo tutte le nostre miserie, perché poi le possano raccontare con un brivido di emozione nei salotti della capitale, oppure a Torino? È piemontese, vero, questo signor Cràvero?
- Cravèro - lo corresse Todde.
- Cràvero o Cravèro, sempre sarà la medesima cosa: un azzimato damerino pieno di presunzione.
- Ma se non lo conosci neanche.
- Conosciuto uno li hai conosciuti tutti.
- Mi pare che tu ragioni un poco all'ingrosso. Ed è strano: in genere sei uomo cauto e capace di vedere la varietà degli aspetti che compongono ogni singolo fenomeno. In questo caso, invece, ti mostri più chiuso del più chiuso fra i tuoi contadini.
Torres parve calmarsi e aggiunse col tono di chi si confessa:
- Tutto quello che abbiamo costruito, tutto ciò che ho fatto nel corso di questi anni, ogni cosa è stata realizzata nonostante ci fosse un Governo, nonostante ci sia un'iniqua tassazione, nonostante noi col nostro lavoro dobbiamo anche mantenere coloro che fanno vita elegante e comoda nella capitale e nelle grandi città dell'Italia, convinti di essere dei padreterni e che noi siamo selvaggi non ancora toccati dallo spirito della civiltà. Che Iddio ce ne scampi. E passi. Ma che poi me li debba trovare tra i piedi, che debba fare i salamelecchi e accoglierli come se fossero i grandi uomini che vogliono far credere di essere, ebbene, questo mi pare aggiungere la beffa al danno.
- Nessuno ti chiede di fare salamelecchi. Accoglilo, dagli l'assistenza di cui ha bisogno, mostragli la terra e i suoi problemi come la cortesia e l'ospitalità ci impongono di fare. Se poi il suo comportamento dovesse apparirti arrogante, non ti mancano certo i modi per farlo stare al segno.
Torres non sembrava per nulla persuaso, ma capiva che Todde aveva le sue buone ragioni: non gli stavano a cuore soltanto le sorti dell'azienda di C. e pensava all'insieme della proprietà, nella cui conduzione si rendevano necessarie le cautele e le studiate attenzioni che nel caso anche a lui chiedeva di usare.
- Allora siamo d'accordo - Todde concluse - e per il resto avremo modo di riparlarne stasera. Ceneremo assieme, naturalmente.

Vittoria e Guglielmina furono ammesse nella sala in cui gli adulti attendevano che la cena fosse servita.
Una donna impettita, chiusa nella veste nera, condusse le bambine fino alla poltrona in cui Todde sedeva. Egli scherzosamente scompigliò i loro riccioli chiari mentre affondava le dita nel taschino del panciotto per cercare una mentina.
- Todde - ammonì donna Vittoria - non vorrai dare alle bambine una di quelle orribili mentine che conservi assieme alle briciole del tabacco.
Todde sollevò gli occhi al cielo e poi si volse allargando le braccia verso Torres che lo guardava divertito.
- Venite, bambine - chiamò donna Vittoria e da una scatola prese due biscotti.
- Sono un amore - disse rivolta a Sophie - e le vesti con grande eleganza.
- La magia è nelle mani di Dora - rispose Sophie - lei taglia e cuce la stoffa.
Donna Vittoria osservava gli abitini di velluto che una balza ravvivava, più chiara, e il pizzo sul collo.
- Dora?
- Certamente.
L'ho trovata a C. che era appena una ragazza. Anzi, è stata la prima persona che ho salutato arrivando. Non avrei mai supposto di scoprire laggiù mani altrettanto abili e una grazia innata, un gusto sicuro, quasi fosse sempre vissuta in una grande città.
- Ma, son suoi anche i disegni?
- No - rise Sophie - i disegni li prendiamo dalle riviste che arrivano dal continente. Con un po' di ritardo, ma arrivano anche quelle che inviano le mie sorelle.
Dalle finestre la luce del sole che tramontava nelle acque del golfo giungeva venata d'un rosso che a poco a poco andava spegnendosi. Il vento diffondeva il profumo del mare.
- Chi è nato in questa città li porta con sé per tutta la vita gli odori delle calate del porto e delle marine.
Todde annuì pensieroso: - Fragu 'e trìsgia.
Zia Climene sedeva immobile nella grande poltrona di cuoio. L'ultima luce del sole faceva risaltare la spilla appuntata sul nastro di velluto che portava al collo.
Donna Vittoria tirò il cordone che pendeva quasi nascosto dal disegno della tappezzeria. Dalle stanze vicine giunse l'eco attutito della campanella e subito entrò una donna che reggeva il lume a petrolio. Lo depose al centro del tavolo, azionò i contrappesi e fece discendere la lampada centrale. Con uno stoppino acceso alla fiammella del lume attivò i becchi del lampadario e le candele nei doppieri che ornavano il cassettone. Prima di uscire chiuse gli scuri e fece scorrere le pesanti cortine.
Era il momento in cui le bambine dovevano ritirarsi. La governante le prese per mano e le condusse in cucina.
Anche zia Climene, sorretta da un grande cuscino, sedeva al tavolo tondo su cui una serva aveva posato la zuppiera fumante.
- È la fregula che hai portato, Peppino, - disse donna Vittoria - cucinata nel brodo di pesce.
Torres sorrise. - Mi fa piacere, sorella, che tu apprezzi i prodotti della nostra povera terra.
- Non scherzare, Peppino. Tu sai quanto mi piaccia, la terra. Ma questo non significa che io possa approvare la tua stravaganza di voler tenere colà una signora in attesa d'un figlio e le sue bambine.
- La signora in attesa d'un figlio, or sono quindici giorni, è salita a cavallo fino a Niu 'e crobu.
Donna Vittoria si segnò con aria di sdegno: - Gesù, Giuseppe e Maria, proteggete voi questi poveri figli.
Sophie rideva piegando leggermente la testa.
- Vittoria - disse - sempre speriamo che i figli li protegga il buon Dio. Ma un poco di moto non ha mai fatto male a nessuno e non è il caso di invocare la protezione divina per una passeggiata a cavallo.
- E tu chiami un poco di moto l'ascesa tra quelle rocce dove solo il falco dimora? E per cosa, poi? per trovare quattro sterpi e un cespuglio pettinato dal vento.
- Quattro sterpi, tu dici? Ma sai che di lassù lo sguardo può dominare un panorama incomparabile, la chiusura del golfo e l'incontro fra due mari che una sottile striscia di terra divide e il promontorio su cui domina la fortezza vecchia? È come il disegno trapunto in una stoffa preziosa. Il bianco e l'azzurro, le acque del mare e quelle più cupe dello stagno, lo scuro colore della campagna e il cielo che si confonde col mare. Non credo, non credo proprio di aver visto un panorama più bello. Solo una volta, nel quadro di un pittore che aveva viaggiato per i mari del sud, dall'altra parte del globo. Una veduta fatta di spiagge in filigrana, di sottili strisce di terra e di palme chinate sull'acqua del mare. Ma l'aria che soffia da noi, a marzo, quando viene il maestrale, è più sana e io credo che questo figlio ne trarrà beneficio e sarà forte, e maschio come Torres lo vuole.
- Siete tutti matti - fu il secco commento. - Ma, in nome di Dio, perché non rimani questi mesi in città? Già due volte hai rischiato; come puoi pensare ancora una volta di rinunciare a ogni assistenza in un luogo privo di medici e medicine, dove mai neppure per sbaglio è passata una semplice levatrice?
- Senza assistenza? - chiese Sophie - e le donne che mi circondano? Ne hanno aiutati a decine, figli che vengono al mondo forti come carrubi.
- Figli degli uomini e delle cavalle - aggiunse Torres sapendo di provocare lo sdegno della sorella - e i vitelli che nascono come Dio ce li manda e il bovaro li cresce, robusti e capaci di reggere il giogo più greve.
- Siete tutti matti - ripeté donna Vittoria - ma almeno... almeno trovate un modo più comodo per viaggiare nel vostro ritorno.
- D'accordo, Vittoria, d'accordo. Prenderemo il vapore.

Sembrava infittirsi, la bruma, quando arrivarono alle strade della marina.
Così da due giorni: la mattina il selciato splendeva come fosse bagnato di pioggia e dai tegoli delle case sgrondava a grosse gocce l'umidità. I battelli nel porto parevano sagome irreali che si celavano dietro un velo e gli uomini a bordo sentivano uscire da quella opacità il suono delle campane senza poter dire da quale chiesa venisse.
- Siete proprio decisi a partire?
- Ci mancherebbe che un poco di nebbia dovesse fermarci - diceva Sophie e Torres approvava, intimamente sicuro della forza che la moglie in ogni circostanza mostrava.
- Ci mancherebbe, è solo un poco di nebbia.
E salivano sul vapore con le bambine in braccio. Li attendeva una breve navigazione; senza accostare alla riva la nave avrebbe fatto sosta nel golfo di C.
Dalla cala della fortezza vecchia sarebbe partito un barcone che avrebbe raccolto i viaggiatori prima che il vapore riprendesse la rotta per il continente.
Alloggiate Sophie e le bambine, Torres era salito sul ponte mentre la nave doppiava la diga del porto. Una raffica di vento lo investì violenta e tentò di strappargli il cappello. Torres lo mantenne per la tesa e si dispose a gambe larghe come chi voglia sfidare l'inclemenza del tempo.
Così camminava, calcando con forza ogni passo e la sua andatura rispecchiava quella della nave che si inclinava a ogni bordata di vento ma procedeva egualmente verso la meta.
Su e giù lungo il ponte, la mano racchiusa a proteggere la brace del sigaro che consumava rapidamente e aveva un gusto più intenso.
Gli spruzzi arrivavano superando la murata, bagnavano gli stivali, bagnavano il dorso della mano che proteggeva il sigaro.
Il cielo era ormai scuro. I fanali illuminavano appena le sagome dei passeggeri accovacciati sul ponte, stretti ai ripari che le strutture di bordo potevano offrire, accoccolati tra i cordami che a prua formavano grandi mucchi disposti con precisione. Gli uomini parlottavano, le donne stringevano gli scialli, i bambini come Dio vuole dormivano, quando non si lamentavano con un monotono pigolio. Di tanto in tanto Torres aspirava col labbro inferiore le gocce salse che gli imperlavano i baffi.
Camminava a passi larghi contro vento e ogni passo calcato sul ponte gli dava un senso di vigoria. Col mozzicone accese un nuovo sigaro e continuò a pendolare senza fermarsi.
Tenuto a una cima un uomo guardava la scia che per un momento vorticava chiara prima di perdersi in un'angosciante oscurità.
- Se uno cadesse in quell'acqua, sarebbe perduto - gli disse come continuando un discorso.
Torres annuì pensieroso.
- Dio ce ne scampi.
E l'uomo commentò che se da quella disgrazia magari li scampava, altre e forse più grandi erano comunque in agguato tanto da non sapere cosa fosse meglio, se un male certo e immediato o uno diluito nel tempo ma comunque atteso come inevitabile.
- Foras mala - replicò Torres tendendo un sigaro e l'altro a sua volta presentò una bottiglia cavata dal tascapane.
- Dove stai andando?
- E chi lo sa.
La battuta era secca ma non ostile, allusiva piuttosto a una condizione che non ammette certezze, e neppure ragionevoli ipotesi. Come gli spiegò, dicendo che la vita s'era fatta per lui insostenibile al paese dov'era nato e campava privo di mezzi, sfinito da una battaglia che non dava speranza.
- Non so se la signoria vostra mi può capire - aveva aggiunto.
Torres lo rassicurò. - Ognuno ha i suoi guai.
E su questa massima trovarono un filosofico punto d'intesa che annullava le distanze sociali e li metteva in condizione, come fecero, di dialogare degli eventi calamitosi dai quali gli uomini possono essere trascinati, l'uno qui e l'altro lì, apparentemente diversi, ma in fondo soggetti a una comune precarietà.
Il mare rinforzava il suo moto e si scagliava con crescente violenza sulle fiancate della nave. I bambini piangevano e le donne pregavano - Nostra Sennòra - mentre gli schiaffi dell'onda colpivano la nave impedendone quasi il procedere.
Il capitano decise che in quelle condizioni era rischioso doppiare il capo di C. e preferì mettere la nave alla fonda all'interno del golfo su cui dominava scura la torre, in attesa di giorno.
Torres intravedeva i profili dei monti e qualche raro lume che indicava le capanne dei pastori.
- Io vivo qui - disse al suo compagno di viaggio e mai quel luogo gli era apparso tanto lontano che appena una mezz'ora di barca separava dalla murata della nave.
Scese a trovare Sophie. Le bambine dormivano, tutto appariva più calmo, sottocoperta. Neanche per un istante pensò di distendersi a riposare. L'aria chiusa gli dava un senso di oppressione che non riusciva in alcun modo a vincere. Prese dalla sacca un'altra scatola di sigari e risalì sul ponte.
Il vento continuava a soffiare, impossibile scendere nella barca per raggiungere la riva. Nonostante il riparo della costa la murata si alzava e si abbassava con movimenti repentini che l'oscurità rendeva paurosi.
- Si stancherà - sentenziò l'uomo che aveva atteso nella sua solitaria postazione.
Insieme sedettero e dissero della forza del vento, del movimento del mare, degli infiniti luoghi dove un uomo può andare, portato dalle onde per cercare la sua fortuna. Finché l'alba non venne, grigia e bagnata da un pulviscolo d'acqua, ma calma dopo tutto quell'ondoso rumore della notte.
La barca si staccò dalla riva e giunse sottobordo. Fu abbassata una scala di corda e due marinai aiutarono Sophie e le bambine.
Torres si volse al suo amico: - A si biri mellus.
- Deus bòllada.
La barca avanzò senza troppa fatica fino alla foce del fiume e vi entrò placidamente. Sulla riva il carradore faceva retrocedere il giogo dei buoi che si chinavano riottosi. Il carro portò le ruote fin dentro l'acqua, il pianale a sfiorare la barca.
Sophie passò senza bagnarsi, Torres prese le bambine e le depose sul carro mentre il pungolo già saettava nell'aria - ahià, ahià - e i buoi tesero la cervice in uno sforzo supremo liberando le ruote dalla sabbia e dall'acqua.

Ai piedi della salita Sophie scese dal carro e proseguì al fianco del marito. Si guardava attorno cercando i segni che il tempo aveva inciso sulle piante rattrappite per il freddo.
- Chissà come sarà il giardino - rifletté ad alta voce e pensava al lavoro che l'aveva appassionata fin dal suo arrivo a C.
Aveva fatto scavare forme profonde che erano state colmate di terra d'orto. Ogni forma era stata circoscritta da una bordura in granito e aveva accolto le sementi: Sophie studiava i cataloghi scegliendo gli accostamenti dei colori e le forme delle piante.
Il marito non aveva espresso un solo commento nel vedere che l'arida corte a poco a poco si trasformava, ma apprezzava il lavoro della moglie, quel modo impetuoso di aggredire i problemi, come se le sorti dell'universo dipendessero dall'attecchimento di un roseto, dalla fioritura degli ireos.
Per la nascita delle figlie avevano piantato un albero.
- Un arancio per Vittoria e un limone per Guglielmina - diceva Sophie mentre attraversavano l'androne e sbucavano nel giardino. Si fermò appoggiandosi ancora più al braccio del marito - Torres, per il maschio vorrei crescere un olmo.
- Non si è mai visto un olmo, quaggiù.
- E questo cosa significa?
- Significa che non sono terre, che non sono climi per gli olmi.
- Io vorrei un olmo.
- E olmo sia, mia signora, se saprai educarlo e vincere le asprezze del luogo. Ma prima, - aggiunse sollevandole il mento e guardandola dritto negli occhi - prima bisogna vedere questo figlio maschio che dici.
- Ogni cosa a suo tempo - rispose Sophie e si avviarono a prendere le bambine dal carro che in quel momento era entrato nel dominario.


CAPITOLO DECIMO


- Cravèro, sono il colonnello Maurizio Cravèro. Il signor Torres, suppongo?
- Per servirvi - e Torres tese a sua volta la mano al colonnello che accennava un inchino.
- Vi ho riconosciuto al primo vedervi, e non poteva essere diversamente, dopo ciò che mi ha detto di voi il vostro signor cognato col quale ho avuto un incontro in città. Un vero gentiluomo, come ritengo sia raro trovarne da queste parti, e quale anche voi apparite, faro di civiltà al povero viandante stranito per il lungo cammino attraverso luoghi tanto aspri e selvaggi.
- Già - rispose Torres socchiudendo gli occhi.
- Il signor Todde con grande liberalità mi ha accolto e ha promesso che qui da voi avrei trovato ogni aiuto nel tempo del mio soggiorno: spero sia breve perché non voglio incomodarvi più di quanto non debba fare per le esigenze del mio ufficio.
Torres fece un cenno come per dire che non metteva conto di sprecare parole su un tale argomento.
- Il mio incarico mi conduce quaggiù e ancora non so quale sia la situazione della casa di pena, né se colà esista quanto necessita a un gentiluomo che le durezze della vita militare hanno forgiato ma che pure, per l'andare degli anni, abbisogna di qualche comodità.
Torres annuì. - È evidente.
- Voglio intanto ringraziarvi per la cortesia con la quale vi siete spinto fin qui a incontrarmi. Dista molto il villaggio di C.?
- Mezz'ora al piccolo trotto. Ma andiamo, piuttosto. Il sole comincia a picchiare.
- Siamo solo a maggio - commentò il colonnello - chissà come potrò sopravvivere nel cuore dell'estate, in questa landa africana; sempre che ordini superiori non mi richiamino prima a diversi incarichi - e scopriva il capo mostrando i cortissimi capelli biondastri che conservavano l'impronta del panama col quale faceva vento al viso congestionato.
Torres lo osservava con uno sguardo quasi indiscreto, guardava i servitori del colonnello che pure avvampavano sotto i raggi del sole. Volse uno sguardo ai suoi uomini, immobili sulle cavalcature, composti nelle vesti scure. Solo allora si accorse che l'interlocutore indossava un gilet chermisi e dentro di sé sorrise.
- Se il signore vuole seguirmi in poco tempo saremo a casa.
Misero i cavalli al trotto e si avviarono lasciando dietro le spalle una piccola scia di polvere.
Mezz'ora più tardi gli zoccoli risuonavano sui basoli dell'androne. Il colonnello scivolò dalla sella e si appoggiò allo stipite della porta carraia tergendo il sudore dal volto.
- Ho un gran mal di capo.
- Starete meglio dopo esservi rinfrescato - e lo fece accompagnare al suo appartamento.

La colazione era pronta nella sala che gli scuri socchiusi rendevano ombrosa.
Il colonnello accasciato sulla chaise longue fresca per la paglia di Vienna riposava.
Sophie entrò, il suo incedere reso regale dall'imminente maternità. Il colonnello si levò riunendo i tacchi con un rapido schiocco.
- Sophie, ti presento il colonnello Cravèro. Colonnello, mia moglie.
Con un profondo inchino Cravèro baciò la mano che Sophie gli porgeva. - Non avrei mai immaginato di trovare tanta bellezza in un villaggio sperduto - disse galantemente.
Sophie rispose con un sorriso. - Vi ringrazio per il complimento e vi invito alla nostra mensa: avrete bisogno di ristorarvi, dopo tanto cammino. Ma, di grazia, volete spiegarmi perché chiamate sperduto il luogo in cui noi abitiamo?
Torres scostò la sedia sulla quale la moglie sedette mentre le donne portavano i bricchi del caffè fumante.
- Oh bella - esclamò stupito Cravèro annodando un tovagliolo attorno al collo - ma naturalmente io penso ai luoghi capitali del mondo civile rispetto ai quali questo villaggio si trova oltremodo defilato.
- E quali sarebbero codesti luoghi capitali ai quali vi riferite con tale entusiasmo?
- Dico Roma, come è giusto che sia, in primo luogo, per quanto forse da piemontese dovrei dire Torino, e più ancora Parigi, Londra, Madrid.
- Tutti centri, mi pare, tra loro assai distanti, come il signore vorrà convenire, fino a concludere che il concetto di luogo sperduto non può risolversi in un mero calcolo della distanza.
Sophie fece una pausa e con un leggiadro cenno della mano soggiunse: - Quale altro elemento, allora, sarà necessario per definirlo?
- Ma la civiltà, come è chiaro a chiunque - proruppe incautamente Cravèro.
- Volete dire - riprese dolcemente la donna - che noi siamo incivili, quindi?
Il colonnello si accorse dell'errore e cercò di rimediare. - Né l'ho detto, né mai l'ho pensato.
- Ma la logica non consente altra soluzione, signore, se le vostre parole hanno il senso che mi è parso di cogliere.
- Forse ho espresso male un pensiero, in nessun caso, questo è certo, potevo riferirmi a voi che non siete nativa della terra, anzi, a quanto sento, venite di Francia.
- Mio caro colonnello, senza avvedervene continuate a peggiorare la situazione. È vero che qui io non sono nata, ma, se ci pensate, il mio starvi per una scelta ragionata, l'avere avuto possibilità diverse, conoscenze che mi consentono di istituire confronti, occasioni ancora attuali di trasferirmi in città, tutto questo conferma che ho dei motivi, e forti, per aver eletto come mia questa terra e per dolermi se altri la disprezza.
Torres imburrava con metodo una fetta di pane appena indorata dal fuoco e nell'operazione appariva interamente assorto. In realtà ascoltava il colloquio, ammirava lo spirito della moglie e le era profondamente grato per il sentimento che sapeva esprimere in tono così misurato.
- Alla fine converrete con me - riattaccava Cravèro - che la vostra famiglia non può in alcun modo essere ritenuta una tipica famiglia dei luoghi. Voi siete francese e vostro marito, qualunque sia la sua origine, non ha nella voce una sola inflessione che lo dipinga come originario dell'isola.
- Colonnello - disse Torres piantando entrambe le mani sul tavolo. Sophie gli posò una mano sul braccio.
- Colonnello - ripeté con tono più urbano - voglio farvi una confessione. Io un poco ho viaggiato e ho conosciuto uomini nati in regioni diverse: ogni qual volta ho parlato con uno di loro, sempre ho cercato di capire il senso del discorso, senza lasciarmi distrarre dall'inflessione con la quale la parola era pronunziata, ancorché la trovassi sgradevole, come devo dirvi che l'ho trovata nella gran parte dei casi. Mai a nessuno ho detto: voi parlate così e così, e una simile osservazione la giudico indegna di una persona dabbene. Volete sapere quanti, invece, hanno ritenuto opportuno soffermarsi, come anche voi fate, sul mio modo di pronunziare la nostra lingua comune? Moltissimi, e non per deridermi, ma per segnare a mio merito, così ritenevano, una diversità che sembra distinguermi dai miei conterranei. Quasi che il modo di parlare degli altri isolani fosse improprio e finanche ridicolo, con me si complimentavano per aver scansato una colpa. Ebbene, già che siamo in vena di reciproche confidenze, voglio dirvi che dopo ogni viaggio, nell'avvicinarmi al porto d'imbarco per la mia terra, sempre ho cercato con particolare soddisfazione queste voci basse e armoniose che qui sentite, queste parlate chiuse che sono l'espressione sonora di un modo d'essere tutt'altro che disprezzabile, questi suoni spezzati che con la loro asprezza spiegano le difficoltà di una vita condotta in situazioni di fronte alle quali poco valgono le chiacchiere, assai più la tenacia e il taciturno coraggio.
Tacque un momento e quindi riprese con un sorriso che allarmò Sophie: - Non giudichiamo, signore, non giudichiamo la gente dal modo in cui parla. Potrebbe anche accadere che le nostre pronunzie delle quali meniamo vanto, come mi pare di comprendere che voi facciate della vostra elegantemente arrotata, siano giudicate dagli altri assolutamente insopportabili.
Il colonnello ebbe un moto improvviso come volesse replicare, ma Sophie lo prevenne proponendo con grazia:
- Il signore vorrà farmi l'onore, mentre attende l'arrivo dei suoi bagagli, di accompagnarmi in giro per le marine. Vi sono, all'intorno, scorci veramente degni di nota.
Poi, rivolta al marito, chiese con un sorriso:
- Puoi far preparare il calesse?
I due uomini si levarono in piedi mentre Sophie lasciava la stanza.

- Razza di somaro.
- Cosa ha detto, padrone?
- Niente, pensavo.
Andavano per la vigna grande, viale dopo viale, osservando i grappoli che si formavano e promettevano una vendemmia abbondante.
In quella terra Torres amava recarsi e a lei dedicava cure particolari. Così, sfidando le opinioni dei vecchi, aveva piantato un filare di lecci lungo il muro di recinzione e ora le piante cominciavano a levarsi orgogliose e segnavano col loro profilo il panorama della piana.
- Cosa ci fa il leccio nella vigna? - dicevano e Torres rideva:
- Verrà il giorno in cui ci farà piacere restare seduti all'ombra e dimenticare per un poco il lavoro. O siamo condannati a lavorare sempre, noi?
- Se la pigli in napoli, il lavoro - e chinavano la schiena proseguendo nella loro fatica.
Così i lecci erano cresciuti, una fila ordinata che scandiva la veduta del mare in regolari cornici. Bastava levare lo sguardo per vederli, il mare e le piante, orizzonte prezioso della vigna grande.
- Questo l'ha spezzato il vento - disse il servo mostrando un tralcio stroncato e il padrone fece una smorfia per fargli capire che se fosse stato legato come l'arte comanda quell'irreparabile danno non sarebbe successo. Così continuavano, l'uno avanti e l'altro dietro, saggiando con la punta dello stivale la consistenza della terra attorno al ceppo per vedere se la zappatura aveva sgranato la zolla fino a trasformarla in soffice farina.
- Bisogna spietrare - commentava il servo e colpiva col piede la pietra che rinasceva dopo ogni aratura, sempre vigorosa e abbondante nonostante le cure degli uomini.
- Faremo tutto ciò che c'è da fare.

- Non l'immagina neanche, quell'asino - e Torres pensava alle mani curate del colonnello Cravèro, ai ridicoli fiocchi che s'annodava attorno al colletto in un supremo sforzo di stravagante eleganza.
Questo servo che accanto a lui camminava e ancora bruciava per il rimprovero del tralcio strappato, questo servo dalla camicia sette volte stramata e sette rammendata con mano paziente, questo servo anche per quel damerino spendeva la sua fatica: per garantirgli gli onori e il rispetto del mondo.
- Sta arrivando un carro.
Il servo indicava il sentiero che scende lungo la costa, prima di imboccare la breve pianura che porta al villaggio di C.
Un carro e poi un altro: dovevano essere i bagagli del colonnello Cravèro.
Montarono a cavallo, percorsero lo stretto sentiero segnato dalla siepe del fico d'India, sbucarono nello stradone fermandosi all'ombra del macchione formato dai pioppi che affondano le radici nell'acqua del ruscello.
I sonagli dei buoi annunciarono l'arrivo dei carri.
Avanzavano lentamente; il carro di testa col cerchio interamente affondato nella polvere della strada.
- Cosa porti?
- Acqua.
- Acqua?
- Acqua - rispose il carradore allargando le braccia.
- Non è colpa mia, padrone.

I cani e i cavalli dipinti da Maestro Scano correvano nella volta senza stancarsi, anche la donna correva col suo velo fiorito e gli uni e gli altri non sembravano provare stanchezza, piuttosto ridevano con le bocche socchiuse e guardavano gli uomini che si muovevano nella sala.
- Ha portato l'acqua - diceva Torres.
- L'acqua? - chiedeva Sophie.
- Si, l'acqua. Un intero carro carico di casse che contengono le sue bottiglie d'acqua.
Sophie rideva, i cani e i cavalli ridevano, la dama del soffitto, dimentica del tragico inseguimento, protendeva le mani verso il basso e rideva.
Solo Torres passeggiava su e giù per la sala col volto cupo.
- È venuto fin qui con un carico d'acqua. Ma dove crede di essere arrivato, nel deserto del Sahara, forse?
Sophie abbracciava il marito. - E tu la prendi come un'offesa.
- Se non fosse per Todde lo caccerei a pedate, quel mezzo uomo.
Sophie osservava il corruccio del marito e non smetteva di ridere e di abbracciarlo.
- Mi prendi in giro.
- È l'ultima cosa che farei, signor Torres, tu lo sai bene. Anche se il mio uomo forte è così delizioso, quando si perde per un nonnulla e gli occhi gli s'intempestano come fosse capitata una grande tragedia.
- Cosa dovrei fare, secondo te?
- Ma è semplice: a chi viaggia con l'acqua, tu offri del vino.

Il colonnello Cravèro arrivò inappuntabile nell'abito scuro sotto il quale riluceva il gilet di un pallido grigio.
Sophie lodò la sua squisita eleganza e sedettero a tavola.
- Ho avuto un pensiero per voi, colonnello.
- Ne sono onorato, signora.
- Ho fatto calare nel pozzo due delle vostre bottiglie perché raffreddassero. Potrete bere dell'acqua freschissima.
Il colonnello profuse mille ringraziamenti per la squisita attenzione e si disse particolarmente lieto d'aver occupato, sia pure per pochi attimi, la mente di così bella signora.
Torres, chino su un tagliere di legno, affettava obliquamente una ben stagionata salsiccia.
Affettava con cura seguendo l'andare della lama che scendeva affilata fino a incontrare il tagliere.
In quell'atto impiegava ogni energia e si astraeva dal mondo circostante, senza ascoltare il civile scambio di cortesie tra Sophie e il colonnello Cravèro.
D'altra parte il gentiluomo lamentava le pessime condizioni del suo stomaco provato da contrazioni e bruciori e la donna pietosa suggeriva i rimedi dell'antica virtù contadina, commiserava il sofferente e augurava salute.
Fortuna che Torres non ascoltava: il suo umore bislacco gli avrebbe fatto giudicare indegno di tanta attenzione un miserabile viscere, specie se appartenente al corpo infrollito di un cittadino.

- Posso bere soltanto del tè.
- Oltre che la vostra buona acqua, naturalmente.
- Così è, mia signora.
- E come farete nel corso del soggiorno tra noi?
- Se Iddio mi assiste sarà breve, ho avuto ampie assicurazioni d'essere presto chiamato a più alto incarico.
- Per la qual cosa tutti noi - disse Sophie sottolineando col tono il noi in modo da richiamare l'attenzione del marito - tutti noi vi facciamo gli auguri più alti.
Torres, del resto, già li ascoltava e pensava a quel Dio che si mostrava indifferente riguardo alle sorti dei grani nei campi ma doveva occuparsi della progressione in carriera dei funzionari governativi. Sentiva il riaccendersi dei propri crucci e per un istante si chiese se non fosse davvero un'ossessione contro la quale conveniva lottare, come spesso gli diceva Sophie.
- A chi viaggia con l'acqua, tu offri del vino - aveva suggerito la donna: forse valeva la pena provare.
- Nessuno qui ha mai mangiato la salsiccia senza bere un poco di vino.
Il colonnello Cravèro era un uomo di metodo. Prima di partire per raggiungere la destinazione verso la quale era stato chiamato aveva consultato un'ampia letteratura riguardante i costumi di quelle terre lontane in cui avrebbe dovuto operare.
Così aveva appreso di usi barbarici, di primitive suscettibilità, di sacre concezioni sull'ospite che potevano però venir meno per un'offesa, presunta o reale che fosse.
Il rifiuto del vino, come poteva essere inteso da una mente che albergava nelle spoglie d'un uomo di qualche garbo, ma pur sempre soggetto ai climi, alle costumanze, alle primordiali seduzioni di una razza irrimediabilmente segnata?
Gli occhi del colonnello rivelavano l'interiore travaglio.
- Nessuno ha mai mangiato salsiccia senza bere un poco di vino.
L'affezione dispeptica contro l'ansia mortale.
- Appena un dito per brindare a una dolce signora e al suo prossimo figlio.
Torres inclinò la caraffa e il liquido rosso fluì nel bicchiere del colonnello fino a riempirlo. Una goccia cadde sul lino della tovaglia e si dilatò come macchia di sangue.
- Alla salute.
- Prosit.
Sophie bagnò le labbra con occhi che ridevano.
Torres vuotò il calice senza un sorriso.
Cravèro sollevò il bicchiere, aspirò l'aroma roteando la mano, assunse un sorso e racchiuse le labbra formando un cuore grinzoso.
- È dolce - sorrise, indugiò ancora un momento poi cominciò a bere senza fermarsi finché non vide il fondo del bicchiere.
- È dolce - ripeté con un sospiro.
- Attento, colonnello, - disse Torres con voce che risuonò lieta - il dolce inganna. Sono diciassette gradi.
- Davvero, signore, fatti salvi i miei problemi di stomaco, io vengo da una terra che vanta antichissime vigne. Mai avevo assaggiato un vino siffatto che ci riporta ai tempi di Omero, alle vigne delle isole greche bruciate dal sole, agli uomini che levavano i calici in onore degli dei. Davvero, signore, vogliate accettare i miei complimenti.
Torres, per rendere compiuta l'immagine omerica, fece un cenno alle donne che portarono in tavola gli arrosti fragranti.

Nella testata del letto una mano d'artista aveva disegnato un paesaggio lacustre velato di nebbia. Dai cirri emergeva la rovina di un tempio greco e una palma si stagliava nel cielo in compagnia di frondosi rami d'albero che nessuno avrebbe potuto identificare ma che testimoniavano nordiche condizioni di clima. Sotto quell'improbabile paesaggio Torres e la moglie trascorrevano le loro notti.
- Il tuo vino ha fatto il miracolo di conquistare il barbaro.
Sophie accarezzava la mano di Torres che sollevava la spalla con noncuranza, convinto che non sarebbe potuto accadere altrimenti.
Ciò nonostante rimase stupito quando la moglie gli rivelò che la sera, mentr'egli era fuori, il colonnello le aveva chiesto se non fosse possibile acquistare una partita di vino da trasferire ai suoi alloggi nella casa penale.
Naturalmente la donna aveva risposto che in nessun modo l'acquisto sarebbe stato possibile ma che la cantina era a totale disposizione del signor colonnello perché attingesse ogni qual volta i suoi bisogni lo avessero reso necessario. Con mille ringraziamenti galanti Cravèro aveva accettato il dono giurando che in ogni luogo sempre avrebbe magnificato le doti di una così amabile signora e del suo industrioso marito.
Torres accolse senza un commento la resa incondizionata del nemico.
Soltanto le chiese: - Hai trovato i recipienti per il trasporto?
- A questo ha pensato il colonnello Cravèro.
- Cravèro?
- Sì, proprio lui. Ha ordinato ai servitori di vuotare nel pozzo una per una tutte le bottiglie della sua leggerissima acqua e il carro è già pronto a partire con le casse colme di bottiglie di vino. Torres, - concluse Sophie - devi avere pazienza, se i tuoi pozzi oggi accolgono acqua sgorgata dalle sorgenti alpine. Non sarà poi un gran danno.
Le quiete onde del lago furono scosse da uno scoppio di risa che sembrava irrefrenabile.

 

CAPITOLO UNDICESIMO


All'alba partirono, i carri carichi al seguito del colonnello Cravèro e gli uomini a cavallo.
Formavano una piccola colonna che avanzava nel fresco della campagna prima che i raggi del sole cominciassero a colpire.
Traversarono le grandi vallate in cui la vigna si levava orgogliosa.
- Non avrei mai immaginato che fosse così - commentava Cravèro.
- Vent'anni fa, di tutto ciò che vedete non c'era neppure la traccia. Se qualcuno mai fosse passato di qui avrebbe trovato bassi cespugliati e ciottoli lasciati dalle alluvioni.
Abbiamo creato gli argini, voltato e rivoltato la terra, raccolto i sassi, tracciato i filari, piantato i ceppi, curata la crescita e ora raccogliamo i frutti spremendo le uve che danno il vino di cui vi siete invaghito.
- Capisco; lo vedo, per quanto non sia il mio mestiere, ma è opera che parla da sola. Ciò che soprattutto colpisce è l'armonia dell'assieme.
Torres recitò: - Il guardar buon ordine non solo è utile per la vaghezza e proporzione, ma eziandio per la facilità di vindemiare e coltivare.
- Chi l'ha detto?
- Un autore nostro, poco più di un secolo a oggi.
- Dal modo in cui lo dite deduco che questo autore è un isolano. Posso chiedervi, signore, perché dite vostro e non nostro, essendo che siamo uniti in un medesimo regno?
- Nostro, ripeto, regnicolo, come allora dicevano, di questa terra che sempre ha vissuto in totale separatezza e i rapporti che ha avuto con altre nazioni non le hanno giovato. Anzi, tutti si sono trasmutati in una insoffribile perdita.
- Non vi capisco.
- Senza far torto alla vostra intelligenza, non mi stupisce.
Nessuno, mai, di quelli che per qualsiasi ragione sono venuti, ha capito i bisogni della terra. Molti hanno cercato di portar via tutto ciò che riuscivano a cogliere, alcuni si sono accontentati di raccontare ciò che a loro sembrava che fosse.
Né gli uni né gli altri ci hanno reso un servigio. Né noi abbiamo chiesto servigi a chicchessia. Solo che rimanessero nella loro terra e lasciassero a noi la nostra, buona o cattiva che sia.
- Vedo in voi una chiusura che mi stupisce. Non sfocia in ostilità solo perché un tratto civile lo impone.
- Ostilità, per Dio, caro colonnello, che razza di idea. Personalmente non ho mai sprecato alcun sentimento. Che senso avrebbe esprimere ostilità nei vostri confronti, quando apparite uomo capace di comprendere le cose, se le osservate senza prevenzioni? Con chi comprende c'è sempre un punto d'intesa. Salvo però il mio diritto di ritenervi, non fraintendete l'espressione, fuori posto.
- Fuori posto?
- Sì, colonnello, fuori posto, perché al di là dei vostri personali convincimenti, di quelli che oggi avete e di quelli che in seguito avrete continuando a osservare con attenzione il dispiegarsi dei fenomeni, siete pur sempre un missus dominicus in una terra che troppi padroni ha sopportato in ogni età e senza un solo vantaggio.
- Ma non vi pare, signore, che, a prescindere dalle mie capacità, io venga, in fondo, per un civile servizio dal quale l'intera nazione deve ricavare beneficio? Un servizio, vogliate scusare la franchezza, particolarmente necessario in quest'isola e per il quale non mi pare che qui abbondino le personalità necessarie.
- Con altrettanta franchezza, ma vi prego di credere, mio caro colonnello, senza alcun malanimo personale, vi devo dire che non di galere abbiamo bisogno ma di più alte opere civili.
E quanto alle personalità che mancherebbero ho sempre pensato, e mi pare cosa fin troppo ovvia, che un mediocre ingegno di qui valga più di un'eletta mente che viene da fuori e non conosce le situazioni, le circostanze, i problemi, i temperamenti degli uomini, le loro necessità, l'animo che li spinge.
Credetemi, l'unica cosa di cui abbiamo bisogno è d'essere lasciati soli, finalmente nella condizione di fare per conto nostro.
- Ma quanti sarebbero, poi, gli uomini vogliosi e capaci di fare? Di voi non si discute, ho visto, vedo, apprezzo. Quanti sono quelli come voi?
- E come potremo mai saperlo, se soltanto a pochissimi è data la possibilità di fare? Ma non vi accorgete che è insostenibile questa vostra pretesa di perenne tutela?
- Non parlo di tutela ma di aiuto, di suggestioni tecniche, perché anche tra voi si formino le esperienze e le capacità. Mi spiego con un esempio. Prima di partire da Torino ho letto il libro di un mio illustre conterraneo che parla del rifiorimento della vostra isola e spiega come e qualmente lo si potrebbe realizzare attraverso un appropriato sforzo agricolo.
Se gli isolani avessero seguito quei suggerimenti, avessero assimilato quelle istruzioni...
- Se l'avessero fatto avrebbero capito quello che valgono, cioè niente. Impressioni fugaci di uno che viene, viaggia rapidamente attraverso la terra, tratteggia con modi brillanti descrizioni e proposte, riceve onori, prebende, incarichi e va a goderseli altrove. In realtà non ha compreso niente e il suo piano, concepito per altri luoghi, altri paesaggi, altri climi, altri temperamenti di popoli è totalmente inapplicabile.
- Mi fa specie che voi la pensiate così, quando molti uomini, anche vostri conterranei ed eminentissimi, hanno espresso le loro lodi.
- Colonnello - ribatté Torres con pazienza - diffidate sempre delle lodi e delle troppo veloci approvazioni. E diffidate dei servi, di quelli che servilmente assoggettandosi eseguono le azioni senza conoscere il fine.
Che vantaggio potrete trarre dalle loro lodi?
- Ma ci sono, fra voi, coloro che come prescrivete sanno del fine e conoscono i modi delle azioni per raggiungerlo?
- Certo che ci sono - rispose Torres. - Uno di questi è l'autore di cui prima abbiamo parlato. Nel suo libro tutto è spiegato, il come e il perché. Basterebbe ascoltarlo.
- Siete allora sordi?
- E ciechi - concluse Torres tristemente.
- Ma ora bando alle malinconie, colonnello, guardate piuttosto questa natura che dinnanzi ai nostri occhi si offre bella come Dio l'ha fatta e ricca come l'abbiamo resa con il nostro lavoro.
Le vigne si perdevano fin dove l'occhio arrivava, pampini carnosi che crescevano verso il cielo e la mano dell'uomo riportava, come doveva, al ceppo affinché il grappolo venisse gonfio d'umori e colorito fino a scoppiare. Le vallate e i fianchi delle colline erano segnati dalla nitida geometria dei filari e il sole che s'alzava nel cielo esaltava i profumi.
- Sentite l'odore della vigna: è come una promessa d'amore - e aspirava l'aria osservando il volto del colonnello Cravèro che prendeva colore.
Il sordo rumore degli zoccoli risuonò in una stretta gola.
Allo sbocco del sentiero si fermarono per cogliere una brezza di vento.
Di fronte a loro una nuova vallata si stendeva e vista dall'alto appariva miniaturizzata, scolpiti i muri di pietra che correvano per linee longitudinali e testimoniavano l'immane raccolta effettuata per rendere produttivi i campi dove ora le vigne si alternavano ai rigogliosi frutteti. Sulla sinistra i macchioni del lentisco annunciavano la montagna che fin laggiù digradava ancora aspra e diceva dei lontani grovigli di roccia e vegetazione culminanti in sette altissime cime.
Sotto i grandi carrubi un recinto delimitava la corte in cui le pecore si ritiravano per meriggiare. Più in alto ogni traccia dell'uomo spariva e il pero selvatico segnava l'inizio d'un regno in cui si poteva accedere solo col capo chino, sfiorando i rami spinosi e gli intrichi del cespugliato.
Scesero al guado senza fretta: nella sabbia del fiume l'impronta fresca del cervo che era venuto per bere e ora vagava nel bosco di cui era signore.
- È vostro? - chiese Cravèro indicando il territorio circostante.
- Così dicono le carte che sono fatte dagli uomini. In realtà io e questi che ci accompagnano possiamo appena aprire un sentiero tra i rami che immediatamente si chiudono cancellando ogni traccia del nostro passaggio. La proprietà si conquista quando siamo capaci di introdurre un segno che resta, la zolla rivoltata anno dopo anno, l'argine che guida la piena, l'innesto del perastro che diviene nostro sodale.
Se guardate con attenzione potete trovare la traccia del cinghiale che scava il terreno del cisto, l'orma di margiàni che canta ogni notte la sua canzone. A loro appartiene tutto ciò che si leva da questa strada fino alla cima dei monti.
Ripresero la via che serpeggiava tra i campi. Salirono, discesero e ancora salirono su un piccolo colle dalla cui sommità scoprirono l'azzurra distesa del mare.
Cravèro fischiò lievemente e il cavallo si fermò.
Nessuno diceva una sola parola per non disturbare l'ospite che osservava all'intorno.
- Io sono nato tra dolci colline che alte montagne sorvegliano. Non conoscevo un mondo come questo aspro ma amabile.

Raggiunsero una fattoria nella cui corte un bambino giocava e le galline razzolavano calme.
- Di chi sei figlio? - domandò Torres con voce che sembrava brusca.
Il bambino guardò verso i cavalli coprendosi gli occhi con una mano e farfugliò un nome.
- Maria! - chiamò Torres e una donna uscì dalla casa asciugandosi le mani nel grembiule.
- Oh, su meri.
- Abbiamo sete.
- Il vino è finito, padrone.
- E cosa dirà il forestiero?
- Eh, lo saprà anche lui che in questa stagione il vino è finito e per il nuovo bisogna aspettare novembre.
- Avrai almeno aceto?
- Si, padrone.
Entrò in casa e tornò con una brocca d'acqua e un fiasco d'aceto, versò l'acqua e la macchiò con poche gocce d'aceto.
Bevevano in silenzio mentre le galline insolenti beccavano gli zoccoli dei cavalli.
Torres chiese: - E Mundèddu?
- Uhm, non è uomo che se ne stia in casa. È partito prima dell'alba per andare all'orto.
- Così gli piace - disse Torres risalendo a cavallo.
- Digli che venga a casa, se ha bisogno di vino.
- Deus si du pàghidi, su meri.

I cavalli andavano al trotto e Cravèro chiedeva spiegazioni sul discorso che aveva ascoltato.
- Lavora per voi?
- Nel tempo della potatura e della vendemmia. Per il resto campa come gli viene. Ha un piccolo orto: due ore a dorso d'asino da qui per andare, altrettante per tornare. Un fazzoletto di altopiano perduto sul monte, però ha acqua abbondante e i pomodori crescono dolcissimi. Potrete approfittarne: non dista molto dalla casa di pena. Vi consiglio il suo miele.
- Miele?
- Del più buono. Le api pascolano sul fianco del monte, ogni stagione un fiore diverso e il miele è più scuro o più chiaro, sempre il migliore.
Tacque un momento prima di dire in un soffio - Mundèddu parla con le api che gli ubbidiscono. È il solo che può smielare senza bisogno di fumo.
Cravèro lo guardava pensando scherzasse ma Torres concluse serissimo: - Mundèddu dice: un po' a me che vi ho costruito la casa, il resto per voi che lo lavorate. Quelle capiscono e gli sciamano intorno senza pensare d'offenderlo. Mundèddu tiene in bocca un mozzicone di sigaro acceso e soffia il fumo sulle più audaci: al tuo posto, canta, e prende un poco di miele ma non guasta il favo perché quelle possano vivere.
Cravèro ascoltava senza parlare.

La strada si abbassava.
Fecero una svolta, superarono un ponticello di pietra, imboccarono un breve rettilineo e poi compirono un'altra svolta.
Il carcere apparve imponente, circondato da giovani piante che cominciavano a dare ombra all'intorno.
- Sembra un palazzo reale.
- Non l'avrei immaginato così - e Cravèro notava la simmetria della grande facciata di pietra al cui centro s'apriva il cancello finemente lavorato: nessuno avrebbe mai detto che era stato costruito per una casa di pena, per un palazzo, piuttosto.
- Ha un bel decoro - diceva Torres e Cravèro si innalzava sul cavallo con evidente soddisfazione.
- Sembra un piccolo Escorial - mormorò; poi, volgendosi al suo interlocutore pronunciò con convinzione: - Vedete, signore, la mano del Governo. In quale altra parte della vostra isola un simile edificio? quale privato potrebbe pensare di erigere un'opera come questa? Anche voi, scusate, che in un luogo deserto avete costruito una magnifica abitazione... ma cosa è la vostra casa al confronto di questa? Voi mi capite se parlo dell'impronta che gli uomini incidono sul mondo, e allora rispondetemi: quando mai tutti gli sforzi congiunti dei vostri conterranei avrebbero potuto realizzare un simile segno di civiltà costruttiva? Solo gli stretti legami col Regno lo hanno prodotto.
Torres lo guardava pensoso.
- Vediamo quale può essere l'inizio di un ragionamento accettabile. L'edificio ha una sua indubbia imponenza, io stesso l'ho detto. Mi chiedo: basta questo per definirlo un segno di civiltà? Non diciamo dell'uso cui è destinato, so bene che abbiamo opinioni diverse, e siano pure le mie giudicate stravaganti. Diciamo allora della costruzione. Sapete voi, colonnello, chi ha costruito questo edificio e a che prezzo? No? ve lo dirò brevemente, ma potrebbero dirvelo anche i miei uomini e gli altri che vivono in queste campagne e che sanno. L'ha costruito la frusta.
- La frusta?
- Le fruste degli aguzzini che incitavano i prigionieri. Ogni colpo un passo e le pietre salivano sempre più in alto per ornare la facciata.
- Ogni costruzione è costata fatica, e noi oggi riguardiamo con meraviglia e ammirazione. Prendete le piramidi dell'Egitto. Sappiamo della schiavitù, delle sofferenze, della morte di quanti hanno faticato fra quelle sabbie; ma non possiamo non guardare ammirati l'ingegno di chi ha progettato sapendo di sfidare il deserto. E i secoli. Così è nata la nostra civiltà.
- La vostra.
- No, signore, la civiltà dell'occidente cristiano.
- Come dire che discendiamo da Eva, comune progenitrice. È l'indistinto in cui tutto si appiattisce e non riusciamo più a vedere i contorni delle cose.
- Ma di quali contorni parlate? francamente non vi capisco. Siete o non siete anche voi e tutti quelli che vi circondano figli della stessa civiltà che ha segnato l'Italia, l'Europa, il mondo conosciuto? perché volete negarlo? perché rinnegarla?
- Io non rinnego niente, se mai aggiungo.
- E cosa potete aggiungere?
- Colonnello, gli zoccoli del vostro cavallo posano su una terra antica che ha conosciuto un rigoglio oggi spento, non dimenticato. Voi avrete visto, percorrendo l'isola, le torri circolari degli antichi castelli, avrete ammirato la squadratura della pietra, i conci finiti che mani ora dissolte hanno levato verso il cielo a difesa della gente, dei villaggi, dei campi di grano e delle bestie. Costruzioni che non sfigurano al cospetto di nessun edificio. Bene, i costruttori di quei monumenti dell'ingegno e della forza dell'uomo erano esseri liberi, nessuna frusta li incalzava ma il pensiero del comune vantaggio. Io li sento terribilmente quegli antichi che mi hanno preceduto sullo stesso suolo, che hanno avuto le mie stesse difficoltà e hanno saputo vincerle nel migliore dei modi. So che sono miei antenati e ne sono orgoglioso. Da loro viene la forza che mi fa guardare a testa alta l'universo mondo.
Cravèro ascoltava con attenzione.
- Quanto alla mia casa - proseguì Torres in tono più basso - quanto alla mia casa, e ammettiamo pure che non racchiuda il massimo delle qualità architettoniche, ma pur sempre è ciò che di meglio fosse possibile costruire quaggiù, quanto alla mia casa io meno un unico vanto: non c'è uomo impiegato nella sua edificazione che possa dire di non aver ricevuto il compenso pattuito. In aggiunta un bicchiere di vino che non si nega a nessuno.
Torres passava una mano sulla fronte sudata.
Cravèro tirò verso di lui le redini del cavallo e gli disse con fare cavalleresco:
- Signore, non condivido il vostro punto di vista ma comincio a comprenderlo, il che non è poco, tra uomini che si rivelano tanto diversi.
Fece un sorriso e aggiunse amichevolmente: - Diversi. È un modo di dire. In realtà abbiamo molti punti in comune: il vostro stato sociale, il vostro censo, la vostra cultura, il gusto per la lettura che rivelate, tutto questo e altro ancora mi dicono che assomigliate più a me di quanto non assomigliate a uno degli uomini che vi stanno dietro le spalle. Non potete considerarmi straniero e vostro nemico solo perché vengo dal mare.
- Nemico? - Torres gli restituì il sorriso - io non considero nemico nessuno. Tanto meno voi che siete un gentiluomo e venite dalla terra in cui mia madre è nata. Io conservo nel cuore il ricordo dei suoi azzurri occhi celtici: quel ricordo mi commuove ancora oggi che mi avvio a diventare vecchio.
I chiari occhi di Cravèro si illuminarono. - Ecco un altro punto in comune.
Torres lo guardò severamente: - Colonnello, la somma di tutti questi punti in comune dà poco più che niente. Una poesia che entrambi amiamo è assai tenue legame, al confronto del sangue. Se mai dovessi scegliere tra voi e il più bruto di questi uomini, quello il cui volto è segnato da due dita di ispida barba e dagli occhi che scintillano cupi, ebbene, sappiate che non avrei esitazioni.
Le ruote dei carri rimbombarono sotto la volta dell'androne, prima che il cancello venisse richiuso.

La sera cenavano in un'ampia sala che completava gli appartamenti del direttore.
Torres osservava divertito come Cravèro fosse riuscito a trasformare gli ambienti disadorni in luoghi d'impensabile raffinatezza.
L'intero palazzo e gli uomini che lo abitavano sembravano risentire di quella ventata di sconosciuta eleganza.
I candelabri risplendevano su un mobile rosso di foggia orientale che Cravèro aveva acquistato in chissà quale lontana campagna e aveva portato con sé vincendo le mille difficoltà del trasporto.
Due carcerati in abito da servitori si muovevano con passo felpato; i guanti bianchi passavano e ripassavano sotto il naso di Torres, ora spostando un gran mazzo di fiori che la moglie del magazziniere, prontamente interpellata, aveva dichiarato di essere ben lieta d'aver coltivato se potevano ornare la mensa del signor direttore, ora disponendo le caraffe del vino o portando i vassoi degli antipasti.
- Come in una nave - diceva Cravèro cui l'esercizio del ruolo di comando aveva restituito lo smalto dei giorni migliori - alla mia destra l'ospite onorato, qui, accanto a me, il mio secondo, di fronte, a capotavola in modo che siamo vis à vis, il dottore.
La finestra aperta sulla vallata lasciava intravedere una leggiera foschia.
Cenavano e conversavano allegramente: il vino di Torres ai cibi e ai discorsi aggiungeva il suo brio.
Quando venne il momento del fumo Torres e Cravèro si ritrovarono sprofondati l'uno accanto all'altro in due comode poltrone, le gambe distese su bassi sgabelli.
Torres sfilava la paglia dal sigaro, lo inumidiva passandolo tra le labbra, lo accendeva aspirando brevi boccate. Poi appoggiava la testa sul cuoio dello schienale, circonfuso da nubi azzurrine.
Il colonnello armeggiava con la pipa, cavava dalla borsa uno scuro tabacco che profumava d'incenso, caricava il fornello e accostava la fiamma dando il via a una serie di rapide e rumorose boccate.
Torres trovava irritante quel rumore di labbra e in uno stato di tensione attendeva che, spento lo zolfanello, il vicino cominciasse a fumare.
Stettero in silenzio un buon quarto d'ora, poi Cravèro disse:
- Vorrei farvi una domanda che forse potrà sembrarvi indiscreta.
- Può essere una domanda che non sia indiscreta?
Gli altri commensali chiacchieravano senza udire i loro discorsi.
Cravèro, privo del pubblico di fronte al quale sapeva brillare, provava una sorta di timidezza. Quell'asserzione secca, finanche scortese, non era certo un viatico per la conversazione che voleva avviare.
L'interlocutore lo guardava accigliato, una ruga profonda tra gli occhi.
Cravèro abbozzò un sorriso.
Torres rimase impassibile.
- Diavolo d'un uomo - pensava Cravèro - si capisse una volta quello che pensa; facesse un segno, un gesto, un movimento di palpebra per significare che prova interesse.
- Almeno consentirete - disse con voce che suonava spigliata - che io esprima un pensiero.
Ebbe per tutta risposta un movimento di ciglia che volle interpretare come un assenso.
In quel momento s'accorse che la pipa era spenta e tra schiocchi e tra sbuffi riprese la pantomima dell'accensione.
Torres a stento riusciva a dissimulare il fastidio.
Quando come Dio volle la pipa fu accesa Cravèro riprese il discorso.
- Vi siete mai chiesto quali siano gli scopi precisi della mia missione?
L'ospitalità data e ricevuta faceva da freno agli umori di Torres, senza la quale il colloquio avrebbe pericolosamente inclinato verso un'assai rapida conclusione.
- Come se non avessi altro a cui pensare - si diceva Torres - se non al motivo per cui è venuto fra noi il signor colonnello.
Ma ricordò la battuta d'un vecchio servo che gli aveva borbottato con un sorriso d'intesa: - Esti propriu unu bellu frori custu collonèllu Gravèllu.
Allora sorrise. E sorrideva ancora quando rispose: - Naturalmente no, colonnello.
L'amor proprio di Cravèro avrebbe desiderato un'altra risposta, la sua intelligenza sapeva che niente di più poteva pretendere da un interlocutore tanto scorbutico.
Fece appello alle virtù diplomatiche per riprendere il filo del discorso.
- Dovete sapere, signore, che il Governo ha molto interesse per questa terra.
Uno scintillio ironico negli occhi di Torres gli spezzò la parola in bocca.
Si armò di pazienza e riprese: - Qualunque cosa voi ne pensiate, davvero, il Governo ha interesse. Io sono qui come un esploratore...
- Tra i pellirossa - bofonchiò Torres.
Cravèro capì che era un braccio di ferro e decise di vincerlo a qualsiasi costo. Allora disse con voce decisa e tutto d'un fiato per evitare nuove interruzioni:
- Oltre ai miei compiti direttivi qua dentro, ho avuto l'incarico di stringere relazioni, di conoscere luoghi e persone, di valutare su quali energie può contare il Governo.
Nei giorni passati ho visto ogni cosa con attenzione, ho parlato coi vostri vicini, praticamente con tutti i proprietari della zona, ho osservato come sono condotte le terre, come vengono allevati i bestiami.
Credo di non sbagliare se dico che per una vasta zona all'intorno voi siete il primo.
Torres sollevò leggermente la mano destra per dire che tutto ciò aveva così poca importanza. - Lasciatemi concludere. Tutto ho visto e valutato. Mi sono persino invaghito del vostro vino eccellente - aggiunse con uno sguardo di complicità - e in tutto sono diventato un vostro ammiratore.
Per la seconda volta Torres sollevò lentamente la mano, ma Cravèro era deciso ad andare fino in fondo.
- Avete mai pensato quali migliori risultati potrebbero essere conseguiti se voi per primo e l'intera popolazione dell'isola, tutti lavoraste in armonia con i progetti governativi?
L'attenzione generale fu richiamata da una sonora risata.
Torres rideva come raramente gli capitava di fare, rideva con la gola e col cuore. Il dottore e l'ufficiale lo guardavano, guardavano il volto scurissimo del colonnello Cravèro. Si avvicinarono.
Cravèro disse lentamente: - Il mio amico gioca a fare il capo della tribù ostile.
Torres smise di ridere, si levò in piedi, fece qualche passo fino a portarsi dietro la poltrona e appoggiò le mani sulla spalliera come fosse il bordo di una tribuna.
- Cravèro - disse con tono secco - qui non si tratta di tribù ostili e, soprattutto, non si tratta di giocare. La faccenda è maledettamente seria e ve la posso riassumere in due battute.
Sono più di vent'anni che esercito il mio lavoro. Poco, molto che io valga, l'ho fatto con impegno totale, senza un momento di interruzione, né Natali né Pasque e con me hanno lavorato decine e decine di uomini. Abbiamo campato la vita, io e loro, con le nostre forze e, se voi me lo consentite, con il nostro ingegno. Abbiamo affrontato mille difficoltà: la forte ignoranza che abbiamo, l'esiguità delle nostre energie, l'ostilità della natura e le avversità del tempo. In un modo o nell'altro siamo riusciti a sopravvivere. Le messi crescono, le frutta maturano, la vigna dà il vino, le bestie si riproducono e forniscono latte e pelli.
Fece una pausa e proseguì con un ruggito: - Ma mi dite a che cosa serve tutto questo se lo Stato ci chiude i mercati, ignora ogni nostro problema e di noi si ricorda soltanto quando vuole tosarci? Me lo volete dire, una buona volta, colonnello, e senza tanti giri di parole? Progetti governativi, dite, ma cosa sarà mai questo governo e fino a quando potrà pensare di prenderci per il naso?
Sembrava senza energie quando concluse con voce più bassa:
- Cravèro, voi siete un uomo d'intelligenza: avete diverse convenienze, ma difficilmente, se ci pensate con mente serena, potete rifiutare di vedere l'evidenza delle cose. Lo capite si o no? questo è un popolo in tutto diverso dal vostro, una gente con la sua storia e con la sua lingua che solo per un accidente della sorte si trova a convivere con altre genti che vengono da altre storie e hanno diversi modi di pensare e di esprimersi. Soprattutto hanno diversi interessi.
Vi ringrazio dell'onore che mi concedete, ma a costo di apparire scortese debbo dirvi che non riesco a vedere quali armonie possiamo stabilire tra noi.
Non c'era alcun segno d'ira nel volto del colonnello Cravèro allorché domandava: - Vi ho osservato, in tutti questi giorni, e credo di aver cominciato a conoscervi, ho seguito le vostre geometriche dimostrazioni, ho ascoltato le parole che dite, lapidarie come aforismi. Mi chiedo: non vi assale mai il dubbio? come fate a essere così certo della verità?
Torres sorrise: - Oh, la verità. Il filosofo ha detto: se Dio mi offrisse con la destra la verità e con la sinistra la ricerca della verità, una strada irta di dubbi e di incertezze, non avrei esitazione a imboccarla.
Io non credo di possedere la verità, caro amico, e ogni giorno mi interrogo e ho dubbi e tentennamenti, non pochi.
Ma anche penso che un uomo d'azione, quale io sono per il mio ruolo nel vivere sociale, deve scegliere una ragionevole linea di condotta e anche riguardarla per gli inevitabili aggiustamenti, ma pur sempre deve seguirla con la necessaria coerenza.
Immaginereste voi un cavaliere che discende veloce un sentiero di monte e a ogni svolta si interroga agendo ora sulla redine destra ora sulla sinistra senza trasmettere un chiaro messaggio al cavallo? In quale precipizio pensate che potremo trovarli, quell'uomo e la bestia?
- Qui non si tratta di cavalli né di sentieri del monte.
- È vero. Ma non si tratta neppure di discese, bensì della terribile salita che affrontiamo ogni giorno. Affrontiamo, signore, seguitemi bene. Io l'affronto assieme a molta altra gente che mi segue e da me attende un certissimo segno.
Voi prima dicevate scherzando che vi pareva d'essere il comandante di una nave. Anch'io, molto spesso, ho questa impressione. E del comandante ho tutti i dubbi, le incertezze, le angosciose paure. Ma quale comandante della nave anch'io ho l'obbligo di tracciare una rotta, nella solitudine della mia cabina, per me e per gli altri. Le istruzioni che trasmetto al timoniere devono essere come il vangelo.
- Siete diverso, rispetto a come apparite di primo acchito.
- Gli uomini, alle volte, riservano qualche sorpresa.

Torres accolse con vero sollievo il ritorno degli uomini che conducevano la mandria dai territori settentrionali dove era stata acquistata. Piccole mucche porporine che ora sostavano mugghianti nell'ampio piazzale.
- Teniamoci in contatto - salutava Cravèro - la distanza non è poi molta e le nostre terre confinano.
- Non mancherà l'occasione - fu la promessa di Torres - e poi certamente avrete bisogno di vino.
Impennò il cavallo tenendo con la sinistra le redini. La destra levava il cappello e lo abbassava in segno di saluto.
I cavalli lanciati al galoppo sollevavano una nube di polvere bianca mentre Torres in compagnia di due servi precedeva la mandria.
Scomparvero alla prima svolta quando ancora le mucche non si erano tutte avviate, passarono sul ponticello di pietra e gli zoccoli sprizzarono scintille, affrontarono il rettilineo percorrendone un lungo tratto. Poi effettuarono una rapidissima conversione lasciando lo stradone per un sentiero che risaliva tra i campi sino alla sommità della collina. I cavalli, incollati l'uno dietro l'altro, volavano per la salita. I servi colpivano il dorso delle bestie col berretto che cavavano e rimettevano in testa ritmicamente. Torres toccava di sproni.
Irruppero sulla spianata in cima al colle tirando bruscamente le redini. I cavalli sbuffavano e scuotevano il morso imbiancato di spuma. Gli uomini respiravano profondamente l'aria del mattino. Sotto di loro le forme squadrate della casa di pena e i campi ordinati con alti muri di pietra.
Torres stava sul ciglio del pianoro, un servo al suo fianco, l'altro poco più dietro.
- È una bella colonia - osservò.
Costantino, accanto a lui, fece una smorfia.
Vedevano i prigionieri chini al lavoro e le guardie immobili sotto le piante, figure nanificate dalla distanza. Guardavano assorti ciascuno seguendo un diverso filo di pensieri.
Torres disse: - La colonia ha cambiato il volto della terra all'intorno.
Costantino ripetè la smorfia.
Ancora guardavano pensosi e Torres diceva: - È diventato un posto civile dove prima c'era solo la spina. Non ti pare, Costanti?
Costanti tolse di bocca una cicca spenta che succhiava fin dal mattino, sputò un filo di tabacco e sibilò: - Schiavi.
Torres si voltò a guardarlo perplesso, poi atteggiando un mesto sorriso convenne: - Hai ragione - e incitarono i cavalli perché prendessero la discesa prima che la mandria li superasse.

CAPITOLO DODICESIMO

 

Superato l'arco di Brennas scendevano nella piana di Su Siliquargiu dolcissima di carrubi e di greggi che si stringevano nel cerchio dell'ombra. In lontananza era possibile intravedere le prime case del paese, alla fine della fettuccia biancastra che la strada disegnava tra i filari della vigna.
Una nube di polvere si formava, avanzando verso di loro, che un soffio di vento disperdeva nell'aria.
Videro venire un cavallo che galoppava senza freno: solo da ultimo apparve un piccolo cavaliere rannicchiato sul collo dell'animale, tenuto alla criniera con la quale governava quel velocissimo andare. E fu certo per un incantamento che il furioso galoppare seppe arrestarsi in pochi passi quando il cavallo e il suo cavaliere ebbero raggiunto la mandria.
- Novità?
- La padrona sta partorendo.
Torres fece un cenno ai servi e toccò il cavallo che partì di carriera.
Il messaggero disse:
- Sarà contento, il padrone?
Un servo commentò: - Vuole il figlio maschio.
- Prenderà quello che Dio vorrà dargli - concluse seraficamente Costanti.

Infrangendo tutti gli ordini di Sophie, Torres arrivò al galoppo fino allo scalone che portava agli appartamenti, smontò da cavallo e salì i gradini superandoli due alla volta.
La porta era socchiusa, nei corridoi ombrosi un traffico veloce di donne.
Sulla porta della stanza si fermò senza avere il coraggio di bussare.
Dora gli aprì, che usciva con un catino. Lo vide, fece un passo indietro e, rivolta verso l'interno disse soltanto: - Su meri.
Torres entrò in punta dei piedi in quella penombra, vergognandosi degli stivali polverosi e del suo odore selvatico che spezzava l'incanto dei profumi di borotalco.
- Per l'olmo devi ancora aspettare - gli disse Sophie ed egli la vide, sprofondata nel grande letto e gli parve imponente.
Più acuta provò la vergogna degli stivali e del resto, come fosse un intruso cui non dovrebbe essere consentito d'entrare in un luogo tanto intimo e familiare.
Il braccio di Sophie formava un'ansa dentro la quale dormiva beato un piccolo volto grinzoso. Lo guardò appena; guardò ancora la madre e capì di essere escluso.
Provava un sentimento di gelosia, o forse era soltanto una tristezza profonda, come se mai, in nessun tempo, fosse stato tenuto da un braccio di donna con altrettanta dolcezza.
Sarebbe stato il momento d'accendere un sigaro cui chiedere un po' di conforto, ma rabbrividì pensando all'odore del fumo tra quei candidi lini.
- Come un cane in chiesa - si diceva rigirando tra le mani il cappello.
- Oh, Torres, mi dispiace, è una femmina. Dovrai sopportarne quattro, nella tua casa: tu che volevi un maschio - sorrise debolmente Sophie.
Egli non raccolse la vaga ironia di quel sorriso e scelse di darsi un tono di serietà: - I figli son figli, i maschi e le femmine.
- Ma tu volevi un maschio.
Accostò al letto e sfiorò i capelli della moglie in una timida carezza.
- Non la guardi?
Con l'indice scostò il lenzuolo e vide un volto bianco e rotondo, solo un poco grinzoso. Ricompose il lenzuolo.
- Non ha capelli.
- È bionda - rispose Sophie; e fu tutto.
Attraversò la stanza in punta dei piedi, chiuse l'uscio senza fare rumore, percorse l'andito e batté con forza il portoncino d'ingresso.
Il sole era alto. Discese lo scalone e si avviò verso le stalle. I cavalli frangevano rumorosamente le fave secche.
Non sapeva dove andare e vagabondava attraverso i grandi cortili fumando con le spalle ricurve.
Le galline razzolavano smuovendo la terra con le antichissime zampe. Un tacchino gli si avventò beccando con violenza uno stivale.
Torres entrò nel suo studio, prese una pistola e controllò che fosse carica.
Il sole splendeva frantumandosi in mille bianchissimi raggi. Uscì a larghi passi. Il tacchino come lo vide arrivare gli si lanciò contro con furia.
Pensò: - Ci mancherebbe soltanto che volesse beccare il padrone.
Il tacchino avanzava e i rossi barbagli splendevano al sole.
Levò lentamente la mano mirando alla testa. La luce si era fatta accecante e ogni raggio sembrava concentrarsi in quei rossi barbagli. La mano era ferma. Mille scie rossastre si disegnarono sullo schermo del sole mentre il tacchino cadeva lentamente privo di testa.
Le galline corsero a beccare le macchie di sangue. Torres aveva negli occhi i raggi del sole che formavano bianchissime stelle.
Abbassò senza fretta la mano che impugnava la pistola e sentì come un insopportabile peso l'inutilità del suo gesto.


CAPITOLO TREDICESIMO


L'anno appresso nacque Renato.
Torres si chinò sul letto in cui la madre e il figlio sembravano dormire. Sciolse i legacci della cuffia e gli apparve una piccola testa cosparsa di capelli nerissimi, un volto violaceo, straordinariamente brutto. Gli piacque.
Affondò le mani tra le coperte e prese suo figlio mentre Sophie lo guardava con preoccupazione e una donna faceva un passo avanti quasi temendo che il bambino cadesse da un momento all'altro.
Torres la fulminò con lo sguardo, si avvicinò al camino in cui un ceppo bruciava scoppiettando e levò le braccia verso l'alto. Il bambino sembrava sorridere. Abbassò le braccia e lo strinse al petto mentre attraversava la stanza diretto verso la porta.
- Può prendere freddo - sospirò Sophie sapendo che era perfettamente inutile.
Quando uscì le donne guardarono esterrefatte la padrona.
Torres si ritirò nello studio. Sedette in una poltrona muovendosi delicatamente per non turbare il bambino che lo guardava con i grandi occhi scuri spalancati e sembrava piacergli quell'odore di fumo e di cuoio che l'uomo emanava. Si chinò per baciarlo e stettero a lungo in silenzio.
Poi Torres chiamò: - Arèga - e una donna arrivò premurosa.
- Riporta il bambino alla padrona - e quando fu uscito spalancò la porta per fare entrare l'aria fredda del giardino.
- Oggi e domani facciamo festa per il piccolo - annunciò ai servi. Era Natale e a pagarne le spese furono ancora una volta i tacchini.
Del vino è inutile dire che fu spillato dalla botte grande.

- A ziu Torres non gli piace più la campagna - sogghignavano i servi vedendo il padrone che rientrava a casa quando ancora il sole era alto nel cielo.
Le passava così le sue sere, accanto al bambino che lo guardava coi grandi occhi scuri.
Aveva fatto costruire una culla dal maestro ferreri e aveva voluto che avesse le ruote per poterla spostare. Dora l'aveva imbottita di lana e avvolta di bianchissimi veli.
In alto, sopra il volto del bimbo, splendeva il medaglione con l'immagine sacra che Sophie aveva sospeso a un nastro di raso.
Portava la culla nella sua stanza, sedeva in poltrona e con la mano imprimeva un lieve moto che proteggeva il sonno del figlio. Leggeva per ore, senza che un solo rumore li turbasse. Oppure, se il bambino era sveglio, si guardavano a lungo sorridendo e Torres chinava il volto dentro la culla finché le manine arrivavano ad afferrargli i baffi.
Di quel che avveniva dentro la stanza naturalmente nessuno poteva sapere nulla. Ed era un bene, perché già le serve avevano detto quanto a lungo Torres stesse col figlio, e che non sembrava gradire il momento della poppata quando, di necessità, doveva restituirlo alla madre.
- Sta invecchiando - diceva un servo e l'altro, di rimando: - Diventa molle - senza pensare che sarebbe venuto il giorno in cui avrebbero dovuto ricredersi.
E non sapevano che certe notti, quando il vento stringeva d'assedio la casa ululando pauroso, in quelle notti il fuoco del camino e le coperte di lana non bastavano a scaldare il bambino.
Allora Torres si alzava, lo portava nel suo letto e lo chiudeva contro il fianco cingendolo con un braccio. Il calore dell'uomo scaldava il bambino che s'addormentava senza temere il ruggito del vento.
Il padre, invece, vegliava assaporando quel calore che dal fianco si diffondeva in tutto il suo corpo ed era più quello che guadagnava di quello che dava.
Mai, nel corso della vita aveva avuto con un altro essere altrettanta confidenza, respinti i piccoli e i grandi infingimenti che governano ogni atto dell'uomo; interamente disposto a mostrarsi qual era, con le paure e il bisogno d'affetto.
Quando veniva il giorno e la cavalla già sellata raspava con lo zoccolo nel giardino, si muoveva a malincuore consegnando il figlio a Sophie che lo allattava. E usciva comprendendo di essere geloso per quell'atto che nuovamente lo escludeva: se ne andava nel vento sollevando appena il bavero del pastrano.
Tutto questo, ovviamente, i servi non potevano saperlo, però quello che vedevano bastava a far scuotere loro la testa.
- Il padrone sta rubando l'arte alle donne.
- La buonanima di babbo i figli li toccava soltanto con la zirogna - e ridevano amaramente.

Ma che non avesse perduto la sua arte di uomo lo capirono la sera in cui, rientrato a casa, trovò Sophie e le donne attorno al bambino riverso col volto sporco di sangue.
Renato poteva avere allora due anni e giocava in giardino con una vestina che gli arrivava ai polpacci.
Coglieva fiori e li riponeva nella tasca: così si era spostato attraverso il giardino fino a raggiungere la corte grande dove i buoi da lavoro bevevano nelle picche di granito. Su una di quelle picche si era arrampicato per continuare il suo gioco finché era caduto a capofitto e uno stecco di legno lo aveva trafitto ferendogli il volto.
La prima cosa che il padre vide fu quella vestina macchiata di sangue e il volto che la ferita accesa rendeva più pallido. Balzò dal cavallo che continuava a trottare e spostò rudemente le donne.
Era chino sul figlio e a gran voce ordinava di preparare il calesse.
In un momento il cavallo fu pronto fra le stanghe: aiutò Sophie a salire e le porse il bambino. Impugnò le redini, toccò con la frusta e fatto un cenno agli uomini perché lo seguissero s'involò sopra i basoli della porta carraia.
Il mozzo di una ruota colpì il paracarro di pietra e le scintille volavano ancora sotto il portone mentre il calesse spariva nella discesa.
Gli uomini erano nati sopra i cavalli che conducevano come fossero diavoli dell'inferno, ma nessuno riuscì a raggiungerlo prima d'aver compiuto oltre metà del percorso.
Allora lo videro in piedi a cassetta, senza cappello, con la frusta che sibilava stretta nel pugno e la redine ferma nell'altra mano.
Fu una cavalcata della quale ancora si parlava finché gli uomini conservarono il ricordo del buon tempo passato.
- Parìara unu dimòniu.
Le sentinelle del carcere videro un cavallo bianco di spuma arrivare davanti al portone e un uomo che prendeva a bussare furiosamente - Aprite!
Aprirono e Torres chiese del dottore che arrivò abbottonandosi il camice.
Diede un'occhiata al bambino, lo prese in braccio e raggiunse l'infermeria.
Stava esaminando la ferita quando Torres disse in un sussurro: - Dottore, è mio figlio -. E il medico senza sollevare la testa: - Lo vedo - borbottò - e per chi altro fareste voi quella faccia che mi assomigliate a un cadavere?
Armeggiava con certe pinze attorno all'occhio e cavava una per una le schegge confitte in profondità. Il bambino era immerso nel sonno della narcosi. Il medico si muoveva con mano sicura, affondava la pinza, asciugava con un tampone il rivolo di sangue che sgorgava dalla ferita. Torres era sempre più pallido.
- C'è una bottiglia, in quello stipo -. La prese pensando a un medicamento. L'aroma della malvasia gli diede la nausea. - Bevete - prescrisse il dottore e Torres ubbidì.
Non fu mai in grado di dire quanto fosse durata quella medicazione. Stava all'impiedi, chino sul lettino, teneva la mano del figlio e lottava col crampo che gli stringeva lo stomaco. Dopo un interminabile tempo il dottore gli disse: - Abbiamo finito. Con l'aiuto di Dio non dovrebbero esserci danni più gravi di quelli che ho potuto curare con la mia povera scienza e i rimedi di cui dispongo in questo avamposto. Voi ora dovete riposare.
Torres sollevò le spalle: - Quando si sveglierà?
- Dormirà tutta la notte - rispose il dottore aprendo la porta. Sophie entrò in compagnia del colonnello Cravèro.
- Bene, il dottore ha fatto un ottimo lavoro. Ora spetta a me ristorare gli amici. La cena è pronta, se volete seguirmi.
Torres ringraziò il colonnello e gli chiese che s'occupasse di Sophie, quanto a sé preferiva restare col figlio.
Il dottore accostò una seggiola al lettino su cui Renato giaceva, smorzò la lampada e lasciò un lumicino che tremolava da un canto.
Non s'udiva un rumore. Torres sedette, prese tra le sue la mano del bimbo e se la posò sulla fronte. Provò una sensazione di fresco e gli venne in mente di rincalzare la coperta che il dottore aveva disteso sul letto.
Con un gesto brusco Renato se la strappò di dosso, la fronte imperlata di gocciole fredde. Parlava nel sonno. Parole spezzate, prive di senso, brandelli di un lungo discorso che solo a tratti affiorava lasciando l'ascoltatore nel dubbio. Diceva di boschi, di grotte dove entravano le calicerte e le janas, le janas che sanno cantare, la sera.
Si girava con scatti improvvisi, la mano volava rapace verso la ferita a strappare il medicamento.
Torres la fermava, la mano, e la ricomponeva sul letto con una carezza e di nuovo il bambino tremava per un singulto. Piangeva un pianto nervoso privo di lacrime.
Allora il padre cominciò a parlare, la testa china sull'orecchio del figlio e la sua voce non formulava parole ma suoni, un unico suono dolce e profondo, una nenia.
Parlava e guardava il volto del figlio e in quel volto ritrovava la somiglianza con tutti gli antichi che stavano loro dietro le spalle, il padre, il padre del padre, visi severi che i dagherrotipi conservavano riproducendo i tratti di una lontana fierezza.
Il bambino si levò a sedere pronunciando oscure parole. Gli cinse le spalle col braccio e gli soffiò nell'orecchio dolci frasi d'amore. Pian piano lo rimise disteso, gli asciugò la fronte e continuò il solitario colloquio.
Una pendola in qualche luogo remoto batté le due. Renato dormiva tranquillo. Torres lo guardava e si diceva che ora ogni cosa aveva un senso, il lungo percorso degli avi, la fatica del vivere sulla quale troppe volte nel segreto della sua stanza si era interrogato, la stessa ansia della giornata appena trascorsa: tutto portava alla serenità del momento in cui sentiva la mano del figlio distendersi dentro la sua.
Era ancora buio quando il bambino sollevò il capo e sorrise. Poi volse gli occhi all'intorno ed ebbe un moto di preoccupazione. - Sono qui, stai tranquillo, - e lo sfiorò con una carezza - dormi, bambino.
Poco dopo arrivò il dottore, guardò l'ammalato e disse: - Sta bene.
Poi, per spiegare quella antelucana intrusione, aggiunse sottovoce: - Mi alzo sempre prima dell'alba per concedermi un'ora senza uomini intorno. Volete un caffè?
Armeggiò con la luce bluastra di un fornello e dopo pochi istanti l'odore del caffè la vinse sugli acri effluvi dei farmaci conservati nelle teche. - Non ho zucchero, piuttosto -. Torres sollevò le spalle; aprirono la porta e sedettero nella panca sotto la tettoia. Le stelle nel cielo erano ancora vive. Bevettero il caffè che bruciava la bocca e accesero un sigaro per aspettare la luce dell'alba.
Quando fu giorno scese Sophie.
Torres le andò incontro e le disse: - Dorme.


CAPITOLO QUATTORDICESIMO


La storia, quella vera, non il domestico racconto dei casi di Torres, qui la sfioriamo appena.
Così anche i fatti che nell'inoltrata primavera del 1906 segnarono la vita della capitale e con le loro onde arrivarono a coinvolgere il paese sperduto in cui Torres viveva.
Il motore di tutto fu, come spesso nella storia degli uomini, la fame e l'ira che ne deriva.
A chi chiedeva del cibo e del modo in cui fosse possibile procurarlo stante la generale povertà, la massima espressione del potere civico nella capitale rispose con una frase ingiuriosa che diceva non essere un obbligo il nutrire lo stomaco con raffinati fomenti, quando altri, più grossolani, ne esistano, per modica spesa.
Fu l'inizio della rivolta. Uomini e donne, soprattutto le donne, mogli di bastasci senza lavoro, madri di figli affamati, cigareras della manifattura tabacchi misero a ferro e fuoco la città, e precipitarono dentro le acque del porto i vagoni della tramvia.

La notizia di quegli episodi drammatici, viaggiasse con le ciurme delle navi o con le ruote dei carrettieri, arrivò fino a C. e creò qualche trambusto in quel piccolo mondo.
Alcuni proprietari di mezza tacca salirono da Torres per chiedergli come condursi nell'avventurosa circostanza. Egli li ricevette all'impiedi sulla porta della cantina ostinatamente chiusa e spiegò che l'uomo, come la terra, quando più quando meno, solitamente ridà quello che ha ricevuto e che quindi interrogassero la propria coscienza, per chiedere della semina, per ipotizzare il raccolto. E li congedò.
Ciascuno andò via accompagnato dalle stesse inquietudini con le quali era giunto e tutti rivangavano nella memoria storie antiche e recenti di piccole astuzie impiegate per sottrarre il compenso dovuto in scambio d'una giornata trascorsa con la schiena spezzata sulle zolle dei campi, della poca legna negata quando il freddo diventava più acuto, dell'aceto contrabbandato per vino a dispetto dei patti.
Naturalmente Torres sbagliava perché altra cosa è un apologo, altra una dimostrazione scientifica, ma almeno sotto un profilo morale il suo discorso non faceva una grinza.

In realtà non successe niente d'importante.
Qualche assembramento, voci convulse, imprecazioni, un'ora di lavoro persa al mattino nel chiuso di ziu Antìnu Màsulla e prontamente recuperata sul far della sera, un covone bruciato nell'aia; ma il fuoco fu subito spento prima che si propagasse. Niente d'importante.
Ma quel niente bastò a richiamare la truppa.
Vennero, caracollarono per le vie del paese in cui passeggiavano i cani ricoperti di mosche, gradirono i frutti pendenti dai rami senza importunare i proprietari con fastidiose richieste.

- Proprio una bella idea.
Torres si muoveva su e giù tra le botti della cantina e gli uomini lo guardavano pensosi.
- Ne avevamo proprio bisogno di queste cavallette che avete fatto arrivare in paese.
- Non è stata colpa nostra, padrone.
- Se fosse stata colpa vostra non sareste qui, ora, che io non voglio pendagli da forca, in casa.
Chinavano il capo sapendo che aveva ragione: tutto quel grande rumore s'era concluso in un niente, spariti nel nulla quelli che tanto avevano da dire prima che arrivasse la truppa.
I servi di Torres ora dovevano affrontare un padrone contro il quale pure non si erano schierati, non avendo, in coscienza, niente da rimproverargli.
- Mi meraviglia che gente di casa sia potuta andare con quegli sfaccendati.
- Abbiamo soltanto bevuto insieme, padrone.
- Sarebbe stato più difficile lavorare, insieme, con quelli.
- È la verità - convenivano.
Ma Torres voleva portare fino in fondo il ragionamento contro gli agitatori ora scomparsi.
- Chi li ha mai visti lavorare, Peppi Mraci e Sevèriu Naìtza?
- Nemus.
- Ma erano i primi, per dire parole inutili.
Una voce borbottò dal fondo: - Mraci è socialista.
- Cos'è?
Nessuno parlò e Torres riprese: - Una faccia da forca, ve lo dico io cos'è quel vagabondo. E lo vorrò nuovamente vedere qui, per mandorle o vino. Dite che gliela farò saltare, la porta?
La domanda era chiaramente retorica. Nessuno attendeva, nessuno diede risposta.
Ciascuno avvertiva con fastidio il peso dell'ombra che s'era interposta tra i servitori e il padrone. Con un innato senso della giustizia gli uomini riconoscevano a Torres i suoi meriti. Mai li aveva frodati nei conti e per la semente da spandere nei loro starelli di terra sapevano a chi rivolgersi, senza dire dei gioghi con cui trascinare l'aratro.
E quando alla fine dell'anno ritornavano a dirgli che a mala pena avevano ricavato il grano sparso tra i solchi, Torres faceva un cenno per dire che non importava parlare di restituzione, chiedeva notizie dei figli e insieme speravano che a loro si aprisse un mondo migliore.
Il padrone non era mai stato un nemico. Il Padreterno lo era, forse, che li aveva posti in una terra sassosa e negava la pioggia e mandava vento abbondante.
- Tutto sia per l'amor di Dio - si consolavano con una fede che non avevano.
Che altro fare, se si nasce figli di schiavi? come tutti, del resto. E perché, forse che anche ziu Torres non era uno schiavo? Del suo tutt'al più ne potranno godere gli eredi. Lui, dal mattino alla notte, acqua, vento, sole, era chino in mezzo ai filari e sapeva mungere come un pastore che si uccide di fatica, in campagna giorno e notte.
C'era da chiederselo perché lo facesse, anche considerando che sopra di lui governava su meri mannu Intoddi cui alla fine delle fini spettava il principale guadagno. Quello sì che lo mette da parte un bel tesoro.
Torres non lo fa per arricchire; sembra che abbia preso gusto a questa brutta vita: gli s'allarga il cuore quando vede una pianta che gemma o può seguire la traccia delle mucche che scendono al rio.
Così non c'era un solo lavoro che comandasse di fare senza prima averlo provato per sapere i modi, i tempi e il peso sulla schiena che giorno dopo giorno si spezza.
Quel malandrone di Mraci, ma s'era messo in testa di girare il mondo a fondo in su?
Torres di suo ricavava il piacere dell'intelligenza che crea e per questo ha bisogno di molte braccia e d'infinita energia.
Non lo diceva neppure a se stesso perché disprezzava i castelli teorici, ma alle volte gli pareva che tutti assieme lavorassero per la costruzione di un'opera bella e grandiosa. Certo, c'era anche il guadagno. Ma quando mai quel guadagno l'aveva preso per sé? A chi aveva chiuso la porta dei magazzini e delle cantine? Venivano in processione, nelle buone come nelle cattive annate, e il flusso aumentava nelle cattive, naturalmente. Chi per carrube, chi per formaggio, chi per vino, chi per mandorle.
- Glielo restituirò, padrone.
- Non ti preoccupare. Piuttosto, dì a tua moglie che porti un po' di gattò. Quello che fa lei è il migliore.
Ciascuno se ne andava con la bisaccia piena e l'animo sollevato. Tanto all'altra parte non ci portiamo niente e vale più poter guardare un uomo negli occhi di tutti i beni che ammuffiscono nel fondo dei magazzini.
Questo gli sembrava il suo ruolo, nel mondo bislacco in cui bisognava vivere; e se il Padreterno l'aveva voluto così avrà anche avuto le sue ragioni, a non voler pensare che fosse del tutto privo di logica come appariva d'emblée.
Perciò si sforzava di fare la sua parte con un poco di senno, ma capiva che dirlo sarebbe stato come riconoscere d'essere un ingenuo innamorato di romantiche utopie. E questo non l'avrebbe gradito perché a sé preferiva pensare vedendosi uomo d'azione che riesce a superare le difficoltà del reale.
- Non l'ho fatto io questo mondo, e quando sono nato già l'ho trovato che andava come va, e cioè male.
Mondo disgraziato.
Adesso gli toccava continuare come se niente fosse accaduto, e niente era cambiato, in effetti, solo che la fiducia gli pareva spezzata.

Seduto nella penombra incupiva tra contrari pensieri.
- Quanto fumo, qui dentro - disse Sophie aprendo la porta dello studio.
Torres schiacciò con cura il mozzicone del sigaro.
- Ho pensato che parto.
- E dove va la mia signora e padrona?
- Torres - replicò Sophie severa - tu non hai mai avuto nessun signore e padrone se non il rovello che agita i tuoi pensieri.
- Non ti capisco.
- Lasciamo perdere, è un troppo lungo discorso.
Tacque e Torres approfittò del silenzio per sfilare dall'astuccio un nuovo sigaro. Sophie lo guardò con dolcezza.
- Un altro sigaro?
- Un uomo deve stringere in mano una qualche certezza.
Sophie si accorse che trovava ora insopportabili quelle brevi sentenze di cui il marito si serviva per dire senza dire e, nella sostanza, eludere le questioni che non gradiva affrontare.
Decise di tagliar corto. - È giunto il momento di fare quello che da tempo avevamo stabilito. Porto i bambini in città. In autunno Vittoria e Guglielmina frequenteranno la scuola, abbiamo appena il tempo per sistemare la casa e disporre che tutto sia in ordine per la nuova vita. Potresti chiedere all'ufficiale che comanda la truppa di accompagnarci allorché rientrerà nella capitale.
- Porti anche Renato?
- Potrebbe essere diversamente?
- No - ammise l'uomo pensoso, poi aggiunse: - La stagione, questo gran caldo, tutto è così estenuante, chissà dove troveremo le forze per arrivare all'autunno.
- Oh Peppino, io ti dico che parto e tu mi parli del tempo.
Torres osservava con grande attenzione la cenere del sigaro.
- Ma guardami, Dio santo, fai un cenno, esprimi un sentimento, una volta nella vita.
Torres fece un cenno disarmante. - È giusto così - disse semplicemente.
- Cosa è giusto?
- È giusto che tu parta. Hai ragione. Le bambine hanno bisogno di un mondo più acconcio, di un modo di vita più vicino ai canoni della civiltà.
- Fai dell'ironia?
- Ma ti pare. Qui non ci sono prospettive, per loro.
- E tu, e io? Noi?
- Ciascuno ha il suo destino segnato. Io, per quel che mi riguarda, sono troppo vecchio, non ho la forza di pensarmi altrimenti che così.
- Torres, ti ricordo che hai quarantatré anni - gli disse con un sorriso, ma l'uomo rispose in tono d'infinita serietà:
- Ne ho quattrocento, quattromila, forse. Alle volte sento sopra di me il peso dei secoli, una straordinaria ricchezza ma anche una fatica estenuante.
Sophie, quel giorno, non aveva intenzione di filosofeggiare e tagliò corto.
- Parlerai col capitano?
- Lo cercherò immediatamente. Darò disposizione perché siano preparati i carri e i cavalli. A proposito, tu viaggerai a cavallo?
- Oh Peppino - ripeté per la seconda volta Sophie - io ti dico che parto e tu parli del tempo e dei cavalli. Ma non hai nient'altro da dire?
- Ti sto offrendo il meglio delle mie capacità organizzative - divagò Torres con un sorriso, ma Sophie non era disposta a mollare la presa - Non dico dell'organizzazione, dico dei sentimenti.
- I sentimenti sono fatti privati.
- Ma io sono tua moglie.
- Privati, capisci? tanto che alle volte uno non ha il coraggio di confessarli neanche a se stesso. Almeno così mi pare, e sia pure altrimenti, ma la penso così e per me suona come una verità che non è possibile modificare.
Sophie si avvicinò al marito seduto in poltrona e gli pose entrambe le mani sulle spalle.
- Un uomo come te, Torres, sembra che abbia tutto ciò che desidera.
Molte volte ti ho osservato mentre fermo sul cavallo guardavi i tuoi campi. Mi sei sembrato l'immagine vivente del Dio che crea il mondo e se ne compiace. Ma penso che tu possa essere anche molto infelice.
- Può darsi, Sophie, può darsi che tu abbia ragione. Ma che senso ha affaticarsi su cose che non possiamo modificare?
- È qui che sbagli. Tu hai scelto di spendere le tue energie in una sola direzione: forse ti sei impedito di vedere altre vie.
- Solo con un'assoluta concentrazione si possono ottenere risultati.
- Ricordi quando mio padre ci presentò?
- Potrei dimenticarlo?
- Ti disse uno scultore che plasma la terra, e questo ho sempre creduto, Torres, che tu fossi un artista; pochi uomini sarebbero stati capaci di fare quello che tu hai fatto, di realizzare uno straordinario modellamento della terra che ami, con sforzo materiale e con gusto dello spirito. Con una vera passione. Ma, ti chiedo, che prezzo ha tutto questo? che prezzo hai pagato? che prezzo stiamo pagando?

Nella corte i cavalli dei soldati scalpitavano.
Torres e il capitano conversavano nel giardino aspettando Sophie.
Quando la donna scese dall'alto scalone Torres notò il suo portamento regale e le si fece incontro mascherando la commozione col fare cerimonioso. Le prese la mano e la guidò fino al cavallo.
La baciò sulle guance, per la prima volta vedendo un capello bianco che s'interponeva tra i biondi, e provò un turbamento sconosciuto. Baciò le bambine e le porse ai servi sul carro. Poi si chinò su Renato, gli strinse le braccia e lo sollevò verso il cielo.
- In gamba, figliolo.
- Tu non vieni, papà?
Lo turbava, ogni volta, quella voce francese che Sophie apprendeva ai suoi figli, gli dava un senso d'affetto che raramente aveva conosciuto.
Lo strinse più forte: - Verrò presto a trovarvi.
- Quando, papà?
- Presto, e anche tu tornerai qui, e io ti farò trovare un bel dono.
- Cosa mi regalerai?
- Sarà una sorpresa.
- Voglio saperlo.
- Ma se te lo dico, che razza di sorpresa è?
- Voglio saperlo; ti prego, papà, dimmelo.
- Ti farò trovare un asino piccolo piccolo.
Gli occhi del bambino scintillavano: - Come lo chiameremo?
- Lo chiameremo Orlando.
Torres mise in terra Renato scompigliandogli i capelli e il bambino si arrampicò sul carro.
Tutto era pronto per la partenza ma nessuno accennava ad andare.
Sophie, in sella al cavallo, pareva una regina che guarda il suo popolo.
Dora fece un passo avanti e disse: - Abbisiticì, sa meri.
- Tornerò, stai tranquilla.
Dora stringeva tra le mani il grembiule.
Torres era immobile.
Sophie lo guardava dall'alto, come si guarda la stampa in cui una mano d'artista ha fissato gli uomini colti in un attimo che rappresenta l'eternità del loro essere.
Torres in un primo piano di sconfinata solitudine, dietro di lui Dora che piangeva, ancora più indietro la corona dei servi silenti.
Così Torres li aveva voluti, tutti gli uomini, un poco più indietro, indispensabili per servire al suo piano eppure poco importanti.
Provò un senso d'impotenza e comprese di non essere riuscita ad aggiungere le virtù che mancavano all'uomo. Un albero, in fondo, dà i frutti che la sua natura gli comanda di dare, eppure le pareva ci fosse uno spreco di sentimenti.
Torres stava di fronte a lei: niente gli poteva essere rimproverato, aveva mantenuto la promessa di essere sempre uguale a se stesso, ma in quella coerenza c'era qualcosa che la spaventava, in quell'immobilità con la quale ancora adesso si offriva al suo sguardo.
Aveva davvero realizzato un'opera d'arte; chiunque guardasse la casa, le campagne, i monti circostanti, quella corona di servi, poteva capirlo. Ma a che cosa serviva? Può bastare un'opera d'arte per giustificare una vita?
La stampa era quale l'artista l'aveva disegnata: l'uomo, la serva piangente, il coro muto alle spalle.
- Abbisiticì, sa meri.
Torres taceva.
Strappò con la redine il morso in bocca al cavallo e l'animale col suo dolore pagò il prezzo per i sentimenti degli uomini.

I carri presero la strada dietro Sophie e s'avviarono lentamente per la discesa.
Senza fretta gli uomini che s'erano adunati per salutare la padrona ritornarono alle loro incombenze. Torres restò pensieroso nel posto che aveva occupato mentre Sophie lo guardava. Quando si scosse fece un cenno verso le stalle e chiese il cavallo, poi, con passo stanco, salì verso la scala di casa.
Di lì a poco ridiscese reggendo il tascapane di cuoio. Il cavallo era pronto e così pure i due uomini che sempre accompagnavano il padrone nelle sue uscite. Quando disse che sarebbe andato da solo lo guardarono con meraviglia.

Il cavallo posava lo zoccolo con attenzione su un aspro sentiero. Avevano galoppato nella pianura a occidente di C. sino a trovare la via che monta verso l'antica cava e all'inizio si snoda sabbiosa tra i macchioni dell'oleandro.
Qui il passo s'era fatto più aspro, il suolo coperto di scaglie sfuggite alle punte degli scalpellini.
I graniti scintillavano al sole, verticalmente incisi da lunghe ferite o s'incupivano nelle gole profonde: il cavallo risaliva fino al tornante che li riportava nella luce più viva.
Salivano con molta prudenza e il cavaliere si chinava in avanti per assecondare il movimento dell'animale; lo rincuorava col tono della voce e con una tranquilla carezza deposta sulla spalla sudata. Piegarono nella valletta dove le capre spogliavano gli alberi, ritte per raggiungere i rami più alti. Il sentiero impennava in una rampa che sembrava portare nell'azzurro del cielo e l'uomo lasciò le redini sul collo dell'animale perché scegliesse da solo la via.
Salirono per un tempo che parve infinito superando le cime degli olivastri, le grandi rocce piantate a guardia del monte. E furono sul pianoro che allargava verso l'orizzonte infinito come un immenso balcone proteso sul mare.
Fin quassù Torres saliva, nelle chiare giornate d'inverno, in compagnia di Sophie e i mantelli non vincevano il freddo pungente del vento. La donna correva verso il bordo dell'altopiano che precipitava in un groviglio di rocce. Lì, dove la terra sembrava sospesa tra il cielo e il mare, crescevano gli ireos azzurri che il vento piegava.
Con le mani piene di fiori Sophie tornava verso il marito e rideva mostrando l'orlo della veste imbevuta di guazza.
Lo sentiva, quel riso squillante, ora che il pianoro appariva deserto e il vento soffiava per ingannarlo con un suono argentino.
Spinse il cavallo fino all'olivastro cresciuto nel vuoto, girò la redine attorno a un ramo e sfilò dalla sella il cannocchiale.
Lo sforzo della lente gli restituiva l'immagine della strada lontana che s'inerpicava sulla costera sassosa prima di scavalcare il passo e perdersi nel vasto mondo delle pianure. Percorse e ripercorse quella strada finché mise a fuoco la nube di polvere che la piccola carovana sollevava nella sua marcia. Le spalline dei militari illuminate dal sole calante mandavano barbagli di luce: più avanti la massa scura dei carri sui quali Sophie e i figli viaggiavano.
Li seguì fino al passo dietro il quale scomparvero lasciando una fragile scia di polvere che il vento volle subito cancellare.
Con un colpo secco chiuse il cannocchiale e risalì sul cavallo.
Volgendo verso nord il sentiero si lasciava il mare alle spalle e affrontava risolutamente le montagne: sfiorava le rocce che a tratti sembravano chiuderlo e bisognava aggirarle per proseguire la via.
Camminò finché la luce del sole illuminava la terra. Quando cominciò a imbrunire raggiunse un castello di massi sui quali vigilava immenso un carrubo. Fece pochi passi e trovò quello che andava cercando: la nicchia granitica sulla quale i rami si distendevano formando un baldacchino di foglie.
Appoggiò le palme sul macigno e lo sentì caldo e liscio, levigato dai venti che nei millenni l'avevano carezzato. Tolse la sella al cavallo e non si preoccupò di legarlo, quindi stese una coperta nell'incavo della roccia e dispose il tascapane come un cuscino. Sedette con il sigaro acceso.
Fumava a lente boccate con suprema concentrazione, il fumo ruscellava dagli angoli della bocca e si perdeva nel buio della notte. Il carrubo impediva la vista delle stelle che a quell'ora dovevano essere alte nel cielo: solo un vago chiarore l'avvertì che la luna sorgeva.
Si distese nel giaciglio come dentro una cuna. La concavità lo accolse e lo protesse dal soffio del vento. Giaceva su un fianco e le ginocchia racchiuse gli sfioravano il petto. La pietra gli dava un calore che si scioglieva in lunghi brividi. Egli era roccia.
Il fruscìo del carrubo cantava una nenia che accompagnava il flusso delle sensazioni. Egli era albero.
L'albero e la roccia gli restituivano la forza che aveva perduto e una serenità che lo spinse nel pozzo profondo del sonno.

Si svegliò con il sorgere del sole.
Vide l'upupa che sorrideva sul ramo del carrubo e le disse: - Bene.
Lancinante come un dolore del corpo lo trafisse il pensiero dei figli e provò rimorso per la beatitudine che provava.
In quel momento viaggiavano negli ultimi lembi della pianura e già gli orti de su Baroni annunciavano le case della città. Vedeva lo sguardo di Sophie assorta nei pensieri e quello sguardo era triste, mentre la mano vagava sulla testa dei figli. Fu allora che lo colse il ricordo del capello bianco scoperto nell'emozione della partenza e ripensò agli anni trascorsi, alle consuetudini degli affetti, ai gesti di tutti i giorni che possono anche apparire privi di importanza, ma che alla fine ricamano una ragnatela dalla quale è impossibile districarsi.
- È la vita - disse a alta voce mentre il caffè che bolliva sovrapponeva il suo aroma agli odori del mondo.
Si lavò con la poca acqua della borraccia, assaporò il caffè guardando con gli occhi socchiusi un punto ballonzolante sull'orizzonte e si accinse a partire.
- È la vita - ripeté con voce che suonava decisa e spronò il cavallo dirigendosi a oriente.

Spese l'intera mattina per superare la schiera dei monti.
Saliva e scendeva osservando i pianori e le creste finché giunse alla fonte che sgorgava nel cuore della foresta. Lasciò abbeverare il cavallo e cominciò a definire il progetto che cullava da tempo.
Guardava verso la valle studiando i terreni che digradavano fino al paese nascosto da quell'ultima sella.
- La dobbiamo finire con questa penuria d'acqua - pensava ai campi assetati e alle donne che andavano alla sorgente con la brocca sul capo.
Nelle pozze sotto il podere che era stato di Maestro Gavino l'acqua durava anche d'estate, ma ferma, così che i panni tuffati portavano sempre la traccia del fango.
- Basterebbe convogliare quest'acqua che si disperde nei mille contorcimenti del ruscello - e vedeva i carri salire trasportando i coppi per le canale: lì bisognava abbassare una cresta, qua sfruttare meglio la roccia del fondo creando un piccolo argine per contenere la corrente.
Aveva cavato di tasca un quaderno su cui segnava rapidi schizzi, il quadernetto della magia con la quale ricordava ogni fatto e gli uomini lo guardavano sempre stupiti quando elencava con voce sicura: - In quel giorno abbiamo fatto questo, il tale ha preso un carro di legna in Norvèsu, al tale devo tanti centesimi perché ha zappato nella vigna di Follas.
- Se ne dimenticherà mai, il padrone? - sorridevano con gli occhi rinchiusi. - Neanche un pugno di grano scappa da quel libretto.
Sulla carta l'avvio del canale era già stato tracciato: Torres sedeva vicino alla fonte e mangiava pane e formaggio. Quando ebbe finito cominciò la discesa seguendo il percorso del fiume.
Notava ogni ansa dove l'acqua si perde nella sabbiosità della riva, notava i salti in cui la corrente rafforza il suo corso prima di immergersi sotto la roccia e riaffiorare più a valle.
La notte lo colse ancora distante da C., e d'altra parte non avrebbe potuto dormire tra le pareti della sua casa deserta.
Gli ultimi fiori dell'agnocasto diffondevano un profumo estenuato quando arrivò alle terre in cui aveva lavorato Maestro Gavino. Spinse il cavallo per il pendio e raggiunse la costruzione dove il vecchio aveva abitato i suoi mille anni, prima d'addormentarsi seduto sulla panca di pietra.
Così l'aveva trovato arrivando, com'era solito fare di primo mattino, e il vento gli muoveva la barba mentre ogni altra cosa all'intorno era immota nel rispetto della morte.
Nessuno ebbe mai niente da dire quando Torres, quasi fosse l'erede del vecchio, subentrò nel possesso di quell'ordinato podere. E, d'altra parte, di quale possesso si poteva parlare se non c'era nessun ritorno economico ma il padrone s'accontentava di mandare gli uomini per sradicare le erbacce e conservare ogni cosa come Maestro Gavino l'aveva lasciata partendo?
- Perché almeno non fa raccogliere le pere? Non sarà molto, ma qualche cosa si potrebbe guadagnare.
- Povera l'aia che teme la formica - spiegava e diceva degli uccelli del cielo che devono pure mangiare e del viandante che passa e attenua la sete col frutto pendente dai rami.
- Può essere anche che Maestro Gavino ritorni la notte per assaggiare il sapore della sua lunga fatica.
Nessuno si sentiva d'escludere il caso.

Azionò il saliscendi e passò la soglia.
Nulla era stato toccato di quel che Maestro Gavino aveva disposto nella sua abitazione; tutto lo aspettava come se dovesse tornare da un momento all'altro.
Uscì nella notte e si fermò sotto le fronde dell'ulivo. Qui avevano disteso il corpo del vecchio: era arrivato un giogo di tori per rizzare l'altissimo cippo che volevano infiggere nel terreno.
In quel tempo la pietra conservava i segni delle ferite che aveva sofferto quando era stata strappata dal monte. Ma il passare degli anni sempre rimedia agli errori degli uomini e i muschi ora coprivano le scalfitture: la trama delle vene e il colore le intemperie li avevano ricostituiti.
Torres stava accanto alla pietra e sollevava lo sguardo per vederne la cima perduta tra le foglie argentate dell'ulivo.
Si sentiva nuovamente il ragazzo che aveva ascoltato la voce del vecchio: - Io parlo del mare e del cielo, della terra e del fuoco che la percorre inimìgu, e parlo con mrasgiàni, quando viene la notte; di laggiù tra le canne egli canta la sua canzone.
E margiàni cantava, anche stasera, nascosto tra le canne.
Chissà se era la storia di una fame antica: Torres ancora non la capiva quella canzone.
Sorrise pensando che margiàni avrebbe vegliato il suo sonno.

Di primo mattino varcò la soglia del dominario.
Costante gli si avvicinò per condurre il cavallo verso la stalla e per saluto disse con franchezza brutale:
- Stiamo invecchiando, padrone.
Torres lo guardò interrogativamente e il servo soggiunse con semplicità: - Avete la faccia bianca - alludendo alla barba che il padrone non radeva da tre giorni.
Per un attimo pensò che il servo si prendeva una confidenza eccessiva e aprì la bocca per rimproverarlo, poi ritenne che un vecchio doveva mostrarsi più saggio di un giovane servo e lo lasciò con un mesto sorriso.
In fondo gli dispiaceva quel segno degli anni per la prima volta scoperto che non aggiungeva saggezza, soltanto diceva che il suo tempo cominciava a mancare.
Salì verso casa per radere la barba macchiata di bianco.

 

CAPITOLO QUINDICESIMO


Quattro anni erano trascorsi dalla partenza di Sophie e dei figli, altre terre erano state colonizzate, gli armenti s'erano accresciuti, le acque ruscellavano attraverso i canali costruiti dalla mano dell'uomo e arrivavano alla periferia del paese. Tutto seguiva il suo corso, nell'alternanza delle stagioni, quando con migliore, quando con peggiore fortuna, così come il cielo voleva.
Sophie non era più tornata a C.: abitava in città e Torres la raggiungeva quando le ragioni del suo lavoro lo conducevano lontano dal paese.
Renato trascorreva l'estate col padre e nell'interruzione degli studi scolastici aveva modo di frequentare una scuola più grande, nei campi e sulle scogliere, in compagnia di uomini che di rado parlavano ma avevano assai da insegnare.

Fu nell'autunno del Dieci che Torres prese una breve vacanza. L'occasione gli venne da un pressante invito cui non poteva dare risposta negativa: tanto, alle volte, hanno forza le obbligazioni sociali che gli uomini si ritrovano, loro malgrado ma non senza soddisfazione, a compiere azioni che di per se stessi non avrebbero progettato.
Di fronte alla costa rocciosa che chiude il promontorio di C. giace tra le onde del mare un'isoletta, poco più di uno scoglio, che in ogni tempo ha avuto importanza per la navigazione. La conobbero i nocchieri delle navi romane, i predatori saraceni, i comandanti dei vascelli spagnoli e quanti altri, spinti da mille passioni, vollero dirigere la prua verso le terre dell'isola, doppiando il capo che divide le acque orientali da quelle meridionali, proprio all'imboccatura del golfo al cui centro si affaccia la capitale.
Non senza dolore la conobbero, esperti nell'arte della navigazione ma non di rado traditi dai flussi di quelle correnti, dagli scogli affioranti improvvisi nei fondali profondi, dai venti che si contrastano e mulinando esprimono il loro potere.
Elenco non ancora conchiuso di preoccupazioni e di lutti: navi olearie e triremi, galeoni e tartane, moderni bastimenti carichi di merce hanno trovato in quei gorghi, che la notte si muovono inquieti, l'ultima meta.
Gli abitanti dei luoghi, al mattino, ricercavano negli anfratti delle cale i resti dei naufragi, spauriti per la violenza del mare che non solevano praticare, soddisfatti per la conferma che veniva alla loro teoria: essere il mare una cattivissima bestia da cui persona assennata deve stare alla larga.
In fondo contenti che la natura si incaricasse di fare le vendette nei confronti dei forestieri che s'ardivano di sfidarla.
In epoca moderna sugli scogli che si fronteggiano divisi dal profondo canale, quelli che costituiscono la parte terminale del capo di C. e quelli che cingono la poca terra dell'isola, furono eretti due fari.
Le navi continuarono il loro incessante andare, sfilando tra i graniti minacciosi, la chiglia affondata nell'unica via d'acqua possibile, per evitare l'insidia sommersa. Finché le compagnie di assicurazione rifiutarono di tutelare quanti osassero sfidare i pericoli per risparmiare le poche miglia di navigazione necessarie a compiere il periplo.
Ma questi son fatti piuttosto recenti. Allora le imbarcazioni andavano e tornavano guidate nella notte dalle luci che sciabolavano il mare e s'incrociavano per un istante, provenienti dal capo, dall'isola, dal faro sperduto in mezzo alla rada che la punta racchiude.
Gli scogli di Sant'Ellimu non disperavano che con l'aiuto dei flussi qualche chiglia trovasse impossibile scapolare le fauci protese dal fondo. In queste cose, come ognuno ben sa, non si ottiene un'assoluta certezza anche se gli uomini hanno fatto quanto è in loro potere per evitare il pericolo.
Un faro comporta, di necessità, personale che lo governi, che rinnovi le fonti dell'energia, che controlli le accensioni e i regolari funzionamenti.
Di più: in quel sito che rappresenta l'ultima propaggine non solo dell'isola ma dell'intero territorio nazionale, prima del salto d'acqua che unisce le nostre terre a quelle del continente africano, certe marinaresche cautele consigliavano di predisporre più complessi sistemi di avvistamento e di controllo delle rotte. Ragion per cui dodici uomini trascorrevano la loro esistenza in compagnia dei conigli da sempre abitatori dell'isola.
Li comandava un ufficiale che in quella solitudine consumava la carriera e l'ingrato avamposto sembrava confacersi alla sua indole assai più degli alamari che ornano le uniformi di gala nelle occasioni di festa.
Giuseppe Sotgiu aveva abbracciato l'arte della marineria per un'antica tradizione della famiglia: nel nome e nel grado di capitano perpetuava la memoria di quel valoroso di cui le storie narrano come si distinguesse durante l'assalto francese alla Torre dei Segnali che comandava.
L'antico capitano Sotgiu in quella bellica circostanza era stato ferito da un proiettile che lo aveva accecato; aveva così interrotto il proprio cursus honorum, restituito invalido alla famiglia con il conforto di una tenue pensione che il Governo volle elargirgli.
Né la menomazione né l'irriconoscenza degli uomini poterono però cancellare nell'animo dell'appassionato ufficiale un sentimento che seppe trasmettere ai figli e ai nipoti, con tutto l'orgoglio per quella pagina eroica cui aveva partecipato contribuendo a respingere il nemico invasore.
Sulle orme dell'avo il capitano Sotgiu di cui la nostra favola narra aveva seguito l'inclinazione dell'animo e praticato le vie del mare fino dalla più tenera infanzia.
Raggiunta l'età delle scelte, quasi che il suo destino fosse così segnato nel cielo, aveva abbracciato la vita militare e percorso a rapide tappe una prima fase della carriera.
Chiunque gli avrebbe pronosticato un brillante avvenire, e certo non gli mancavano la competenza nell'arte e una naturale disposizione all'intelligenza.
Forse fu proprio questa la causa del progressivo disamoramento. Non che gli fossero venuti a noia i marinareschi accorgimenti. Tutt'altro. È che grado a grado, nella sua quotidiana esperienza, aveva preso a notare la divergenza tra l'ideale che nutriva e le prassi universalmente accettate, ancorché a lui apparissero disdicevoli e vili.
Era giunto al culmine del disinganno quando si rese vacante il comando dell'isola. Naturalmente nessuno desiderava ottenere un incarico che portava lontano dagli ambienti importanti, dagli incontri e dalle cerimonie da cui dipendono molte carriere.
Sotgiu chiese e ottenne il posto di guardiano del faro.
Pochi gli uomini a sua disposizione, infinito il mare di fronte agli occhi, ed era pur qualcosa, per chi, come lui, anteponeva un'idea alle soddisfazioni del mondo.
Da quel giorno l'alta torre del faro rivestita d'azzurre piastrelle prese a brillare lucente sotto i raggi del sole.

Per acqua e per cibo un barcone si staccava dall'isola e trasportava i marinai che raggiungevano il villaggio di C.
Inevitabilmente Sotgiu entrò in relazione con Torres e altrettanto inevitabilmente i due uomini strinsero una sobria amicizia.
L'ufficiale amava la caccia e a Torres faceva piacere accompagnarlo, anche se da molto tempo ormai aveva scelto di non sparare sugli animali della foresta.
- Non mi hanno mai fatto niente - diceva quando discutevano attorno al fuoco del bivacco serale.
- Mrasgiàni si mangia gli agnelli - commentava un servo cui Torres prontamente replicava: - Margiàni fa il suo mestiere.
- Ognuno fa il suo mestiere - insisteva il servo, finché il padrone non aggiungeva conclusivo: - Se gli uomini facessero il loro mestiere, il mondo andrebbe molto meglio di come va.
Sotgiu introduceva con cura lo scovolino nella canna del fucile e sorrideva. Era certo che Torres avesse ragione, ma non sapeva rinunciare al piacere del colpo diritto sulla preda che schizza via dal cespuglio.

Quell'anno gli disse: - Da quando vi conosco non ho mai visto che abbiate interrotto il vostro lavoro.
- E voi?
- Può essere un faro che stia cieco una notte?
- Può essere una terra che arresti i processi di trasformazione e di crescita?
- Il faro ha bisogno dell'uomo, per poter funzionare. Altrettanto non avviene per la crescita dell'erba, per lo sbocciare di un fiore.
- Lo dite voi che siete un uomo di mare e non sapete quello che avviene in terra. Non immaginate neanche che noi parliamo con l'erba e le chiediamo di crescere rigogliosa e alle gemme diciamo che portino frutti pesanti e gonfi d'umore.
- Vi ascoltano?
Per tutta risposta Torres sorrideva scuotendo la testa.
- Uomo di mare non capisce la terra.
Ma finì col promettere: - Farò festa dopo la vendemmia e verrò a trovarvi nella vostra isola.
- Questo mi piace. Luciderò la lanterna del faro perché vi accolga con la sua luce più viva. Vi insegnerò a pescare dall'alto dei Variglioni.
Venne settembre e la vendemmia fu una vittoria lungamente attesa ma non preventivata nelle straordinarie proporzioni che assunse.
Le uve nere sembravano pronte a scoppiare e le mani degli uomini portavano un segno bluastro che l'acqua non cancellava; le bianche sembravano d'oro e il padrone non protestava se i raccoglitori affondavano la bocca nei grappoli, vinti da un richiamo cui non si poteva resistere. Per tutto il mese i carri andarono sormontati dalle gerde fiorite di grappoli e pampini. I bambini li attendevano in prossimità del paese e ciascuno prendeva la sua porzione di uva che piluccava goloso.
All'interno del dominario la processione si fermava e una schiera d'uomini mano a mano svuotava i carri portando coi secchi l'uva nel magazzino dove veniva pigiata.
Il mosto correva sulle schiene nude e le api facevano festa volando incessantemente.
Quando il vino prese a bollire nei tini tutto quel religioso fervore smise come d'incanto e ognuno attese in silenzio che il miracolo della trasformazione avvenisse nel segreto della cantina. Intanto le donne lavavano le botti con l'acqua profumata dalle bucce d'arancia che erano state conservate in lunghe spirali appese ai travi della volta.
Quando ogni cosa fu pronta cominciarono a riempire: subito fu chiaro che le botti non potevano bastare per tenere tutta quella grazia di Dio e i maestri bottai compirono velocemente la loro opera riattando i recipienti che da molto non venivano usati. Quell'anno fu utilizzato ogni contenitore, perfino la botte che aveva portato il mare e il padrone diceva che era inglese perché in una doga era scritto United Kingdom.
Finalmente il vino poté riposare dentro le botti, gorgogliò per un poco, fuoriuscì, fu rabboccato, gorgogliò ancora e cominciò a placarsi. Solo allora fu suggellato con i tappi di sughero.
Passò ottobre e venne novembre. Ai primi del mese una botte fu aperta: il vino nuovo sgorgò frizzante e gli uomini e le donne erano lieti come quando nasce un bambino.
O forse più, perché era un fatto che li riguardava tutti e non c'entravano il lavoro e la fatica e il compenso che avevano ricevuto; piuttosto si sentivano partecipi della creazione, artefici della vita che le loro mani avevano saputo aiutare a formarsi.
Il resto era un mistero della natura che in qualche modo li coinvolgeva.

Con una botte di vino nuovo e con la sua sacca da viaggio alla metà di novembre Torres si presentò alla marina.
Confabulò con Antoni Cinus, il pescatore, e insieme spinsero la barca in mare.
Antoni remava, Torres stava in piedi al centro dell'imbarcazione, un piede posato sulla botte e fumava.
Sotgiu lo vide arrivare dall'alto della torre e gli mandò incontro due marinai con gli asini per il trasporto. Torres saltò la prua e fu sulla battigia. Diede una moneta al pescatore e un'altra ne aggiunse chiedendogli di guardare verso la cala di ponente ogni sera. Se avesse visto una lanterna oscillare tre volte nell'oscurità della notte sarebbe dovuto venire a prenderlo alla prima luce della mattina. I marinai avevano finito di assicurare la botte sul basto dell'asino e cominciarono la salita. Torres si trattenne a guardare la barca che tornava verso la riva e l'acqua che si ricomponeva pian piano, grigia, come è di novembre, e calma, come è quando è calma e sembra impossibile che s'intempesti. Riunì come una molla il pollice e il medio per far volare la cicca del sigaro. Osservò la parabola e udì lo sfrigolìo della brace che si spegneva nell'acqua. Solo allora volse verso il sentiero, salì le prime rampe, passò accanto alla grande mole del granito che sorvegliava la cala, si immerse nei macchioni di lentisco. Gli odori erano quelli della sua terra; in più su quell'isola percepiva un profumo di salso che le essenze vegetali esaltavano.
La torre del faro sembrava emergere da un cespuglio. Compì pochi passi, superò il cespuglio e la costruzione gli apparve imponente.
Si fermò per osservarla meglio e accese un sigaro sovrappensiero. Guardava la torre cilindrica sovrastata dalla lucerna. Svettava sull'edificio che ne inglobava la base e quasi l'avvolgeva conservando un andamento circolare nella facciata posteriore. Il fronte principale, invece, quello volto verso ponente, era perfettamente diritto e le bordure delle finestre, le testate dei parapetti scolpiti in granito, il grande scalone che portava alla prima terrazza sembravano aumentarne la rigidità.
Contò due, tre piani, numerose finestre che le grate rendevano impenetrabili, alcuni ballatoi aggettanti sulla parete precipite.
Dal punto in cui era fermo la costruzione si offriva d'infilata, maestosa nella sua fondazione poggiata su un acrocoro roccioso.
Pensò all'enorme lavoro che era stato necessario per edificarla, si voltò attorno per cercare una traccia di quel gran tramestìo un'orma dei carri, le schegge dei graniti. Nulla era rimasto sul suolo che le erbe e i cespugli ricoprivano sereni, come se l'immensa fortezza fosse stata deposta dal cielo senza sfiorare la vegetazione circostante. Un campano di capra tintinnò dolcemente.
Provò un senso di calma e di forza, come un cavaliere che sia giunto al castello dove attende di trovare riposo.
Luogo di elette virtù, gli parve, abitato da cavalieri o da monaci, senz'ombra di donne.

Un uomo scendeva dallo scalone; il sole gli splendeva alle spalle nascondendo i tratti del volto.
Torres abbassò la falda del cappello per attenuare il raggio che lo disturbava.
Visto da laggiù l'uomo sembrava altissimo e il suo passo era elastico, appena sfiorava i gradini in una veloce discesa.
Per qualche minuto camminarono l'uno verso l'altro, poi Sotgiu si fermò, rovesciò dietro l'omero sinistro un lembo del mantello cerato e attese che Torres arrivasse fino a lui dopo aver superato un'ultima scarpata verdissima d'erba recente.
Tesero l'uno verso l'altro le braccia stringendosi i polsi con un sorriso.
- È un viandante provato dal lungo cammino quello che chiede ospitalità al signore di questa splendida terra.
- Per quanto poche siano le comodità che la mia modesta dimora può offrire all'ospite giunto dal mare, voi siete il benvenuto.
Risero scoprendo bianchissimi denti.
All'interno della costruzione una scala si avvitava come una chiocciola attorno alla torre del faro.
Salirono per due piani nella penombra e uscirono nell'ampia terrazza affacciata sul mare.
Il mare e la terra si inseguivano di fronte ai loro occhi, si raggiungevano per abbracciarsi nelle cale, si dividevano nelle grigie distese d'acqua che i monti guardavano con distacco. Sul capo di C. il fanale dirimpettaio sonnecchiava sornione.
I graniti dei balaustri erano tiepidi per il sole che cresceva nel cielo. Lo ebbero in faccia quando, percorsa l'intera terrazza, si ritrovarono nella parte posteriore dell'edificio. Superate le scogliere dell'isola non c'era di fronte a loro se non un'acqua immensa.
- Finis terrae - disse sottovoce Torres.

Rientrarono nell'oscurità della fortezza e ripresero a salire i gradini confitti nel fianco della torre.
Raggiunsero il piano successivo, traversarono un'anticamera, percorsero un andito incassato tra spesse mura nelle quali si aprivano nicchie ornate con vasi fioriti di globi rosati. Torres si fermò.
- Sono viburni - spiegò Sotgiu.
- Chi li coltiva?
- Io - rispose arrossendo. Poi con passo deciso raggiunse la porta che chiudeva l'andito, l'aprì e cedette il passo al suo ospite.
- Questa è la vostra stanza. Potete rinfrescarvi, se credete - concluse indicando il catino e la brocca disposti sulla toeletta.
Torres lo ringraziò con un cenno, entrò nella stanza e chiuse la porta alle spalle. Ascoltò per un poco il passo di Sotgiu che si allontanava, tolse il mantello e lo appoggiò sulla spalliera del letto.
Provava l'impressione d'essere entrato nella cabina d'una nave. La camera, che s'affacciava sulla parete posteriore dell'edificio, ne seguiva l'andamento circolare. Al culmine dell'arco si apriva uno stretto budello, minuscolo corridoio che conduceva alla finestra. Ai lati due panche contrapposte. Aprì la finestra, sedette su una panca e posò i piedi su quella opposta. Non c'era lo spazio per distendere le gambe e stava quasi rannicchiato con le ginocchia all'altezza del mento, il gomito sinistro posato sul davanzale della finestra. Sfilò un sigaro, lo umettò senza fretta e l'accese.
Grigio azzurrino era il cielo e si perdeva nel mare senza che una linea di orizzonte li separasse.
Dal suo punto di osservazione Torres non vedeva altro che colore, come se l'intero universo fosse fatto d'acqua ed egli vi stesse in mezzo senza sentire il bisogno di respirare.
Dalla fortezza non giungeva un solo rumore, tutto il mondo all'intorno era silente ed egli conservava un'assoluta immobilità per impedire al suo cuore di turbare con un battito quella generale quiete.
Più d'un'ora trascorse in tale immersione.
Grigi azzurrini il mare, il cielo, il filo di fumo che saliva dal sigaro.
Quando ebbe terminato di fumare si scosse, spazzò con la mano la cenere che era caduta sulla giacca, si levò lentamente per consentire alle giunture di ristorarsi dopo tanta immobilità.
Volse lo sguardo alla stanza e si compiacque trovandola simile alla cella di un monastero.
Un letto, uno stipo, una sedia e la toeletta erano l'unica suppellettile.
- Ogni altra cosa sarebbe superflua - pensò osservando le bianche pareti su cui cominciava a declinare la luce del sole rivolto verso occidente.

La sera pescavano dai Variglioni.
- Un vero uomo dovrebbe saper stringere nodi - diceva Sotgiu sornione e Torres si tormentava le dita cercando di legare gli ami alla lenza.
- Vi serve una mano d'aiuto? - chiedeva l'ufficiale e riceveva in risposta soltanto qualche mugugno. Allora osservava di sottecchi l'amico affannato e fingeva di fissare un punto lontano per non mostrare gli occhi che brillavano divertiti.
Quando il sole spariva nelle acque del mare riponevano nella cesta le lenze e si sedevano a osservare il cielo che scuriva pian piano.
- Quanto tempo siete in quest'isola?
- Cinque anni.
- Senza mai andare via?
- Fatte salve le gite al villaggio di C.
Impiegava interi quarti d'ora, Torres, prima di riprendere il discorso.
- Non vi annoiate?
- Voi vi annoiereste?
Un giorno gli chiese il perché di quella scelta e Sotgiu in poche parole rappresentò un mondo di delusioni patite, di sogni perduti, di amare scoperte su cui erano fondate le sue decisioni.
- Siete un bravo ufficiale.
- Evidentemente questo non basta per ottenere considerazione negli alti comandi.
- Siete sprecato, quaggiù.
- Se è vero, questo dimostra che non sempre chi è chiamato al comando sa disporre dei propri uomini nel modo più giusto.
Fece una pausa lunga e quando riprese a parlare nella voce gli vibrava un nuovo vigore: - In ogni caso non dovete compiangermi. Io ho esattamente quello che ho voluto e non ho tutto quello che ho sempre disprezzato. Sono un ufficiale, ho il comando da me scelto, esercito le mie funzioni nel migliore dei modi che so. Cerchereste invano un segno di malumore tra i miei uomini, e voi immaginate quanto sia difficile tenere un pugno di marinai su questo scoglio, senza una distrazione, lontani dalle famiglie, esclusi dalla vita civile. E cerchereste del pari inutilmente un granello di polvere sul vetro della lanterna, un'incrostazione salina sulle piastrelle che rivestono la torre. Lo dico senza false modestie: conosco il mestiere. Fosse stato possibile trovare soluzioni migliori senza dover piegare la schiena, umiliarsi di fronte agli altri gradi, sopportare le insolenze dei potenti, probabilmente avrei fatto in altro modo la mia parte. Non è stato possibile e mi contento di quello che ho. In fondo non è poco. Ho mille passi da compiere per traversare da nord a sud l'isola, ho il mare, il vento, le tempeste che infuriano nell'inverno. Ho la libertà; non so se un ammiraglio possa dire la stessa cosa con altrettanta sicurezza. Cosa volete di più?
Torres assentiva pensoso.
Fu allora che Sotgiu gli disse con un sorriso:
- E voi, quanto tempo siete nella vostra isola?
Torres lo osservò per un istante cercando di capire; si guardavano serissimi e presero a ridere lieti dell'affinità che li univa.

Una sera, quando l'ultima luce rendeva incerti i contorni delle cose e il loro scoglio si faceva sempre più piccolo, Sotgiu indicò il mare calmo, immenso di fronte a loro. Poi cominciò a raccontare con voce profonda.
- In tutte le terre che ho visitato nel corso del mio servizio, sempre ho cercato di raggiungere l'ultimo lembo che si protende sulle onde del mare, verso l'infinito.
Siete mai stato nell'estremo nord dell'Europa?
Torres scosse la testa.
- Il paesaggio trasmuta, come ci appressiamo ai supremi confini, i grandi alberi spariscono e la campagna si copre d'un'erba fitta e scura che modella le asperità del suolo quasi fosse una soffice coltre, il colore verde perde la sua preminenza e prevalgono le tonalità del bruno. Poi, quasi per abituare gli uomini all'imminente fine dei suoi territori, la costa s'inabissa in un mare di tinte metalliche. Noi navigammo e giungemmo su un'isola poco più grande di questa dove tutto era bruno e anche le erbe e i cespugli allentavano la loro morbida aderenza per disvelare il colore cupo della terra, quasi un monito prima della sparizione. Quando questo accade, quando affacciato su un aereo promontorio capisci che la terra è definitivamente perduta, hai davanti agli occhi nient'altro che mare e quasi ti par di vedere la curvatura del mondo. Fermo su quello scoglio ho sentito di essere l'ultimo uomo e ho contemplato la sconfinata solitudine sapendo d'aver lasciato la mia specie dietro le spalle.
- Come quando si scala un altissimo monte.
- Ecco. Ma la cima del monte è anche il confine di una regione per gli uomini impraticabile, il cielo in cui non sappiamo muoverci come ci muoviamo nel mare. Da quella riva, invece, con l'occhio all'infinito e la consapevolezza della traversata compiuta per arrivarvi, riesci a progettare viaggi senza meta attraverso inesplorate regioni, terre polari, mari di ghiaccio, regni del possibile e dell'impossibile. Chissà mai cosa c'è ad accogliere il coraggioso che voglia drizzare la prua verso quei mondi.
- Anche da questa riva, stasera, con gli occhi che figgiamo nell'indistinto di mare e di bruma, possiamo pensare a mari e mondi infiniti.
- Bravo. Avete colto il senso del problema; quale a me appare, almeno. Forse è il retaggio di uno spirito sognatore, forse è soltanto la stanchezza del noto che da tempo mi assale, ora che mi avvio a diventare vecchio e troppe cose ho visto che non ho amato. Senza perdere il gusto di pensare che possa ancora esistere un'alternativa, un modo diverso, una gente che si conduca secondo costumanze più ragionevoli.
- Forse in quell'acqua laggiù.
- Forse.
Sotgiu tacque un momento, si accostò a Torres e gli posò una mano sull'omero: - O forse c'è soltanto un'africa, né più né meno che qui, stessi modi di fare, stessi uomini, appena un poco più scuri.
- Dio ce ne scampi.
Insieme risero per quell'amara previsione che sapevano certezza.

La tempesta scoppiò improvvisa nel cuore della notte.
Per tutto il giorno il cielo era stato scuro e gonfio, carico d'elettricità.
Dopo cena erano usciti sulla terrazza: non tirava un alito di vento ma l'aria era greve, oppressa dall'aspettativa di quel che stava per accadere.
Torres, nella sua stanza, non riusciva a dormire. Aveva anche riacceso il lume e letto una pagina d'un libro, ma poi il bisogno di muoversi, quasi il sentimento d'insofferenza per l'immobilità, lo aveva vinto.
Si era rivestito pian piano, aveva soffiato sulla fiammella e s'era accostato alla finestra aperta per osservare il mare che l'intermittenza del faro illuminava ritmicamente.
Lo schianto del tuono lo colse senza preavviso facendolo sobbalzare. Si vergognò di quella paura e per consolarsi pensò che mai aveva sentito un simile scoppio.
Il vento arrivò come una furia. Il mare che fino a un attimo prima appariva calmo sotto la luce del faro aggricciò e al successivo passaggio della luce già si levava in cascate di spuma che ricadevano sulla scogliera.
Gocce gelate di pioggia gli bagnavano il volto facendolo rabbrividire. Indossò la mantella e riprese il suo posto d'osservazione.
I lampi attraversavano il cielo, interminabili, e le acque del mare, come evocate da quella luce, ribollivano, si sollevavano sommergendo la prima linea degli scogli, minacciando gli alti Variglioni dai quali gettavano le lenze.
Il vento turbinava indeciso su quale direzione dare al suo soffio e le spume formavano mulinelli che per un istante risplendevano bianchissimi illuminati dal faro prima di ripiombare nell'oscurità, cancellate alla vista ma presenti con il loro fragore.
I tuoni, il muggito del mare, il crosciare della pioggia annullavano ogni altro rumore.
Certamente gli uomini vegliavano nella fortezza, i fanalisti accudivano alla lampada e molti occhi scrutavano le acque infuriate, ma tutto avveniva in un irreale silenzio, come se una ciurma di fantasmi governasse quella nave che gli elementi minacciavano di affondare. Solo Torres era vivo, affacciato alla finestra che rappresentava il suo ponte di comando e gli sembrava che la fortezza galleggiasse perché la sua volontà la tratteneva ancorata sull'isola nella quale era giunta portata da un altro vento, come questo impetuoso e privo di meta. Volle fumare ma le mani ghiacciate facevano fatica a reggere il fiammifero. Allora tenne il sigaro stretto tra i denti e la pioggia che gli sferzava il volto glielo infradiciava sciogliendo tra le labbra l'amaro sapore del tabacco. Era comandante di una nave ed era signore d'un antico castello di decaduta nobiltà: ascoltava il rantolo delle onde frante sulla roccia scabra. Mille pensieri si rincorrevano nella sua mente e gli sembrava di scottare, nonostante il freddo pungente e le gocce di pioggia che le raffiche portavano fino a lui.
Trascorse tutta la notte con le palme posate sul davanzale della finestra, solidamente piantato sulle gambe per fronteggiare i marosi che scuotevano quella tolda. L'alba si affacciò livida tra le nubi di piombo.
Chiuse pian piano la finestra per non fare rumore, attraversò la stanza e il corridoio in punta dei piedi. Discese le scale e sgattaiolò da un usciolo senza incontrare anima viva.
Con pochi passi raggiunse la scogliera e si fermò a guardare la spuma che saliva fino a lambire i suoi stivali. La pioggia s'era attenuata e scivolava sul mantello cerato come una carezza.
Gli venne in mente Sophie che in quel momento sicuramente dormiva.
Rabbrividì per il freddo.
Gli sarebbe piaciuto dividere il tepore di quella stanza, l'intimità delle coltri tirate fin sotto il mento e la dolcezza del risveglio, quando la voce suonava roca per il sonno appena concluso.
- Parla - diceva Sophie.
- Cosa vuoi che dica?
- Qualunque cosa, ma parla - e gli posava la testa sul petto.
- La tua voce suona profonda, in questo istante del giorno, come dopo mai. Viene da una caverna nascosta nelle viscere della montagna. È un suono di forza ma dolce, ricco di mille armonie.
Allora parlava, e le diceva frasi prive di senso: dei suoi capelli biondi come un campo di grano e veniva da carezzare le spighe che si chinavano al vento, degli occhi azzurri che erano laghi in cui gli piaceva veleggiare senza pensieri.
- Parla ancora, ti prego.
O piuttosto l'avrebbe voluta con sé quella mattina, donna che non teme la forza del vento, stretti nei mantelli per camminare sui sentieri ornati dai cespugli che s'esaltavano sotto la pioggia ritrovando il verde terso e i profumi.
- Parla ancora, ti prego -, l'avrebbe chiesto lui, questa volta, e si sarebbe fatto cullare da quella voce che aveva un suono come di pioggia; ma calma, quale le piante desiderano dopo lunga siccità, serena, per dissetarle.
Un rivolo d'acqua scendeva dal cappello dentro il colletto. Strinse la fibbia del bavero, tolse di bocca il sigaro completamente sfatto e lo fece volare lontano.

- E pensare che voi potreste dormire - disse una voce allegra alle sue spalle.
Torres si volse e tese la destra a Sotgiu che si avvicinava.
- Mi piacerebbe fare il guardiano del faro, da grande - mormorò e insieme guardarono il mare senza aggiungere niente.


CAPITOLO SEDICESIMO


Quando scoppiò la guerra Sophie mandò a chiamare il marito.
- Ha scritto Aldo.
- Tuo fratello?
- Mio fratello.
- Quali nuove?
- Parte volontario.
- Volontario?
- Sì, volontario. Ti pare strano?
Torres tacque per un po', strinse gli occhi, stirò i baffi tormentandoli con la mano sinistra, mentre la destra si muoveva nell'aria quasi accompagnando un dialogo muto.
- Ti sembra strano? - ripeté Sophie, e nella sua voce non c'era alcuna intonazione polemica, ma veramente chiedeva al marito per poter comprendere un evento che le pareva difficile da giudicare.
- Il mondo è sottosopra - borbottò Torres.
- Cosa vuoi dire?
- Segui il ragionamento. Dove è nato, Aldo?
- È nato in Italia.
- E quando l'ha lasciata?
- Aveva pochi mesi quando tornammo nella nostra casa di Nizza.
- E dopo d'allora ha sempre vissuto in Francia, ultimo figlio d'un signore in ritiro che trascorreva il suo tempo nella campagna francese.
Sophie guardava il marito chiedendosi dove volesse parare con la rievocazione di quella storia familiare che entrambi conoscevano bene.
- Che lingua parla?
- Il francese, naturalmente; ma papà gli ha appreso l'italiano, come ha fatto con tutti i figli, del resto, che all'interno di casa non abbiamo mai parlato nessun'altra lingua.
Tacque un istante prima di chiedere: - Cosa c'entra tutto questo?
- Cosa c'entra Aldo con l'Italia? - disse Torres d'un fiato.
Sophie sentiva che il marito aveva ragione, ciò nonostante provò a opporsi alle inevitabili conclusioni del ragionamento, ma come parlava sentiva che gli argomenti sostenuti non avevano neanche per lei un'efficacia assoluta: prevalente la paura dei rischi cui il fratello sarebbe andato incontro nel nome di un ideale che sconfinava nell'infatuazione giovanile.
- Comunque è inutile discuterne - concluse - Aldo ha fatto la sua scelta. Verrà a salutarci prima di raggiungere il fronte.

Anche nelle campagne di C. la guerra fece valere i suoi diritti: Torres vedeva giorno dopo giorno che le braccia rimaste non erano sufficienti e fu costretto a ridurre le attività.
I campi che avevano conosciuto il lavoro dell'uomo intristivano, i fruttiferi inselvatichivano e su tutto il paesaggio si diffondeva un'atmosfera d'abbandono e di trascuratezza.
Ma più che del paesaggio forse sarebbe giusto dire subito degli uomini, o per essere precisi delle donne, dei bambini e dei vecchi che erano rimasti al paese. Gli uomini, bene o male, se la cavarono, alloggiati com'erano, e nutriti e curati, mai Dio non voglia qualche male li cogliesse, nelle trincee verso le quali li aveva guidati la mano del re. Ma a quanti erano rimasti, chi pensava?
Fu allora che Angelina Cadòni venne vista muovere una mattina con passo risoluto verso la stalla.
Slegò i buoi e li avviò al carro chiedendosi quale mai fosse quello che bisognava aggiogare per primo.
- Accostài a su carru - diceva con tono di preghiera, a stento ricordando i nomi che Danièlli aveva dato agli animali: Non ne azzecchi una, si chiamava il più forte, mentre l'altro faceva Neppure per sbaglio. E in realtà Danièlli di sé parlava, dando quel nome al suo giogo.
Legate le bestie Angelina montò sul carro borbottando: - Me ne importerà a me, del re - e diresse verso la campagna.
Fino al giorno in cui il marito ritornò felicemente dalla guerra nessuno la udì più pronunciare una sola parola, ma sotto gli occhi di tutti era il fatto straordinario di quella donna che, lasciati a casa i bambini, lavorava in campagna come se fosse un uomo e usciva prima dell'alba per tornare dopo il tramonto.
In quella data le donne non usavano fare determinati lavori e Angelina era bella e minuta ma nessuno menò scandalo per quel suo muoversi in solitudine lungo i sentieri della campagna.

Moltissimi furono quelli che andarono, i più borbottando, qualcuno rassegnato, qualcuno infine con la speranza di incontrare in quei posti sperduti verso i quali era avviato un mutamento della fortuna dalla quale mai era stato baciato.
E ci fu anche chi andò volontario, come Allìccu Cadrìa, legionario fiumano a soli diciassett'anni.
Nessuno si chiese cosa potesse sapere Allìccu Cadrìa del poeta che l'aveva chiamato alle armi perché in quel paese quasi nessuno sapeva del vate, ma molti poi si fecero beffa del cavalierato concesso al contadino Cadrìa che per tutta la vita continuò a grattare la terra.
Come gli altri che cavalieri non erano.

Ai primi d'ottobre arrivò Aldo.
Lo accolsero al porto e il cielo era terso, azzurri i monti che a occidente chiudono il golfo.
Quando sull'alta passerella apparve la divisa di un militare Sophie strinse forte il braccio di Torres.
Aldo discese mostrandosi subito qual era, uno splendido ufficiale artigliere che veniva loro incontro con un sorriso stampato nel volto bambino.
Torres mosse qualche passo e l'abbracciò. Sophie, immobile, guardava incantata il fratello.
Aldo si avvicinò, le prese la mano e, rigido sull'attenti, gliela baciò.
- Abbracciala, tonto - e con una gran pacca sulle spalle Torres spinse l'ufficiale verso la sorella.
Con le nipoti Aldo galantemente si complimentò per la loro avvenenza e scompigliò i capelli del nipote che guardava incantato le armi incrociate e la gran fiamma accesa sul copricapo dello zio.

Renato non dimenticò mai, finché visse, quei giorni che lo zio trascorse nell'isola, giovanissimo e ancora amante dei giochi qual era ma anche orgoglioso dell'acquisita virilità, le mostrine sul colletto della giubba a segnare la fine del noviziato.
Ufficiale d'artiglieria volontario, destinato a un battaglione d'assalto: ripeteva la formula magica ogni volta allargando le spalle e sentendo di essere invincibile.
- Non hai paura della guerra, zio Aldo? - chiedeva Renato e Aldo rideva mostrando una fila ordinata di candidi denti, perché al timore non bisognava concedere niente.
Il bambino capiva da quel sorriso che un vero uomo, quasi un eroe, non sa neppure cosa sia, la paura.
Andavano insieme sopra il calesse che Aldo conduceva come fosse un cocchio di guerra, mentre le scintille volavano dagli zoccoli che battevano furiosamente il selciato, dai mozzi che sfioravano i paracarri di pietra, tra schiocchi di frusta e voci d'incitamento alla bestia.
- Sei come i cavalieri di cui parla il mio libro - diceva il bambino e Aldo sempre allegro gli scompigliava i capelli.
- Anche tu lo sarai quando diventerai alto come me.
Sophie era incantata da quel fratello che sembrava l'immagine della forza e della gioia di vivere ma a tratti un'ombra le passava negli occhi, quasi presentendo il rischio dell'ardimento senza confini.
- Non potresti parlare con Aldo? - chiese una sera al marito.
- E per dirgli che cosa? - rispose Torres allargando le braccia.
Coglieva fin in fondo le preoccupazioni della moglie ma capiva che ogni discorso sarebbe stato inutile: gli uomini hanno la strada segnata dal giorno in cui nascono e le azioni che compiono sono quelle per ciascuno necessarie; impossibile condursi altrimenti.
Aveva allargato le braccia, ma anch'egli provava l'angoscia profonda che già lo aveva assalito negli ultimi giorni in cui aveva lavorato al paese con Lazzarino Fanni, con Valentino Serra, con Agostino Carbòni, con tutti gli altri giovani; e sembrava impossibile contare quanti, da quel buco di paese, erano partiti e chissà mai se sarebbero tornati.
- Dio ci aiuti e Maria Santissima - pregavano le donne e Torres taceva con lo stomaco stretto pensando che poteva soltanto dar loro qualche moneta a mo' di viatico.
Troppo poco, di fronte a quella grande ingiustizia.
Cosa c'entravano Lazzarino Fanni, Valentino Serra, Agostino Carbòni con un re che non avevano mai conosciuto, che mai s'era occupato dei loro problemi e che improvvisamente decideva di mandarli a sparare arrampicati sul fianco di una montagna sconosciuta?
- Una pazzia.
- Come dici?
Torres si scosse dai suoi pensieri e sorrise alla moglie che lo guardava con ansia.
- Dico che Aldo farà bene la sua parte. Certo, tu sai come la penso, non sarebbe dovuto partire: ma rispetto la scelta che ha compiuto. Farà la sua parte e tornerà a raccontarci le gesta di guerra.
- Lo pensi davvero?
- Non ho alcun dubbio.
Cos'altro dire alla donna che l'ansia tormentava? forse che lo vedeva, com'era, così fiero del suo ardimento e pensava che li avrebbe cercati apposta, i rischi, ingenuo e irresponsabile come deve essere un eroe che si sente invincibile?
Lo amava, quel cognato così giovane che gli sembrava un figlio, così entusiasta che gli strappava un sorriso, piuttosto che una parola di disapprovazione.
E per quanto conosceva gli uomini avrebbe potuto descrivere anticipatamente ogni pensiero e ogni gesto di Aldo nei futuri mesi di guerra.

Anni, piuttosto, quelli che passarono e gli uomini che erano partiti non tornavano, o se rientravano erano ridotti come mai un uomo dovrebbe diventare, invalidi privi di forza e cupi per il rancore.
La guerra durava assai più del previsto, non si parlava di pace, i giornali e i bollettini militari davano solo notizia di vittoriose avanzate.
Ma la guerra non terminava. Passava un'estate e veniva un inverno. Quelli che arrivavano per una breve licenza raccontavano sottovoce di trincee di fango, di fame e di freddo.
Aldo, invece, non ritornava. Le aveva bruciate tutte le sue licenze, ogni volta ripartendo volontario quando gli spettava un turno di riposo. Aveva avuto una croce di guerra, poi una medaglia d'argento. Su un giornale era apparso il suo nome.
Torres, quand'era solo, scuoteva la testa. Con Sophie ostentava allegria.
- Dovessi dirti a che cosa serve tutto questo, onestamente non saprei, ma non dubitavo che Aldo si sarebbe distinto, come il suo temperamento gli impone di fare.

Il Diciassette era quasi finito.
- Forse per Natale avrà una licenza - diceva Sophie e progettava di raggiungere il fratello nel continente per trascorrere la festa con la famiglia riunita. Ma quando il Natale stava per arrivare Aldo scrisse che il battaglione, dopo un periodo di riposo nelle retrovie, doveva essere impiegato nuovamente in prima linea: poteva lasciar partire i compagni, come l'ultimo dei vili, solo perché aveva diritto a una licenza?
E sì che, mentre la truppa stava per muovere e i muli già scalpitavano sotto i pezzi, l'ufficiale comandante lo aveva fatto chiamare e gli aveva detto che poteva considerarsi esonerato dal servizio.
Aldo, rigido sull'attenti, aveva formulato la richiesta di partire comunque, ed era riuscito a convincere il superiore.
Così è quando uno ha il destino segnato.
Le feste di fine anno trascorsero senza allegria. Torres si era trasferito in città e stava vicino a Sophie che non parlava. S'era procurata una grande carta che teneva aperta sul tavolo e guardava e riguardava ogni momento, così che le erano divenuti familiari i nomi di quei luoghi che non aveva mai visto e avrebbe potuto percorrerli a occhi chiusi, ritrovando le strade, i paesi, i monti e le valli: Vicenza, Asiago, il Brenta, il Monte di Val Bella. Lì, da qualche parte del monte o nella valle che digrada, stava il fratello. Nel fango. Era ossessionata da quest'idea del fango; lo immaginava come una marea crescente che copre gli scarponi e le mollettiere, avviluppa le gambe, raggiunge le giberne, s'avvolge attorno ai petti dei giovani vigorosi e a poco a poco li sommerge senza che possano resistere perché il valore non può nulla contro un'infima insidia.
Era il sogno ricorrente, l'incubo che le impediva di riposare la notte. Torres avrebbe voluto aiutarla ma le parole ormai non servivano a niente, neppure le sentiva, assorta com'era in quel suo pensiero.
Rispondeva al marito con un sorriso mesto e fingeva di credere ai pietosi incoraggiamenti. In realtà aveva nel cuore una nera certezza che quel lieto nome di monte e di valle per opposto presagio confermava.
In Val Bella Aldo cadde in gennaio, pochi mesi prima che la guerra finisse.
Dicono che abbia stretto tra le mani, appena colpito, la bandiera della patria e abbia invocato il nome della madre. Chissà mai se è vero: è una storia così antica e nessuno ha potuto appurarla con esattezza.

Torres partì con Sophie chiusa nel velo nero.
Nella nave militare sulla quale viaggiavano gli ufficiali la guardavano con rispetto, la sorella dell'eroe che morendo aveva meritato un'altra medaglia d'argento.
Torres osservava con occhi socchiusi e non parlava.
Giunsero appena in tempo per la cerimonia funebre.
Sophie riabbracciò le sorelle che non vedeva da anni e mai avrebbero voluto incontrarsi in una così triste circostanza.
Il discorso del prete fu molto sereno: giudicava naturale la morte di uno che da poco aveva compiuto vent'anni e non gli stringeva le viscere ma era certo che si sarebbero tutti ritrovati nell'abbraccio del Signore. Così che poté parlare con tono ispirato e il discorso ebbe quasi un crescendo per chiudersi con un motto pronunciato in buona lingua latina: - Certamen bonum certasti, cursum consumasti, reposita est tibi corona iustitiae.
- Crobu - pensava Torres che sorreggeva la moglie e le cognate.

Quando la guerra finì quelli che non erano morti rientrarono al paese e ripresero le normali attività.
Senza troppi entusiasmi: la guerra li aveva segnati e piuttosto che il ricordo delle eroiche imprese compiute avevano riportato una cupezza che non li abbandonava, un modo risentito di guardare alla vita, quasi fossero convinti d'essere stati raggirati.
Ma non parlavano.
Solo uno mostrava tutta intera la sua allegria e non finiva mai di raccontare i fatti gloriosi dei quali era stato a suo dire protagonista, certamente spettatore.
Fidèlli Porcu era il suo nome ma ognuno meglio lo conosceva come Mesu Pezza e il soprannome forse alludeva a certe qualità non interamente spiegate, a una crescita arrestata prima del completo sviluppo. Non che fosse scemo, Mesu Pezza, ma di certo non era un'aquila. Buono comunque per la leva e tale da poter seguire il suo reggimento, forse non in posizione di comando, sul fronte di guerra.
Proprio lì, nella trincea affacciata sulla trincea nemica, nel logoramento della paura che suggerisce l'ipotesi del ripiegamento e della diserzione, era maturata l'epica impresa di cui l'uomo menava gran vanto. Quando un intero reparto, compresso fra la duplice e opposta pressione dell'insidia avversaria e dello stimolo rappresentato dai carabinieri che vigilavano perché nessuno cedesse d'un passo, prese l'eroica decisione. E una bella mattina, constatato che chi esigeva dagli altri un'assoluta abnegazione in realtà restava sicuro nelle retrovie, valutato che anche il più strenuo combattente ha bisogno d'un momento di pausa senza doversi per questo sentir pungolare alle spalle o, peggio, imputare di tradimento, avvertito nel fondo del cuore un profondo disprezzo per coloro che considerava i suoi persecutori, prese la decisione di ristabilire un po' di giustizia.
Manu militari, e mai termine meglio definì una situazione, il reparto intero circondò i carabinieri e li mise in stato di arresto. Poi rapidamente sentenziò, e anche stabilì che la sentenza dovesse avere immediata esecuzione.
Furono scavate tante fosse quanti erano i carabinieri, in duplice fila, perfettamente allineate. Non più d'un metro di profondità. In ogni fossa, a capo in giù, venne disposto un uomo e la terra fu riversata.
Gli occhi di Mesu Pezza scintillavano, mentre concludeva il racconto, piccoli e porcini, vicinissimi alla follia: - Dovevate vederli. Abbiamo fatto un filare di carabinieri - e rideva con l'orgoglio di chi ostenta una decorazione.
- Tutte quelle gambe per aria sembravano piante di fichi ben allineate nel campo.
Nessuno si preoccupò di acclarare se il fatto fosse realmente accaduto o, più verosimilmente, fosse il frutto malato di una povera mente che mai aveva avuto chiarezza d'intendimento. Ma l'immagine di un doppio filare formato da gambe svettanti verso il cielo li racconsolava tutti, al paese: faceva intravedere una possibilità di giustizia, nel mondo.
Così che, da allora, quando qualche prepotente cominciava a passare il segno con le sue azioni, la vittima levando gli occhi al cielo auspicava: - Finirai come i carabinieri di Mesu Pezza - ed era invocazione rivolta al giudice supremo che non può essere udita senza turbamento della coscienza.


CAPITOLO DICIASSETTESIMO


Nel Diciannove Giuseppe Todde morì.
Fu una bella morte, come l'avesse preparata con quel gusto per il decoro che gli era proprio.
Così accadde che una domenica mattina, fatta la consueta passeggiata sotto i portici e aspirato a pieni polmoni l'odore del mare, riprendesse pian piano la strada di casa.
Camminare non gli pesava, nonostante avesse da un pezzo passato gli ottanta, e al bastone si appoggiava più per vezzo che per reale necessità.
Camminava piano, perché era d'agosto e il sole quasi raggiungeva il suo culmine nel cielo; camminava rasente i palazzi che conservavano una striscia d'ombra per i passanti. Molti lo salutavano mentre s'avvicinava a casa ed egli portava il bastone al cappello e a tutti rispondeva con voce robusta che il passare del tempo non aveva velato.
Abitava una palazzina, piano terra e primo piano con i balconcini di ferro alla spagnola, piccoli piccoli in una facciata linda che voleva riverniciata ogni anno. Arrivato all'uscio di casa si fermò un momento: il maestrale entrava nella via portando quel tanto di fresco che allieta una giornata d'agosto. Dalle finestre aperte le tende s'affacciavano come bandiere sulla strada; davano un'aria di festa, quei pizzi che mani di donna avevano arabescato nelle sere invernali.
Infilò due dita sotto il colletto rigido e l'allargò respirando profondamente. Gli parve di sentire un odore di minestra che dal piano superiore giungeva fino a lui e ricordò che l'aveva chiesta a Vittoria, prima d'uscire, la minestra di pesce con la fregula, ma che fosse piccante, come deve essere, quando la vita ancora tenta con i gusti più forti.
Tirò la cordicella che usciva da un foro del portone e azionò il saliscendi. Varcato l'uscio si fermò di fronte alla rampa di scale che s'ergeva improvvisa e ogni giorno la riguardava con antipatia.
Era l'unico segno dell'età che gli era sfuggita, la scala che in salita e in discesa doveva affrontare a piccoli passi, con un poco d'affanno e qualche preoccupazione.
- Coraggio - si disse, e la voce risuonò nell'androne.
Pose il piede sul primo scalino, proprio dove migliaia di volte l'aveva posato; la pietra di nera lavagna s'era addolcita e conservava l'impronta dei passi, perduti per sempre gli angoli vivi.
Pensò a se stesso, guardando lo scalino consunto e sorrise. S'afferrò al corrimano e cominciò la salita contando ogni passo. Quando arrivò a venti si ritrovò in cima, rassettò la cravatta e girò vigorosamente la chiavetta fissata alla porta. Il suono si diffuse nelle stanze all'interno e uno scalpiccio subito rispose premuroso.
La donna che aprì si fece da parte con un inchino. Todde entrò, fermandosi alla finestra che accanto alla porta d'ingresso illuminava la stanza. In fondo, nella penombra, vide l'alta figura di donna Vittoria che lo salutava.
- Dieci minuti, Peppino, e il pranzo è pronto. Se vuoi puoi cominciare a lavarti.
- Preferirei riposare un momento, - rispose - ho un poco di sonno.
La donna lo precedette nello studio e fece per scostare le tende. - Non aprire gli scuri, - le disse - voglio riposare così in questo fresco.
Donna Vittoria rispose con un sorriso e uscì accostando la porta. Anche Todde sorrise guardandosi attorno nella penombra e vedendo ogni cosa ordinata, i libri, le stampe alle pareti, il piccolo scrittoio col calamaio d'argento. Si avvicinò alla poltrona e sedette. Il cuoio era fresco, accarezzò con piacere i braccioli.
Sedeva tenendo tra le gambe il bastone d'olivastro e lo guardava, sottile e diritto, appena segnato dai nodi che sembravano dargli agilità, certamente vigore.
Teneva il bastone tra le gambe, le mani riunite sull'impugnatura. Provava un senso di sonno, come quando stai per addormentarti e non vuoi resistere, anzi ti pare gradevole lasciarti trasportare.
Posò la fronte sulle mani e gli occhi ancora aperti vedevano il bastone diritto e forte, come quando era nato nelle ceppaie della foresta.
Disse a voce bassissima: - Pigaisìdda in sa schina - ma senza rancore, anzi affettuosamente, come chi si congeda e vuol farlo con un po' d'allegria, perché è normale che ci sia chi se ne va e chi resta.
Decise di chiudere gli occhi e s'addormentò nel fresco della stanza oscurata.

- Nell'industria agricola e nel commercio espertissimo.
Torres guardava la lapide che due muratori avevano appena fissato sulla tomba di Todde.
Attendeva che gli uomini raccogliessero gli attrezzi e, ricevuta una moneta di soprassoldo, velocemente se ne andassero.
Voleva restare solo, dopo i giorni trascorsi nei mille necessari adempimenti, nelle frequentazioni e negli abbracci che la morte di una persona cara comporta.
Il primo urto gli era venuto dal certificato di morte, che pure aveva redatto un vecchio e stimatissimo amico. Sapeva bene che l'essenziale, in una scrittura burocratica, è la formula incolore, liberatoria d'ogni responsabilità, neutramente certificatoria per la buona pace dei registri. Eppure gli sembrava che una parola fosse stata spesa con troppa approssimazione e non rendesse giustizia all'accaduto, non rispondesse alla realtà dei fatti, non certificasse la verità, insomma.
Ma della verità, probabilmente, non importava niente agli ufficiali dello stato civile e ai registri. Il medico lo sapeva che s'adeguava scrivendo: marasmo senile. Quel marasmo gli faceva pensare allo sconvolgimento delle onde in tempesta, alla mente dell'uomo offeso dalla pazzia o, peggio ancora, dalla decadenza che non di rado la vecchiaia comporta.
Niente di tutto questo era accaduto per Todde che ancora seguiva gli affari, camminava diritto e sorrideva della follia umana senza rammaricarsene, con la consapevolezza, piuttosto, dello studioso che trova conferma a una teoria.
Marasmo era quello che li circondava, la guerra appena conclusa e tutto ciò che era seguito e non lasciava presagire nulla di buono, perché gli uomini non li puoi impunemente ingannare come erano stati ingannati, che prima avevano patito per anni nelle trincee e oggi si ritrovavano con un pugno di mosche in mano, quelli che per loro fortuna le avevano riportate, le mani, salve dalle granate e dai congelamenti.
Così non era possibile continuare; lo avrebbe capito chiunque avesse avuto un briciolo di buon senso e la confidenza con gli uomini che deriva da una pur minima frequentazione per un comune lavoro.
A Torres era tornata una truppa priva di fede. Lo vedeva osservandoli mentre zappavano: diresti che è un lavoro brutale, senza luce d'intelligenza, e invece non puoi farlo senza metterci l'anima, semplicemente percuotendo la terra.
Ora battevano la zolla per guadagnarsi la paga il più possibile onestamente, ma non gliene importava nulla della terra, del raccolto e di tutto il resto.
Le mille speranze che qualcuno aveva loro acceso nel cuore erano state deluse e negli occhi avevano il macello di sangue e di morte cui avevano partecipato inutilmente.
Quello era il marasmo.
Per Todde avrebbe scritto: il sonno del giusto. E forse il Padreterno gli avrebbe dovuto lasciar chiudere gli occhi senza fargli vedere la rovina che la partenza degli uomini aveva portato nelle sue terre ordinate.
- Cittadino esemplare per bontà e per carattere -: sorrise pensando al tratto burbero dell'uomo che per lui era stato come un padre, aveva indirizzato i suoi passi, gli aveva dato la possibilità di realizzare l'impresa verso cui l'aveva spinto e nel cui compimento sempre lo aveva assistito prudente, consigliando per il meglio, mai sconcertato dalle innovazioni che il più giovane sapeva introdurre per modificare le pratiche antiche.
- Visse caro alla famiglia e agli amici -. Si spostò sotto l'esile ombra d'un giovane cipresso. Il cimitero era deserto, così come aveva desiderato che fosse per l'ultimo colloquio.
Sapeva che non sarebbe mai più tornato, ai piedi di questo colle, a parlare con l'amico che lo aveva lasciato. Lo avrebbe ritrovato nei campi e nelle foreste, nei solchi del terreno arato e nelle vigne che insieme avevano disegnato.
Molto restava da fare e in primo luogo doveva ricomporre la proprietà che tra tanti eredi era stata divisa, com'era giusto che fosse secondo la legge e un principio d'equità.
Ma tutti quei beni, almeno quelli del villaggio di C., non potevano restare frantumati. Come un organismo vivente avevano una unità: non era un fatto di possesso, ma piuttosto la forma che doveva assumere l'idea per manifestarsi. A lui spettava il compito di ricostituire la proprietà riscattando le parti che erano arrivate nelle mani di eredi distratti, prima che il processo di dispersione frantumasse l'opera per la quale aveva speso la vita. Non sarebbe stato facile, lo sapeva, ma era pronto e non si sarebbe tirato indietro.
- Morì rimpianto e benedetto.
- Così sia per tutti - concluse e si voltò deciso verso il cancello sollevando la destra in un vago cenno di saluto che somigliava a un giuramento.

- Todde è morto - disse Anacrèto Pitzàlis.
- Vorrei avere io il tesoro che ha lasciato - soggiunse Antiògu Crèchis.
- Su scusòrgiu en Toddi - disse con sguardo sognante il figlio di Anacrèto, ma il padre lo riportò sulla terra assestandogli una vigorosa pedata nelle terga. - Guarda che i capretti si stanno allontanando - e il ragazzo prontamente s'avviò a chiudere il varco nel recinto formato con rami di lentisco intrecciati.

Della cassaforte di cui si favoleggiava in paese Torres possedeva la chiave. E per altro conosceva bene il contenuto.
Insieme l'avevano fatta collocare nel punto più sicuro della casa, dietro i due portoncini intessuti di spranghe ferrate. Insieme l'avevano aperta decine di volte per disporre i danari indispensabili nella conduzione dell'azienda che avevano costruito, legati da un vincolo di parentela, dall'amicizia e dalla comune speranza.
Nella cassaforte era custodita una busta suggellata col bollo di ceralacca rossa su cui era stato impresso il segno: G. T., come il marchio dei buoi.
All'interno un foglio sul quale con ordinata grafia Todde aveva segnato il lungo elenco degli eredi, quelli che portavano il suo cognome e gli altri, fratelli della moglie cui era egualmente legato. Tutto diviso in parti rigorosamente uguali.
- Così stabilisco e decido, nel pieno possesso di tutte le mie facoltà e convinto di fare cosa giusta. A questa divisione solo deve essere sottratta la terra di P., dalle giogaie dei monti in cui confina con il territorio comunale fino alla spiaggia che appartiene al Demanio, per un totale di ettari 100 (cento), la quale andrà, interamente e senza divisione veruna, al mio cognato Giuseppe Torres, in ricompensa dell'opera prestata nel corso degli anni e senza la quale niente di quanto mi appartiene, nel territorio di C., oggi esisterebbe, così come esiste, perfettamente condotto e regolato secondo le moderne norme dell'arte agricola.
Torres dopo il funerale era arrivato al paese, aveva aperto la cassaforte, presa la busta, cambiato il cavallo e subito era ripartito verso la capitale senza neppure farsi la barba.

Lo studio del notaio era pieno all'inverosimile, quel giorno, eppure il monte ereditario era così cospicuo che, sia pure diviso fra tanti eredi, lasciava ciascuno soddisfatto del suo.
A evitare contestazioni, comunque, Todde aveva provveduto con un rigido dispositivo testamentario che escludeva ogni possibilità di diversa interpretazione, di contestazione e di lite. Perché gli uomini sono uomini, gli affetti affetti e l'interesse interesse: decisamente meglio se le circostanze ci aiutano a vivere d'amore e d'accordo.
Così ciascuno che in quella stanza sentiva pronunciare il suo nome e, dietro, la litania delle terre, delle case e di quant'altro a lui Todde aveva assegnato, si levava contento, salutava i parenti e si avviava a prendere possesso delle proprietà.
Nello studio, per richiesta di Torres, rimasero soltanto coloro che avevano ereditato i beni di C.
Torres li guardò per un momento, i suoi fratelli e qualche nipote di Todde che gli stavano di fronte, e disse d'un fiato: - Compro tutto io.
In un primo momento pensarono che scherzasse. Ma Torres non aveva l'aria di uno che scherzava quando spiegò diffusamente: avrebbe comprato tutto, solo che loro volessero, a un equo prezzo di mercato, come fosse un estraneo e non un parente. L'unica cosa che chiedeva, vista l'entità della somma che presumibilmente sarebbe derivata da un eventuale accordo, era una dilazione nel tempo, diciamo tre anni, pagamento sicuramente concluso al 31 dicembre 1922.
Il notaio che lo conosceva e in lui riponeva la sua stima fece allarmato un rapido calcolo: sulla base di ciò che avevano appena dichiarato nel processo ereditario i beni ai quali mostrava interesse raggiungevano un valore misurabile in centinaia di migliaia di lire.
Sempre che qualcuno dei venditori non avesse voluto operare un ricarico, il che sarebbe stato nell'ordine delle cose e perfettamente legittimo. Un valore certamente proporzionato all'entità dei beni, ma, per favore, voleva Torres dire quando mai a C. si era sentito parlare di una simile cifra, quando mai l'avrebbe potuta ricavare, onestamente guadagnando sul lavoro dei campi, come avrebbe potuto fare (scusando se si occupava dei suoi affari, ma in fondo era il notaio e Torres un cliente cui particolarmente teneva) a metterla assieme, visto e considerato che una tale massa di danaro liquido non doveva essere passata a C. neppure in tutti gli anni durante i quali assieme a Todde aveva operato nella costruzione e nella gestione dell'azienda?
Torres sorrise alla sua maniera rinchiusa, e tutti capirono che ci aveva già pensato da solo, che aveva fatto i conti, che sapeva l'impresa difficile e quasi folle ma che fidava nelle sue forze e sarebbe morto piuttosto che venir meno all'impegno.
Giulio disse: - Parlo io che sono il maggiore di tutti i fratelli e con tutto l'affetto che ti porto, Peppino, non ho mai dubitato, anzi sempre sono stato convinto che tu sia un po' matto. Epperò c'è nella tua pazzia una certa aura di grandiosità, un sentimento che onora il nostro nome e la memoria di Todde. Io capisco che non sei mosso da materiale smania di possesso, e anche capisco che vuoi comperare beni che a noi appartengono per legittimo diritto ereditario ma che tu hai contribuito a formare. È il tuo lavoro che vuoi ricomprare, non la nostra terra. Sentimento molto giusto e degno di stima. Voglio favorire il disegno; ti darò ciò che chiedi ed esorto tutti a fare altrettanto, senza alcun sovrapprezzo, perché sarebbe immorale lucrare sulla passione che ti spinge. Quanto al termine che stabilisci a me sembra pazzesco, ma so che se il sentimento ti muove, la ragione sostiene i tuoi atti: avrai fatto bene i conti e, in fondo, stai ponendo a te stesso una sfida. Per me sta bene così.
Lo abbracciò e altrettanto fecero gli altri. Poi firmarono le carte.

Sul far della sera Torres arrivò a C.
Smontò da cavallo e salì verso casa, chiamò un servo e si fece aiutare a riunire le due panche di legno che stavano nella veranda. Dispose la sacca da viaggio come un cuscino e si distese.
- D'ora in avanti ci sarà poco tempo per dormire - disse e si addormentò come un sasso.
Tre ore dopo era in piedi, appoggiato alla barandiglia tornita, in mano una tazza di caffè che fumava.
Le stelle splendevano sulla massa scura dei monti che gli stavano di fronte. Li guardava come si guarda una persona con la quale si parla e si è sicuri di essere compresi.
- Adesso ci sarà da ballare - pensava a mezza voce - giorno e notte, senza interruzione né feste. Io farò la mia parte ma anche la terra, le bestie, le cave di granito sui monti devono fare la loro. E gli uomini.
Terminò di bere il caffè e scese verso le stalle.
I servi, alla luce del lume a carburo, versavano le fave nelle mangiatoie dei buoi. Prima dell'alba i carri dovevano essere già sui campi lontani.

 

CAPITOLO DICIOTTESIMO


Renato arrivava d'estate e Torres lo attendeva con ansia. Lo abbracciava sul portale d'ingresso e ogni volta si stupiva nel vederlo più alto, che ormai lo aveva superato, e magro, come fosse una canna sottile.
- Tu hai bisogno di bistecche e di vino forte - diceva e il figlio arrossiva.
Ma poi, alla sera, quando si ritrovavano nel fresco della terrazza intorno al piccolo desco sul quale il lume splendeva come un magico faro che richiamava le falene, alla sera mangiavano con allegria. E vuotavano il fiasco che una donna sostituiva con un altro ricolmo.
Allora Torres studiava suo figlio, guardava con tenerezza i capelli che aveva neri come l'ala di un corvo e sottili: sembravano seta quando glieli arruffava con un gesto che voleva essere allegro e invece era commosso.
Gli piaceva, quel figlio, e lo intimidiva, così diverso da sé che sembrava impossibile stabilire in aggiunta al legame del sangue un colloquio nato da comuni interessi.
E sì che Renato l'amava la terra che il padre governava, e capiva come in quel governo tutte assieme si ritrovassero le qualità della fantasia e della tenacia, i sogni e la più dura fatica.
Ma c'era, nel suo modo di porsi di fronte a ogni cosa, la traccia di un atteggiamento contemplativo che sembrava negare ogni soddisfacente attitudine pratica.

Una mattina visitarono la cava del granito.
Torres aveva vinto un appalto e ottenuto una fornitura dalla quale riusciva a ricavare gran parte del danaro liquido necessario per pagare il debito.
La cava era quindi divenuta uno dei cuori pulsanti della sua attività e il rintocco dei martelli che percuotevano lo scalpello suonava ininterrotto di giorno e di notte. Le squadre si alternavano al lavoro, nella luce del sole e nel pallido lume del carburo. Incessantemente le mazze calavano sulle zeppe legnose che venivano irrorate d'acqua. Il legno pian piano compiva il lavoro gonfiandosi fino a staccare i grandi blocchi dal fianco della montagna. Allora gli uomini con le cime tese dagli argani, con la forza delle braccia, con l'aiuto dei muli li facevano scivolare sui tronchi, un centimetro alla volta, fino alla tettoia di canne sotto la quale lavoravano gli scalpellini che sbozzavano le forme, ripulivano i blocchi, tagliavano i conci minori, preparavano il materiale per la spedizione. Nel piazzale i blocchi si allineavano, più o meno grandi, in attesa del trasporto verso i luoghi lontani dove sarebbero stati disposti a formare la pavimentazione delle strade, la facciata delle case o le colonne di una chiesa.
A dire il vero Torres riguardava il materiale preparato per la partenza con un sentimento di sofferenza. Avvertiva una diminuzione della terra, una privazione, una perdita irreparabile nell'allontanamento di quei graniti che la natura aveva disposto laggiù con tanta abbondanza e la gente straniera avrebbe ammirato, fatti ornamento del proprio mondo. Mentre nella sua terra restavano occhiaie vuote, lacerazioni che nessuno avrebbe potuto rimarginare.
Ma la ragione economica imponeva quel sacrificio.

Andavano a cavallo per il sentiero segnato dalle orme profonde dei carri. Curvarono negli ultimi stretti tornanti che richiedevano ai carriolanti una doppia manovra e superarono la sommità del monte. Di fronte ai loro occhi si apriva una valle senza traccia di vegetazione. Proseguirono calpestando un manto di scaglie che risplendevano al sole e i cavalli posavano con precauzione lo zoccolo che scivolava prima di trovare un appiglio. Arrivati alla tettoia legarono le bestie. Gli uomini accennarono ad alzarsi per un saluto.
- Continuate - disse Torres. - Ho portato mio figlio per mostrargli cosa sapete fare con la pietra - e le mani orgogliose ripresero il loro battito con infinita pazienza e altrettanta precisione.
Renato guardava stupito quel paesaggio lunare, bianco e grigio, scintillante per la luce dei quarzi.
Arrivarono al costone del monte. Le punte avevano appena finito di segnare la base di un blocco. Gli uomini si muovevano ai suoi piedi come formiche di fronte a un gigante.
- Portate le zeppe - gridò uno che sembrava essere il capo e passava un dito con delicatezza lungo il filo segnato dalle punte borbottando: - Qui, qui, qui.
Nei punti stabiliti, con pochi colpi, venivano fissati i cunei di legno.
Renato disse: - Ci vuole una forza enorme.
L'uomo rise: - Ci vuole cervello - e poiché Renato lo guardava senza capire aggiunse: - Come potremmo vincere questo toro molto ma molto più forte di tutti noi messi insieme? - e con la mano dava pacche affettuose sulla roccia.
- Con un atto di forza non sarebbe possibile - spiegò Torres - e allora studiamo il problema fino a trovare il modo per piegare la forza della pietra e del legno ai nostri voleri. Sono esseri vivi e noi li domiamo come si fa con i tori. Se li prendessimo di petto riusciremmo sconfitti, perciò li osserviamo e scopriamo quello che da sé vogliono fare. Li aiutiamo a riuscirci. La pietra più compatta ha una linea di frattura e sembra quasi che voglia svellersi dal monte. Il legno ha una vitalità che nessuna morsa riuscirebbe a contenere. Basta accostarli nel modo giusto e aspettare l'aiuto del tempo.
L'operaio aveva controllato che le zeppe fossero ben collocate e già gli uomini versavano l'acqua nella fenditura: - Guardi - disse a Renato indicando un pertugio alla base di una parete compatta, e gli mostrò il punto d'origine di una linea, quasi un filo che percorreva il piede della roccia.
Lì avevano operato con le punte per rimuovere i materiali intrusi, meno nobili scorie che sembravano contaminare la purezza del granito, particole friabili che sostenevano la monumentale durezza del macigno.
- Questa è l'anima della pietra - concluse l'uomo e Torres spiegò ancora al figlio che quelle venature egualmente esistono nella roccia smisurata come nel piccolo sasso e anche in questo caso, a saper vedere la disgiunzione che la pietra nasconde, è possibile con un colpo delicato suddividere ciò che sembrava strettamente connesso.
- C'è anche chi dice che la pietra contenga forme assai più complesse di quelle che noi rileviamo con le nostre geometriche squadrature: lo scultore si limiterebbe a ripulire il blocco per far vivere la figura celata nel grumo delle incrostazioni.
- Possibile? - chiese Renato.
- Possibile - rispose il padre. - Incredibili sono le cose che il mondo della natura racchiude e si offrono all'uomo, solo che sappia vederle.
Ma poi Renato scoprì le profonde ferite che laceravano il fianco del monte e si oscurò.
Diceva che avevano violato un ordine esistente da secoli, che prima di loro tutti gli uomini passati su quelle terre si erano contentati di vivere senza cambiare il volto dei luoghi ma che invece quelle scalfitture fatte fin nel profondo sarebbero rimaste in eterno. Torres, che la pensava esattamente come lui e che soffriva per quel che il bisogno di danaro lo costringeva a fare, si irritò con il figlio e lo contraddisse, arrivando a concludere che uno di neppure vent'anni avrebbe fatto molto meglio a star zitto e a imparare da chi comprendeva più cose di lui.
Sapeva che il figlio aveva ragione, ma gli doleva quell'incapacità di valutare l'aspetto economico dei problemi e anche lo preoccupava un ragazzo sognatore che sembrava vivere perennemente con la testa nelle nubi.
A Torres dispiaceva che la montagna venisse violata, ma non poteva farne a meno, gli bruciava il rimprovero del figlio e finì col precipitare nella più profonda amarezza sapendo d'essere ingiusto coi modi bruschi e con le frasi perentorie che usava.
Una vita taciturna fatta di ordini secchi e di occhiate che valgono un discorso non può essere all'improvviso cambiata: con Renato avrebbe voluto parlare, spiegare tutto ciò che aveva compreso nel corso dell'esistenza, ma il ragionamento si inaridiva sulle labbra e il bisogno d'affetto era tutto nel gesto scherzoso con cui scompigliava i capelli del figlio.
Non approvava che Renato leggesse, come leggeva, i libri che aveva portato con sé e gli altri che trovava nell'étagère dello studio. Vecchi libri polverosi che avevano accompagnato la sua giovinezza mille anni lontana, prima che imparasse tutto quello che aveva imparato osservando gli uomini piegati sulla zappa, discutendo alla sera attorno al fuoco che scoppiettava e più che parole pronunziavano suoni smozzicati:
- Così è la vita, bisogna avere pazienza.
- Cosa vuoi che ti dica? come viene la prendiamo -; massime di una sapienza che ben difficilmente arriva alle pagine dei libri, ingombri come sono d'inutili frascherie.

- Cosa leggi? - gli aveva chiesto un pomeriggio d'agosto quando il sole picchiava che sembrava fondere la roccia e stavano al riparo, sdraiati sulle stuoie fresche in magazzino.
- Le donne, i cavalier, l'arme... - aveva cominciato a rispondere con fare scherzoso, ma il padre lo aveva interrotto:
- Sciocchezze.
- Come dici?
Torres avvertì nel tono del figlio l'irrigidimento di chi è pronto a fronteggiare una minaccia e si morse le labbra maledicendo la parola detta.
- Volevo dire: mi convincono poco, le armi -: perché, poi, la questione che li divideva non era, come potrebbe sembrare, una disputa letteraria.
Torres aveva colto sul nascere il segno dell'infatuazione infantile che Renato aveva concepito per gli uomini d'arme e le guerre.
Era accaduto nei giorni della visita di Aldo, quando il bambino dietro la divisa che lo zio portava con virile eleganza cominciò a intravedere un cavalleresco mondo di eroiche imprese e di gloria. Un universo nel quale, come aveva scoperto in una poesia appresa sui banchi di scuola, vivono uomini vestiti di ferro, belli più del San Michele sull'altare della chiesa.
Quello che a Torres appariva un mal seme cresceva nello spirito del bambino. Il padre si accorgeva di non poter contrastare le suggestioni che la morte dello zio aveva rafforzato e rese indiscutibili, tanta era la sacralità di quella morte del tutto coerente con l'immagine dell'eroe che il figlio s'era formata.
- Cavalieri e armi - aveva borbottato, se Dio vuole salvando almeno le donne.
Ma come diavolo si potrà spiegare a un ragazzo che la vita non è un'avventura gloriosa e che la guerra, quella vera, la si combatte ogni giorno senza troppi squilli di tromba, quando la brina ti brucia le mani al mattino e alla sera la schiena si spezza che non vuole più andare? Non avrebbe capito e allora tanto valeva tacere, anche se, a pensarci bene, che importa essere un padre se non si riesce neppure a spiegare una verità tanto chiara?
Almeno così a lui sembrava, chiara, che ogni giorno gli tornava sotto gli occhi e si riconfermava vera, come l'aveva scoperta quarant'anni prima, quando era giunto a C.
E poi forse un padre è solo uno che soffre senza poter fare niente per modificare il destino dei figli.
- Vorrei fare l'ufficiale.
- Ci mancava solo questo - pensò, e a voce alta gli disse che anche mille altre onorate professioni potevano dischiudersi per un giovane coscienzioso, come lui era: compisse i suoi studi rimandando le scelte al tempo appropriato e all'età dalla quale un qualche consiglio sarebbe pur dovuto venire. Almeno a sentire gli antichi.
Ma le cose dovevano essere già cambiate nel senso della modernità, senza che Torres, sperduto nei salti di C., si fosse accorto di niente, perché Renato gli disse che aveva ben riflettuto e che gli sarebbe piaciuto partire per l'accademia.
- Serve solo l'autorizzazione paterna - concluse, e Torres per la prima volta benedisse il Governo che almeno una l'aveva pensata giusta.
Poi naturalmente gli disse che avrebbe firmato, magari non subito ma avrebbe firmato, come lui voleva, perché non credeva che il compito d'un padre fosse quello di mettere i bastoni fra le ruote al proprio figlio, neppure se le vedeva girare, quelle ruote, in una china che non gli piaceva proprio.
Anche suo padre, del resto, non aveva gradito la scelta d'infrascarsi tra i rovi: così diceva la buonanima e Torres non poteva ricordare senza intenerirsi e provare un po' di rimorso per il dolore dato al suo vecchio.
Allora, cosa andava cercando? La vita è come un gran giro di conti, un capitale che non sta fermo nelle mani di un singolo ma passa di mano in mano e alla fine è la stessa moneta che accontenta tutti. O rende tutti scontenti.
Tale e quale suo padre gli toccava ora vedere questo figlio che si voleva disperdere dietro sciocche fantasie. E sì che l'avrebbe avuta la possibilità d'entrare nella vita per la strada maestra, al suo fianco, alla guida di un'azienda ben avviata e ricca di possibilità.
Il debito coi parenti stava per essere estinto: era stata dura ma che cosa non c'è di duro, nella vita? tanto vale proporsi mete ambiziose, e vedere alla fine chi è il più forte, ma non in una prospettiva breve di cinque o dieci anni: a bilancio concluso, voleva dire, quando i decenni si fossero sommati ai decenni.
Da questo lato del ragionamento, a dire il vero, c'era poco da rallegrarsi: il tempo era bell'e trascorso. Era ormai giunto ai sessanta e forse il ministro del Regno lo puoi fare anche da vecchio, il suo mestiere no, che richiede intelligenza delle cose, prontezza nelle decisioni, energie vive in ogni momento.
Eccole lì, le energie, racchiuse nel ragazzo, ed erano un po' sue: insieme le avrebbero potute impiegare in un comune lavoro. Nell'interesse del giovane, beninteso, perché a lui gliene importava un accidente di tutte le ricchezze del mondo. Non ne aveva abbastanza per vivere i suoi ultimi anni seduto sotto una pianta, col sigaro stretto tra i denti in modo da non poter pronunciare una sola parola, che non aveva più niente da dire a nessuno, se questo se ne andava?
Ufficiale dei suoi mustacchi. E intanto tutto ciò che aveva costruito sarebbe andato in malora, senza la mano del figlio.
- D'accordo, - ripeté corrugando le ciglia - tu finisci gli studi e io firmo.
- Grazie, papà.
- Non c'è niente di cui mi debba ringraziare, non ti sto facendo un favore.
Renato abbassò lo sguardo sulle pagine del libro che era rimasto aperto.
- E in ogni caso, sappi che le cortesie e le audaci imprese solo qui puoi trovarle, in questo mondo cui volti le spalle.
- Può darsi, papà, può darsi. Ma vale la pena scoprirlo da soli.
Aveva ragione lui: è che alle volte si può spendere un'intera esistenza, per scoprire, alla fine, d'aver sbagliato tutto.


CAPITOLO DICIANNOVESIMO


Nel dicembre del 1922, dieci giorni prima della scadenza prevista, un vaglia telegrafico portò ai legittimi destinatari la somma che a loro spettava in compenso delle terre e delle case cedute a Giuseppe Torres.
Nello spazio che il modulo riservava alle comunicazioni l'acquirente aveva segnato in bella scrittura il sentimento da cui era animato: - Cari fratelli, a saldo di quanto dovuto vi invio, e spero vogliate restituirmi quietanza liberatoria, la somma di cui ancora sono debitore secondo gli accordi stabiliti. Nella circostanza vi riconfermo che la mia casa sarà sempre la vostra, ogni qual volta vorrete onorarmi con una visita più che gradita. Affettuosi saluti da vostro fratello Peppino.
Dieci giorni dopo, era il 31 dicembre, gli giunse una carta col bollo di lire due che rappresentava una femmina armata di scudo e pastorale con croce. A lei sottoposto un leone dormiente.
- Così sia per ogni bestia feroce - pensò Torres e lesse: - Noi sottoscritti dichiariamo qualmente abbiamo ricevuto la somma di lire... a saldo di quanto dovutoci da nostro fratello Giuseppe in pagamento dei beni ereditati dal fu Giuseppe Todde e a lui venduti e dismessi con regolare declaratoria notarile, la quale, essendo interamente avvenuto il pagamento, sarà prontamente registrata non appena nostro fratello Giuseppe ne faccia richiesta. Per il momento e per tutti gli effetti gli rilasciamo la presente quietanza.
Lette le firme che chiudevano il documento Torres sorrise e disse a voce alta: - Su scusòrgiu en Toddi.
Sfiorò con il dito la tempia destra e aggiunse: - È tutto qui dentro, il tesoro.

Annottava. La casa era deserta e non si sentiva alcun rumore. Sovrappensiero Torres scese la scala che portava alla cucina. In un treppiede posato dentro il camino le donne avevano lasciato il bricco del caffè. Dalla credenza prese una tazza di coccio e la riempì fino all'orlo. Sollevò la tazza nella cucina appena rischiarata dalla luce del fuoco. La bevanda fumante gli sembrò una buona compagnia, per quella sera di festa. Inarcò il sopracciglio in un sorriso amaro e borbottò: - A medas annus.
Risalì le scale e se ne andò a dormire.

Si svegliò che faceva giorno.
Per lavarsi scese in giardino e si strofinò vigorosamente con l'acqua ghiaccia attinta dal pozzo, poi si vestì e si diresse di buon passo verso la stalla. A quel punto ricordò che non aveva fatto colazione, ma l'idea di preparare il caffè non gli attraversò neppure per un istante la testa. Entrò nel magazzino, spillò dalla botte grande un mezzo bicchiere di vino, lo portò alle labbra e sciacquò la bocca, poi lo sputò. Il vino tracciò un arcobaleno di scurissimi colori e si perse nella terra del pavimento.
La cavalla non sapeva che era giorno di festa e trottava come ogni mattino, allegra per l'aria fredda che le pungeva le froge. Bastò appena toccarla con gli speroni per lanciarla al galoppo.
Nello stradone sterrato non si vedeva anima viva.
L'animale e il cavaliere andavano come se il mondo soltanto a loro appartenesse ed era lieta la bestia, pensoso l'uomo che la incitava.
Attraversarono una vallata e raggiunsero il podere ai piedi del monte Maria.
In un capanno formato con le fronde intrecciate dei lentischi erano custoditi gli attrezzi e le piante arrivate dal continente. Torres entrò, aspirò il selvatico odore del lentisco, prese una zappa e afferrò per la chioma una giovane palma che quasi lo sopravanzava in altezza.
Mai s'era vista una palma piantata laggiù. L'aveva fatta arrivare scegliendola su un catalogo che una ditta di pepinieristi puntualmente gli inviava.
Strinse la palma in un abbraccio e la trasportò all'aperto. Osservò l'allineamento delle piante finché individuò uno spazio che sembrava fatto al caso suo. Si tolse la giacca e cominciò a scavare. Sudava e diceva che anche un vecchio, se ha un po' di vigore, il primo gennaio deve pensare al futuro.
Quando la forma fu aperta, pazientemente sciolse il sacco che proteggeva la zolla e sistemò la pianta badando che stesse diritta proprio al centro del fosso. Versò un po' di terra e rincalzò; continuò a zappare finché il colletto fu interamente coperto. Allora coi piedi pigiò la terra perché aderisse bene e aiutasse la palma ad ambientarsi nella nuova dimora.
Quando ebbe terminato gli sembrò d'aver partecipato a un battesimo. Sfiorò le foglie pennate quasi volesse accarezzarle e si chiese se avrebbe avuto il tempo necessario per vederla grande. Sollevò le spalle come sempre faceva quando si trovava di fronte a un quesito senza risposta e rimontò a cavallo,

Percorreva il sentiero che risale il fianco del monte e ascoltava il ritmo degli zoccoli. Era una musica che monotonamente ripeteva lo stesso ritornello, una frase pescata in chissà quale angolo della memoria che riaffiorava decine di volte e si adattava ai tempi e ai suoni di quel passo cadenzato: - Tutto questo io ti darò, se tu ti prostri e mi adori.
Raggiunse la cima del monte e il vento che l'aveva accompagnato durante l'ascesa improvvisamente smise di soffiare.
Il sole baluginò tra le nubi e illuminò il paesaggio all'intorno con una luce fredda che mostrava i dettagli delle campagne lontane, nitidi, quasi fosse possibile toccarli.
Sembrava che l'aria con le sue caligini e i pulviscoli sospesi fosse stata assorbita da una macchina gigantesca, capace di operare nello spazio infinito. E infinito era davvero lo spazio che si offriva alla vista. Verso nord una catena di montagne e l'occhio scendeva nelle vallate, risaliva lungo i crinali, s'inerpicava nelle vette che si inseguivano numerose come le stelle nel cielo. Lo colse il sentimento della sua piccolezza.
Volse gli occhi in direzione del sole che montava nel cielo, verso mezzogiorno, sul mare immenso, perlaceo, totalmente immoto in quell'ora senza vento.
Dai piedi del monte fino al mare le campagne di C. Non una che non gli appartenesse.
Quarant'anni aveva impiegato e ora ogni cosa era sua. Ma non era del possesso che s'interessava, e certamente non aveva pensato alla proprietà della terra, quel giorno lontano in cui aveva detto a Todde che sarebbe rimasto. A ciò che avrebbe voluto realizzare, piuttosto, quasi avesse già nella mente un progetto finito. Anzi, lo aveva; concepito nel tempo necessario per ritornare dal podere di maestro Gavino al dominario di Todde. E quel progetto prevedeva le grandi linee generali, le prospettive d'assieme e i particolari minuti, i dettagli che ai più sarebbero apparsi insignificanti ma che per lui erano essenziali. Tutto aveva visto come in un'unica immagine che d'improvviso gli aveva acceso la mente.
Quell'immagine aveva inseguito giorno dopo giorno e a poco a poco la realtà aveva assomigliato all'idea, fino a darle corpo. Chiunque poteva vedere il risultato.
Per anni aveva collaborato con Todde e quel vecchio saggio aveva consentito che le sue energie di uomo forte inseguissero le geometriche dimostrazioni delle quali aveva bisogno. L'aveva lasciato fare senza mai intervenire se non per suggerire una soluzione più efficace, un ritmo più incisivo, un accorgimento economico per superare un ostacolo. Poi, alla morte di Todde, aveva dovuto trovare la via per evitare che l'ordito realizzato con tenacia si frantumasse nei rivoli dell'eredità. Questo solo lo aveva mosso, non certo l'avidità del possesso.
Per questo, quando gli avevano chiesto se per caso non volesse disfarsi di una qualche particola delle sue terre aveva orgogliosamente risposto: - Io non vendo, compro.
Ora non c'era più niente da comprare, se non le montagne che appartengono a Dio e agli animali del bosco. Le racchiudevano a corona, quelle montagne, le sue terre che il mare bagnava. Fece correre circolarmente lo sguardo. Senza bisogno del cannocchiale riconosceva i luoghi nei quali aveva lavorato, le vigne più antiche, i filari degli alberi disposti a protezione dal vento, i frutteti cresciuti nei chiusi feraci. La palma no, non era possibile vederla da quell'altezza, nonostante riconoscesse con esattezza il podere.
Un giorno, forse, non lui, suo figlio, da quello stesso punto, con quella medesima luce, con quella trasparenza dell'aria l'avrebbe vista svettare e forse si sarebbe ricordato del padre.
Il figlio. Provò una stretta al cuore.
- Tutto questo io ti darò, se tu ti prostri e mi adori.
Non aveva bisogno di prostrarsi davanti a nessuno. Mai s'era, ma neanche prostrato, solamente chinato per un istante e tutto ciò che aveva voluto oggi l'aveva.
Eppure in quel momento gli sembrò che forse avrebbe potuto chiedere altro alla vita. Con altrettanta caparbietà, con la stessa forza forse avrebbe potuto pretendere di conquistare una diversa ricchezza, quella di cui ora avvertiva la mancanza. Ma quale, se neppure sapeva definirla? Eppure gli mancava, e avrebbe dato tutto ciò che possedeva per averla. Ah, ecco, gli ritornava in mente, si ricomponeva, la frase che l'aveva accompagnato nel corso della salita.
Ricordava le circostanze e il luogo, il libro, persino, sul quale l'aveva letta moltissimi anni prima: - Sta scritto: non di solo pane vivrà l'uomo.
Per la seconda volta nel corso di quella mattina sollevò le spalle. Non era il pane, quello che aveva cercato. Aveva inseguito un'idea che gli appariva lontana, ma chiara. Quella che ora non riusciva a vedere con altrettanta chiarezza e gli sembrava d'aver sostenuto una grande fatica per niente.
Fischiò debolmente e la cavalla si avvicinò spingendo il muso nella tasca della giacca dove solitamente il padrone teneva le zollette di zucchero. Ne prese una e gliela diede. Risalì in sella e passo passo ritornarono a valle.

Così Torres trascorse quella prima giornata dell'anno.


CAPITOLO VENTESIMO


Quella benedetta firma la mise.
Doveva essere il 1923 o forse erano gli inizi del '24. Torres non ricordava bene, ma Renato, poco più, poco meno, aveva vent'anni, quando partì.
Lo abbracciò a lungo, senza dire una parola, e a ripensarci, la nave aveva già sciolto gli ormeggi e la figura del figlio appena si distingueva tra i viaggiatori affacciati alla murata del ponte superiore, non gli aveva neppure chiesto quale fosse la specialità militare che aveva scelto.
Presto arrivò la lettera di Renato che comunicava un indirizzo: 51° Cacciatori delle Alpi, caserma Alfio Belingardi (ma che razza di nome), Perugia.
Era quanto gli serviva sapere. Del resto non gl'importava: cosa mai facesse Renato, fosse un semplice soldato, un graduato o partecipasse a un corso per allievi ufficiali.
Senza rendersene conto provava per quel mondo al quale il figlio apparteneva una sorda gelosia e non voleva conoscere niente delle progressioni nella gerarchia militare, dei successi nei tiri, della vita di tutti i giorni. I cortili della caserma, le mense, le camerate erano un indistinto nel quale vagavano figure difficilmente identificabili; anche la fisionomia di Renato si perdeva: non riusciva a raffigurarselo con giubba e mollettiere, con il ridicolo cappello che i soldati portavano.
Renato capiva perfettamente lo stato d'animo del padre e le sue lettere erano lievi per non ferirlo, parche di riferimenti alle mansioni del servizio, attente piuttosto ai particolari fisici dei luoghi nei quali si trovava, così diversi da quelli nei quali era nato e cresciuto.
Ai primi di settembre già faceva un freddo che nell'isola nessuno avrebbe potuto immaginare.
Fecero un campo nei pressi di Foligno. Le tende chissà perché erano corte, come se quei figli fossero fuori misura d'altezza. Renato diceva di dormire con i piedi che spuntavano all'aperto, doveva naturalmente tenere gli scarponi e tutti bevevano una razione di brandy, prima d'andare a dormire.
Il sonno, per fortuna, non mancava, che erano giovani e le marce pesanti, zaino affardellato e forse anche dovevano caricare sulle spalle qualche pezzo delle mitragliatrici.
Torres non era mai stato nell'Umbria, ma nel corso di un suo viaggio l'aveva sfiorata; d'estate, però, senza rendersi conto di quella rigidità di clima.
I racconti del figlio gli rappresentavano quindi un mondo che non avrebbe saputo identificare nella realtà e doveva ricrearsi un'immagine fatta di storie ricavate dai libri. La Siberia, ad esempio, gli sembrava un appropriato riferimento per tutto quel freddo; la neve e la nebbia.
Della nebbia gli disse Renato, in una lettera nella quale descriveva il suo primo servizio: il reggimento scaglionato lungo la strada ferrata, gli uomini a portata di voce che non si vedevano l'uno con l'altro, immersi in un'ovatta che li separava. Un'intera giornata in attesa del treno sul quale viaggiava il capo del Governo, l'uomo della provvidenza troppo preoccupato dei possibili attentati per affidarsi soltanto al buon Dio.
I ragazzi erano stati tutto il giorno in piedi nel freddo e quel cafone tranquillo nella vettura ferroviaria, o nel vagone letto che era la sua specialità.
Ah il re Vittorio Emanuele... fosse stato uno dei suoi contadini che, poniamo, doveva dar da mangiare alle bestie e non l'avesse fatto, sarebbe stato cacciato immediatamente e tutti l'avrebbero trovato naturale. Invece quel mezzo uomo, quando Facta gli aveva detto di compiere il suo dovere e firmare lo stato d'assedio, aveva nicchiato e nessuno poteva cacciarlo a pedate. Così ora erano in pugno a una banda di scalmanati e il più cafone di tutti se ne andava a petto in fuori come se avesse fatto chissà quale impresa. Povera Italia. E i ragazzi senza mangiare, in mezzo al freddo e alla nebbia, in attesa che passasse sua eccellenza. Avrebbero dovuto prendere pala e piccone, per capire com'è davvero la vita, lui e tutti i pelandroni che gli andavano dietro, vagabondi senza un sentimento.

Per quanto scarni, i riferimenti alla vita militare che Renato faceva erano tali da renderlo inquieto.
Una volta, era stato trasferito in un qualche avamposto, gli raccontò la vicenda relativa alla morte del capitano Aldovrandi. Il quale capitano pare che avesse nella vita un'unica vocazione e un unico grande desiderio: quello di spedire al carcere militare di Gaeta il maggior numero possibile dei suoi sottoposti.
Non si sa bene per quale motivo, nell'avamposto in cui Renato prestava servizio, la sorveglianza notturna era molto severa.
Custodivano, in un campo chiuso da filo spinato, con camminamenti, passerelle in legno e garitte, certi bidoni metallici, probabilmente vuoti, la cui sorveglianza andava curata, particolarmente la notte.
Così, come usa, alla sera un capoposto con un drappello insediava la sentinella che diveniva responsabile e padrona assoluta del territorio. Nessuno poteva varcare i confini di quel mondo, neppure l'ufficiale di picchetto. La sentinella riconosceva il capoposto, ma anche questo autorevole personaggio, in compagnia del suo drappello, doveva avvicinarsi con le necessarie cautele, farsi riconoscere, pronunciare alcune frasi cerimoniali e ottenere il libero accesso. Per tutti gli altri c'era soltanto un triplice chi va là, l'intimazione fermo o sparo e, alla fine, un buon colpo di moschetto al bersaglio grosso. Tale la scansione delle operazioni previste dalle procedure codificate nei regolamenti; ma, naturalmente, come nella situazione che i matematici studiano, anche in questo caso cambiando l'ordine dei fattori il risultato non sarebbe mutato.
I bidoni stavano allineati monotonamente e mai nessuno s'era sognato di forzare gli sbarramenti militari, le notti erano molto fredde e le garitte, per quanto possa sembrare strano a chi dispone di un letto, accoglienti. Più d'una sentinella non disdegnava di trascorrere qualche momento al riparo di quell'esile protezione. Sedevano sulla panca, le spalle alla parete, le mani aggrappate al moschetto che tenevano fra le gambe, la testa reclinata. Taluno perfino si assopiva, per brevi istanti.
Il capitano Aldovrandi era come un pescatore che sa dove il pesce ha la tana e sempre s'ingegna di acchiapparlo.
Il regolamento militare gli avrebbe dovuto impedire di arrivare fino alla garitta se non in compagnia del capoposto e del complementare drappello. Ma con tutto quell'armamentario, e i soldati non erano scemi e si difendevano tra loro marciando con passo pesante o facendo qualsivoglia rumore per svegliare il commilitone, come sarebbe stato possibile scoprire il reo nel flagrante reato?
Così il buon capitano, chiotto chiotto, senza dir niente a nessuno, meno che mai al capoposto, la notte scivolava tra i bidoni, s'inerpicava tra i camminamenti e le passerelle, arrivava alla fatale garitta e con un urlo di soddisfazione pescava il sonnacchioso colpevole.
Gaeta dicevano fosse luogo di grande umidità, specie nelle celle da basso, dove pare che i prigionieri dovessero liberare il pavimento dall'acqua che risaliva. A disposizione, per l'incombenza, avevano il cappello della divisa d'ordinanza. Si diceva: ma chissà s'era vero. La fantasia della gente è infinita e gli argomenti di chi vuole attenuare una colpa subdoli, non di rado.
Acqua o non acqua nelle celle, certamente il capitano Aldovrandi era un estimatore di quel carcere e provvedeva a rifornirlo di ospiti con impressionante cadenza.
Il soldato Montis lo sapeva bene, quale fosse il vizio del suo capitano.
Montis era un uomo singolare, primo in tutti i servizi; da sei mesi in forza nel Regio esercito non aveva scambiato una parola con alcuno, a meno che, fra le parole, non si vogliano includere i prescritti signorsì e signornò.
Veniva da Austis e nessuno aveva capito bene dove fosse quel diavolo d'un paese; forse in Abissinia, a giudicare dagli sguardi feroci da beduino che Montis saettava qua e là.
Soprattutto su Aldovrandi, li saettava.
Per un bottone malcucito sulla giubba il capitano s'era divertito a umiliare il soldato Montis di fronte al reggimento schierato in attesa della libera uscita.
Erano usciti, gli altri, mentre Montis, in camerata, armeggiando con ago e filo in un'invereconda occupazione donnesca, era rimasto a riconquistare la perduta eleganza dell'uniforme.
Nessuno seppe mai, perché Montis di sicuro non si confidava, ma molti ebbero modo di supporre che in quella circostanza il soldato potesse aver concepito un certo qual disamore nei confronti del superiore gerarchico.
Certo è che, a parte l'episodio della giubba, non c'erano stati altri appunti da fare a quel soldato. Sembrava persino intelligente, nonostante la sua aria primitiva, e comunque svolgeva ogni compito con la dovuta precisione. Anche la vigilanza notturna, e senza protestare, nel segreto dell'anima, s'intende, perché a voce alta mai alcuno aveva protestato.
Ma a Montis il servizio di sentinella proprio piaceva. Egli era una specie di animale notturno, abituato, per certe incombenze che aveva svolto fin da ragazzo nella vita civile, a muoversi col favor delle tenebre, a camminare con passo leggiero, senza far rumore e senza lasciare traccia. Il freddo della notte non lo spaventava, né il buio perché sapeva vedere, di notte, forse meglio di quanto gli accadeva nelle ore diurne col fastidioso riverbero del sole.
Lo notò subito, il capitano Aldovrandi che si muoveva ricurvo tra i bidoni. L'ufficiale voleva compiere una mezza manovra aggirante per arrivare alla garitta dalla parte posteriore e sorprendere così la preda. Il soldato Montis, però, né era dentro la garitta, né, tanto meno, dormiva.
La notte era fredda e c'era un ultimo spicchio di luna. Montis aveva camminato in su e in giù respirando a pieni polmoni l'aria umida della notte che gli portava gli odori di casa. Era proprio di buon umore, quella sera. Un poco di neve ricopriva la terra, non tanta da nascondere le erbe che qua e là affioravano, ma bastava ad attutire i rumori, a rendere atmosfere per lui familiari.
Lo vide subito, il capitano Aldovrandi che passava in mezzo ai bidoni e lo lasciò avanzare. L'ufficiale camminava carponi verso la garitta, il soldato gli stava alle spalle, immobile come un gatto. Sorrideva, forse. Con movimenti lenti preparò il moschetto, inumidì con la lingua il pollice e affettuosamente lo passò sulla canna dell'arma.
Senza perdere di vista l'ufficiale piegò le ginocchia in modo da poter raccogliere un sasso. Si riportò in posizione eretta, il moschetto nella destra, la pietra nella sinistra.
Il capitano stava per attraversare il varco tra una fila di bidoni e l'altra. La pietra volò diritta nell'aria e cadde fragorosamente sulle lamiere.
Aldovrandi si drizzò d'improvviso, volgendosi verso il punto dal quale era venuto il rumore e si offrì nella linea ideale che il moschetto tracciava nell'aria, in attesa.
L'inchiesta appurò che la pallottola era entrata con millimetrica precisione tra gli occhi, proprio al centro della fronte.
Dopo lo sparo il soldato Montis aveva lanciato in rapida successione il doveroso triplice chi va là e l'ammonimento fermo o sparo che Aldovrandi non poteva più sentire perché già viaggiava rapidamente verso il suo inferno.
Capoposto e soldati ricordarono bene, e dichiararono a chi li interrogava, d'aver sentito le intimazioni rituali e poi lo sparo. Cosa poteva sapere il soldato Montis del capitano che, chissà perché, passava in una zona in quel momento proibita perfino a un ufficiale?
Il soldato Montis non ricevette un pubblico elogio, ma non si mancò di rilevare, anche tra gli alti gradi, che aveva compiuto in maniera egregia il proprio dovere.

Maggiore impressione fece nell'animo di Torres la notizia del suicidio consumato da un soldato durante il turno di guardia la notte, all'interno di una delle garitte dove alcuni dormivano.
Il soldato Marin non dormì, quella notte, ma sedette sulla panca come volesse farlo. Mise il calcio del fucile tra le gambe e aggrappò le mani alla canna. Non reclinò la testa per un breve riposo, anzi, la tenne ben dritta, la testa, appuntata sulla bocca del fucile.
L'esplosione lo sfigurò totalmente e non pochi dei commilitoni corsi in suo aiuto si sentirono male, al vederlo. Era un settentrionale, di quelli bianchi e rossi che sembrano scemi, così grandi che pare non si sappiano neppure muovere, e certo non era un gran che nella lotta, il soldato Marin, ma una pasta d'uomo, e allegro che nessuno avrebbe mai potuto sospettare per lui una così terribile morte.
Torres sospettava, eccome se sospettava, e gli si stringeva il cuore al pensiero di tanti ragazzi sperduti in quei luoghi selvatici, senza nessun conforto, quasi abbandonati a se stessi.
Pensò cosa avrebbe potuto fare in aiuto del figlio e concluse che almeno doveva stargli vicino con le lettere, raccontargli del loro mondo, tenerlo con i piedi attaccati alla terra che mai tradisce e alle volte può costituire un conforto per lo spirito afflitto.
Fu così che davanti agli occhi di Renato, il quale peraltro era uomo che le durezze della vita militare non stupivano, cominciò a rappresentare uno scenario di mare e di campi, di venti improvvisi e di siccità prolungate, di caldi profumi nelle sere di primavera e di pampini verdeggianti nelle torride giornate di luglio.
Da quarant'anni Torres non impugnava la penna se non per elencare le cifre dei conti o per stendere la rapida corrispondenza burocratica necessaria nella conduzione dell'azienda. Eppure egli seppe evocare un universo di suoni e colori, di uomini intenti ai lavori, delle modeste speranze, delle sconfitte di tutti i giorni.
Renato si stupì per quella che gli apparve come una straordinaria mutazione: non più parole rattenute, non sentimenti pudicamente celati o scontrosamente negati con opposti atteggiamenti del volto ma toni confidenti e affettuosi che nelle lettere si rivelavano, del tutto nuovi, per lui. Ed erano fatti di tutti i giorni, cronache spogliate dalle tensioni che normalmente accompagnano il vivere quotidiano. Torres non voleva che l'ombra d'un turbamento si aggiungesse, nella mente del figlio, e ne indebolisse la volontà, proprio quando tutte le energie dovevano rispondere all'appello per aiutarlo ad affrontare l'impegnativa esperienza.

Solo una volta non gli riuscì di nascondere un pensiero che l'angustiava.
Fu nei giorni in cui volgeva a conclusione la vicenda iniziata un paio d'anni prima, con l'invasione di una sua proprietà da parte della ditta che costruiva, per conto del Governo, la strada tra C. e la capitale.
Erano arrivati, un bel mattino, uomini e carri con tutti i materiali necessari, faticosamente risalenti il sentiero che s'inerpica nell'ultimo costone, prima di raggiungere il territorio di C. Giunti lassù avevano guardato il panorama che si dischiude e sicuramente, per quanto fossero uomini rozzi e non adusi ai palpiti del sentimento, s'erano sentiti commossi da tanta bellezza.
Lì si forma il semicerchio, ultima ansa del golfo sul quale è affacciata la capitale, che in certi giorni d'inverno, quando il mare è fermissimo e d'un azzurro un po' cupo, appare quasi fosse un gran lago. Ma ricco di scogli, variato da linee di terra ora circolari ora diritte, mosso da promontori improvvisi, l'ultimo dei quali, quello che costituisce il capo C., alla terra è congiunto da un collo sottile. Le coste, orlate di sabbia e da contorte scogliere ora bianche ora scure, le coste velocemente risalgono in fianchi di monte che come corolla cingono quel fiore d'acqua e lo riparano dai venti.
Su uno di quei fianchi portati dal loro duro mestiere, gli uomini dell'impresa stradale si fermarono per tergere il sudore, videro e non poterono fare a meno di ammirare.
Nella vallata, sull'orlo delle dune sabbiose, crescevano i ginepri pungenti che formavano una prima barriera contro il vento del mare, e una polla d'acqua zampillava, per perdersi dopo pochi metri nelle sabbie e nel salmastro del greto.
Videro e al volo compresero; avessero saputo di latino non avrebbero mancato di dire: - Hic manebimus optime.
Ma era gente ignorante, capace, al più, di livellare fondi stradali o di erigere, come subito fecero, provvisori baraccamenti destinati a rimanere in piedi il tempo necessario per il completamento della nuova strada.
A tale faccenda erano intenti quando arrivò il capraro che dall'alto del monte aveva seguito ogni loro manovra attorno alla fonte dove scendeva con le bestie per l'abbeverata.
Buongiorno. Buongiorno. E cosa state facendo? Così e così e tutti gli altri necessari convenevoli, prima di arrivare alla domanda cruciale: - Ma lo sapete che state calpestando il terreno di Todde?
Il capocantiere si fece avanti, che non conosceva nessun Todde, ma che molte altre volte aveva costruito baraccamenti, forni di calce e fosse per lo spegnimento della medesima, proprio sulla riva del mare, in una parte di terra che appartiene al demanio, che è come dire il Governo, cioè lo stesso che paga per la costruzione delle strade; quindi...
- Sarà - rispose compunto il capraro che non aveva altro da aggiungere e riteneva inutile, giunti a quel punto, la discussione.
Buongiorno. Buongiorno e strada tra le gambe, bisaccia in collo e passo sostenuto. Neanche un'ora per arrivare al dominario di Todde.
- Su meri? - domandò appena arrivato e la donna cui s'era rivolto accennò con la mano verso il magazzino del vino.
Il capraro entrò levandosi il cappello.
- Novità? - chiese Torres meravigliandosi di vederlo lì, a quell'ora, e il branco solitario sul monte. Così e così.
- Hai fatto bene - si complimentò il padrone e ordinò: - Bevi!
Il capraro non aveva ancora vuotato il boccale del vino che i cavalli erano insellati e Torres in compagnia di due servi si accingeva a volare verso le terre di P.
Arrivarono in men che non si dica, rattennero le redini su una sommità dalla quale era possibile vedere il fervore degli uomini intenti alla costruzione e al galoppo discesero.
Il capocantiere li aveva notati e si era fermato in attesa.
Quando erano giunti a un passo aveva riconosciuto Torres. Anche Torres lo aveva riconosciuto, da anni alle dipendenze della ditta Besuzzi che apparteneva a un suo antico amico, l'ingegnere Giovanni Battista Besuzzi, col quale sempre aveva intrattenuto uno stretto rapporto.
- Me l'avrebbe potuto dire, Giovanni, che il lavoro l'aveva preso lui.
Il capocantiere allargò le braccia: quelle erano cose che riguardavano i padroni e lui non ci poteva mettere naso. Epperò, per quanto era di sua competenza, volle spiegare che in perfetta onestà aveva occupato quella terra credendola demaniale, che mai si sarebbe permesso sapendola del signor Peppino e in ogni caso avrebbe dato immediatamente ordine agli uomini di smontare il già fatto con tante scuse e mille ringraziamenti.
- E chi t'ha detto niente? - gli domandò Torres, volendo in quel modo spiegare che la terra era a disposizione dell'amico, dei suoi uomini e di tutte le attrezzature necessarie.
- Piuttosto, attenzione alla sorgente. Acqua qui ce n'è poca e questa è buona.
- Come comanda la signoria vostra - assentì l'uomo cavandosi il cappello mentre i cavalli s'avviavano per il ritorno.

Mosso da quel piccolo incidente Torres volle, nei giorni seguenti, trovare una soluzione che evitasse, in avvenire, il ripetersi dell'equivoco.
Carta e penna, scrisse alla Capitaneria di porto per ottenere la delimitazione della proprietà confinante con le pertinenze demaniali marittime, e all'istanza, tanto per non sbagliare, allegò i documenti comprovanti il suo diritto di proprietà sui terreni in questione.
Pochi mesi dopo la presentazione dell'istanza ricevette una nota della Capitaneria nella quale lo si informava che il Ministero della marina, commissariato per i servizi della marina mercantile, direzione generale della marina mercantile, con apposito dispaccio completo di numero di protocollo e timbro datario, a ulteriore garanzia, aveva autorizzato la richiesta delimitazione. Solo pazientasse il tempo necessario per mettere assieme i funzionari e gli ufficiali che, ciascuno in nome dell'amministrazione d'appartenenza, avrebbero proceduto all'operazione.
Dovette pazientare circa un anno, prima che quegli alti papaveri riuscissero a trovare un giorno di comune gradimento e finalmente una nuova nota lo avvertì che per tale data si sarebbe dovuto trovare in sito, se avesse voluto personalmente intervenire alle operazioni di delimitazione.
«Chissà perché, caro figlio, - scrisse alla vigilia del sopralluogo - chissà perché a me nessuno ha chiesto se quella data fissata poteva essere anche di mia comodità. Chissà perché, fra i tanti che verranno, solo io potrei non esserci, io che sono il padrone della terra e Dio solo potrebbe dire che cosa mi è costata.
Vedi bene com'è strano il mondo. Tu già lo sai, ma io vorrei che lo comprendessi meglio e lo ricordassi sempre.
Ho chiesto la delimitazione della terra, la certificazione dei confini nonostante la cosa abbia uno scarsissimo rilievo pratico. A chi mai può infatti interessare l'esatto punto in cui termina una terra coltivabile e privata e inizia uno sterile e pubblico arenile? Bisognerebbe proprio che l'umanità impazzisse completamente e che tutti assieme gli individui volessero andare a buttarsi in mare perché si rendesse attuale una simile demarcazione. Per l'intanto noi non abbiamo mai interdetto a nessuno il passo sulle nostre terre, fatte salve le cautele che si impongono per la salvaguardia dei coltivi, né abbiamo negato l'acqua agli uomini e alle bestie.
Di più: ho sempre detto a quanti lavorano per me di non impedire che il passante allunghi la mano per cogliere un frutto dall'albero.
Un proverbio delle nostre parti dice: povera l'aia che teme le formiche. Gli uomini che lavorano come si deve non hanno nulla da temere né dalle formiche, né dagli uccelli del cielo, né da margiàni che viene alla sera per cogliere l'uva della vigna, né da un uomo che prende mezzo tascapane di frutta. Evidentemente ha fame e la fame, di un uomo o di una bestia, non deve lasciarci indifferenti, almeno finché possiamo farlo.
Sai quante volte mi hanno chiesto di punire margiàni? Avrebbero voluto catturarne uno, farlo a pezzi ed esporlo sui pali della vigna. Ad ammonire gli altri che sarebbero poi venuti a prendere l'uva e, vista la fine del compagno, avrebbero tagliato la corda. Mi sono sempre parsi una barbarie e un'indecenza, quei quarti sanguinolenti coperti di mosche e di vespe.
Dio ci liberi dalla necessità.
Per il momento la terra produce tanto che noi ne mangiamo e gli uomini che la lavorano e i radi viandanti e gli uccelli, le api, le formiche e margiàni.
Tutti quanti abbiamo un posto nel mondo e una funzione. È giusto che abbiamo, quindi, una risorsa di vita.
Perché il limite, allora? Perché le terre che compongono la proprietà, tutte quante le ho comprate dopo la morte di tuo zio Peppino Todde. Solo quel possesso, la terra di P., l'ho avuta direttamente da lui, ma non in dono, bada bene, bensì in ricompensa del lavoro da me svolto nell'arco di quarant'anni.
Fosse stata un'altra terra avrei chiuso un occhio. Ma per quella no! Non sarebbe stato giusto. Un uomo ha diritto di sapere che cosa gli è venuto dal suo lavoro, altrimenti che senso può avere tutto questo nostro affaticarci e muoverci, e andare di qua e di là di giorno e di notte? Sarebbe solo un gioco, e i giochi non hanno la moralità che c'è nel lavoro degli uomini.
Per questo oggi sono inquieto e mi disturba il pensiero della prossima giornata quando gente straniera arriverà nel mio, per dire a me che lo so benissimo e su quelle zolle ho sudato d'estate e perfino d'inverno, per dirmi fin dove posso considerarmi padrone e dove invece devo chiedere permesso al Ministero per sedermi su uno scoglio a riposare le mie vecchie ossa.
Basta; non voglio annoiarti più di quanto non abbia già fatto, carissimo figlio che vorrei avere domani al mio fianco, mentr'invece dovrò andare da solo, a discutere con tutti quegli importanti signori».
Renato ricevette questa lettera del padre e ne avrebbe ricavato una qualche preoccupazione per l'abbattimento che il vecchio manifestava, se non fosse stata accompagnata da un'altra, scritta il giorno dopo, nella quale si dava esatto resoconto delle operazioni effettuate nel corso del sopralluogo.
«Caro figlio, avrei voluto averti con me, non per consolarmi, come ieri pensavo, bensì per gustare in tua compagnia la giornata che oggi ho vissuto.
Di primo mattino ho fatto preparare il calesse. Non avevo voglia di salire a cavallo perché sentivo, tutti quanti assieme, i miei anni che sono molti e sembravano sconsigliare anche un piccolo strapazzo. Così son partito pian piano, come un barrocciaio che trasporta ingentissimi pesi e non frusta il cavallo, tutt'al più lo sfiora con la correggia di cuoio che fischia nell'aria. Andavo perché dovevo, facendo forza a me stesso e da tutt'altra parte sarei voluto essere, non là dov'ero diretto.
Il cielo m'ha racconsolato, grigio e uggioso come mi piace, con una pioggia sottile che pare non bagni ma si materializza sui baffi e puoi aspirarla, fresca che ti rigenera. Sono arrivato per primo e ho atteso passeggiando su e giù con gli stivali che appena affondavano nella morbida erba.
Sai che per me tornare su un campo è come entrare in un luogo affollato da molte persone e tutte le conosci, ravvisi le fisionomie, noti i segni lasciati dal tempo, i tratti che ti sono cari, quella particolare bellezza che ami ritrovare in un volto?
Io li conosco, gli alberi, i macigni che affiorano dalla terra, le vallette dove l'erba cresce più vigorosa, i crinali battuti dal vento dove solo vegeta il lentisco. Li riconosco ogni volta che arrivo, mi sento di salutarli, di andare loro incontro come fossero amici, di chiedere del tempo che hanno passato, di dire del mio.
Ho trovato le orme di margiàni che si muove guardingo: questa non è la stagione, ma verrà il momento quando la madre scende a giocare con i piccoli e si rincorrono lasciando la traccia dei giochi nella terra secca.
Ho veduto il falco che posa sul ramo del carrubo e non mi teme; anzi sembrava volesse studiarmi con una certa simpatia.
Questo significa essere padrone di una terra e l'ultimo dei miei servi lo è assai più di un signore che viva lontano e non sa niente del suo, la proprietà un puro nome tracciato sulla carta.
Poi sono arrivati e si sono presentati, dovevi vederli, con grande sbattere di tacchi e profondi inchini di fronte a me che faticosamente mi alzavo dalla pietra sulla quale stavo seduto ma ero, come sono, l'unico titolare di un qualche diritto.
Il loro veniva da un ministro lontano, a nome e per conto, attraverso delega, insomma, come hanno subito dovuto precisare: il cavalier Pier Giorgio Lerni, tenente colonnello di porto, in rappresentanza dell'amministrazione marittima; il cavalier Goffredo Lostia di non ricordo più bene quale nobiliare casato, ingegnere del Genio civile, in rappresentanza dell'amministrazione dei lavori pubblici; il cavaliere Eraldo Cardelli, ingegnere dell'ufficio tecnico di finanza, in rappresentanza dell'amministrazione demaniale. E io, di cui, a sentir loro, sembra che parli l'articolo 775 del Regolamento (proprio così, la parola la pronunziano con l'iniziale maiuscola e di seguito, d'un soffio, aggiungono: 20 novembre 1879) per l'esecuzione del codice della marina mercantile, io, in rappresentanza di me stesso o al massimo del mio figlio cui quel bene spetterà per diritto ereditario.
Il tenente colonnello portava un paio di scarpini che mi parvero di copale, gli altri due, impiegati, nonostante le ingegneresche intitolazioni, e nella struttura fisica adattatisi alle sedentarie professioni, provavano notevole fatica a muoversi tra le sabbie, gli spini e le pietre di quella riva. Tutti cavalieri per titolo non riuscivano a fare due passi da pedone senza incespicare indecorosamente.
Mosso a compassione mi trovai ristretto a chiedere a quei signori, coi quali pure dovevo sostenere un contraddittorio, se per caso non volessero seguirmi su un declivio erboso dal quale tutta quanta si domina la terra con le sue pertinenze e luoghi d'acqua e dal quale altresì è possibile osservare la spiaggia, le scogliere, gli sfociamenti della piccola fonte e quale altro mai panorama vada ricercando, per dovere o diletto, l'occhio dell'uomo.
- Ci guidi - dissero a una voce.
Di lassù, come avessimo percorso la spiaggia e la terra, mostrai la natura del suolo, le siepi formate, i muri e le piante: elementi tutti che servono a dar prova di come, da tempo remoto, quei luoghi fossero stati sottoposti a coltura e non abbandonati allo schiaffo dell'onda.
S'eran portati con loro, quegli illustri signori, un omettino con mantella e occhiali a pinza sul naso. Una sorta di tirapiedi che ovunque li seguiva avendo uno scrittoio appeso al collo con delle cinghie e continuamente ogni cosa notava. L'omino non perse una parola di quelle che dicevo, ma tutte le scrisse, come più tardi scopersi, con assoluta precisione.
Intanto, secondo quanto da me disposto, erano arrivati i carri che trasportavano i materiali necessari a segnare i limiti sul terreno, più altri materiali da bocca che non guastano mai, in una fresca mattina sulla riva del mare.
- Allora signor Torres, che cosa proponete? - chiese il cavaliere che rappresentava l'amministrazione dei lavori pubblici.
Dissi che dovevamo prendere un punto di riferimento fisso, ad esempio il ciglio della vecchia strada tra C. e la capitale, in corrispondenza del tombino che si trova nella nuova da poco costruita. Lì avremmo potuto sistemare un picchetto, quale caposaldo e quinci partire, seguendo il margine di una soprelevazione del terreno e osservando sempre la diversa natura del suolo, per stabilire una linea spezzata i cui punti di volta fossero rappresentati sul terreno da altrettanti picchetti in granito. Così decidemmo di fare e i miei uomini sul terreno, il tirapiedi sulla carta, tutti registrarono nel modo compiuto il segnale di delimitazione, restando intesi che il tratto di terreno compreso tra il mare e la linea spezzata veniva riconosciuto di pertinenza del pubblico demanio, mentre veniva lasciato alla privata proprietà del signor Torres Giuseppe fu Giuseppe l'altro tratto a monte della spezzata stessa.
Quando ebbimo terminato lo scrivano lesse quanto aveva scritto. Erano esattamente le parole che avevo pronunziato, fuorché una conclusiva proposizione che a un dipresso diceva: - La commissione e il signor Torres Giuseppe approvano a unanimità le operazioni tutte eseguite, e a conferma sottoscrivono, previa lettura, il presente verbale, insieme colla planimetria che lo correda, nella intelligenza che il verbale stesso non è da ritenersi esecutorio nei rapporti dell'amministrazione marittima se non dopo intervenuta l'approvazione da parte del ministero competente.
Il tenente colonnello mi chiese: - Approvate, signore?
Gli risposi che sarebbe stato ben strano se non avessi sottoscritto quanto io stesso avevo stabilito e dettato allo scrivano. Solo mi pareva assai poco intelligente il rimandare l'approvazione a un ministro che non sapeva proprio nulla dei luoghi e delle nostre linee spezzate: offensivo, per giunta, nei confronti delle signorie loro che si erano scomodate a giungere fin laggiù, per stare appollaiate su un cocuzzolo di terra senza poter decidere niente con uno che, invece, aveva piena sovranità dei suoi atti e poteva confermare che per l'avvenire, come già per il passato, mai avrebbe rubato una particola di terra a chicchessia, né allo Stato né, com'era chiaro, al privato.
Comunque, se loro erano contenti così, potevamo conchiudere la faccenda e pensare di soccorrere lo stomaco con un povero spuntino agreste.
Mangiarono pane e formaggio, bevettero vino schietto e se ne andarono con mille ringraziamenti.
Sarebbero potuti anche non venire, se mi avessero chiesto di inviare un appunto con registrata la disposizione dei luoghi e le altre cose che avevo detto a voce.
Ma come vedi, caro figlio, questo è diventato un mondo di carta e ciò che conta non è conoscere le cose ed essere onesti, ma saper confezionare le formule che piacciono allo scrivano.
Un tenente colonnello, due ingegneri, il tirapiedi e l'altro personale che li aveva accompagnati. Tutto per una cerimonia che tra persone dabbene si risolve con una stretta di mano.
Ci sarebbe da ridere, se i loro stipendi non li formassimo noi con il nostro lavoro».


CAPITOLO VENTUNESIMO


Nel 1926 Renato fu trasferito a Roma e Torres volle allora portarsi nel continente per incontrare il figlio.
Vecchio qual era e non più aduso alle travagliate navigazioni invernali, varcò il mare di febbraio, salì sul treno, discese alla stazione, chiamò una vettura e senza avere voglia di aprire la bocca ordinò al cocchiere di condurlo alla caserma Ferdinando di Savoia, nella via del Castro Pretorio.
Non amava Roma, anzi la città gli appariva capitale dei vizi e di ogni depravazione. Né è difficile comprendere i percorsi del suo pensiero, il fastidio che il rustico isolano doveva provare in quell'ambiente nel quale sembra condensarsi una millenaria storia di estenuante dissoluzione, di sopraffazioni portate verso infinite genti il cui lavoro era in ogni tempo confluito a formare il benessere di coloro che quella città abitavano. Beffardi e irridenti. Naturalmente ostili.
Così che la voce con la quale aveva indicato la meta all'incongeniale cocchiere dovette essere asciutta e forte, quasi un preventivo medicamento per fronteggiare la corrotta parlata di quello.

La caserma aveva facciata imponente, bugnata dabbasso, simmetricamente segnata dalle alte finestre della parte superiore e dal balcone sormontante il portone d'ingresso con l'asta che reggeva una pendula bandiera.
La carrozza s'arrestò davanti alla garitta esagonale che a Torres apparve simile ai chioschetti per la mescita delle bibite quali si vedevano nella spiaggia vicino alla sua città. Allungò una moneta al vetturale e discese borbottando un saluto.
Giovani in divisa entravano e uscivano dalla grande carraia e anche un pianale trainato da due baldanzosi cavalli. Registrò con fastidio l'abbondanza di gioventù e di forza che gli uomini e le bestie esprimevano e s'appoggiò ancor più sul bastone.
Renato lo raggiunse in un salone che fungeva da parlatorio e s'abbracciarono nella luce che fluiva attraverso i vetri perfettamente puliti.
Renato l'abbracciò, che lo sovrastava d'un buon palmo e a Torres piaceva sentirsi piccolo tra le braccia del figlio che lo cingeva quasi potesse proteggerlo.
Nessun impedimento fu frapposto al giovane allievo ufficiale che riceveva la visita del padre, così che poterono uscire per una serata di libertà fuori dalle mura della caserma. Pranzarono in una trattoria poco distante e Torres non perse uno solo dei carezzevoli sguardi con i quali le donne che incontrarono lungo il cammino accompagnavano il figlio. Ne ricavava un beneficio profondo; più di quanto non gli fosse accaduto, nel suo tempo, per quelli a lui diretti.
Anche al tavolo della trattoria gli sembrò che la cameriera guardasse Renato con attentissimo occhio e le sorrise per ringraziarla.
In realtà era lui che lo ammirava, quel figlio alto e con la voce profonda. Lo ascoltava parlare mentre raccontava la sua vita di militare e gli guardava le mani. Belle e grandi, esse stesse eloquenti. Pensava a quel che avrebbero potuto fare per costruire tutto ciò che un vecchio non poteva più costruire. Ce n'erano sempre terre nuove, zolle da rivoltare, pietre da raccogliere, alberi da sorreggere con un palo.
Ma il suo tempo era andato, e ora poteva soltanto mantenere in buon ordine ciò che prima aveva creato, non certo costruire del nuovo. Il palo lui stesso lo avrebbe voluto, per reggersi diritto negli ultimi anni e invece il suo palo stava lì e parlava di marce e di obici, di patrie e bandiere.
Aveva poco più di vent'anni, è vero. Ma a vent'anni è già possibile capire del giusto e dell'ingiusto. Era possibile vedere quanto ridicola fosse quella parata che la nazione eseguiva.
Anche in questo caso la terra gli aveva dato salvezza, a lui e a tutti gli altri che la praticavano. Ci avevano poco da fare quei mezzi uomini in camicia nera, miopi e ingobbiti prima del tempo; scarti che non gli avresti comandato una giornata di lavoro perché non l'avrebbero retta. Ci avevano poco da fare, capaci soltanto di mostrare le divise altezzose come usavano in città.
In campagna è diverso. Sole, vento, pioggia e freddo, chi ha forza resiste e gli altri possono anche essere i primi alle sfilate, ma la differenza la vedono tutti.
Dio buono, come non capire quanto tutto ciò fosse privo di consistenza e, a pensarci bene, ridicolo?
Come poteva Renato non accorgersi della vacuità delle parate e dei discorsi tuonanti, come non vedere che in fondo lo stesso esercito da lui tanto amato usciva diminuito dal confronto con quella ciurmaglia che si atteggiava in militaresche sembianze; tronfi e minacciosi al momento delle adunate, inconsistenti e pavidi se presi, come gli uomini si prendono, uno per uno, guardati negli occhi, provati in una vera prova?
Pala e piccone per formare il carattere, gli avrebbe dato; per fargli capire cos'è la vita, ma davvero, nei luoghi aspri e con il cielo contrario, come usualmente è, per il contadino, che Gesù Cristo non piove mai quando è il momento ma quanto al vento, altro che se ne tira che alle volte si spaventa anche il cuore più coraggioso: immaginiamoci quella gente senza valore.
Ma insomma, Renato aveva scelto la sua strada e c'era poco da fare. Inutile star lì a mostrargli una faccia contraria, a dirgli dell'esperienza che vale soltanto per chi l'ha fatta e ciascuno ha diritto di compiere i propri errori in piena libertà. D'altra parte vent'anni non sono nulla, ma sono già tanti perché un uomo cominci a decidere quello che deve fare, nella vita.
E così se lo mangiava con gli occhi, quel figlio adorato, ma preferiva non ascoltarlo e si mordeva la lingua, prima di parlare, prima di dire che non approvava una sola delle sue scelte.

Dopo pranzo passeggiarono per lunghi viali alberati; il vecchio s'appoggiava al braccio del figlio e gli sembrava d'averli lui i vent'anni e di poter camminare senza fermarsi per un giorno intero.
Arrivarono in uno spiazzo dove erano state costruite le baracche per il tiro a segno e per gli altri giochi. Ma a Torres non importava niente dei cimenti di forza che gli imbonitori proponevano ai passanti, piuttosto voleva vedere Renato sparare. Così raggiunsero un chioschetto che aveva sul banco le armi tirate a lucido e i bersagli ordinati sul fondo. Dietro il banco la donna sembrava fuori posto, come non volesse starci, in quel luogo, stanca dei complimenti volgari che gli uomini le rivolgevano ammiccando prima di ogni tiro e a lei pensavano, forse, più che al bersaglio, tanto che sbagliavano i colpi.
Si avvicinarono e attesero il turno, la donna chiese se anche il vecchio voleva tirare e Torres rispose che nelle belle gare e nell'ardimento egli doveva cedere ai giovani.
Renato calibrava l'arma e osservava i bersagli. Premette il grilletto come se lo accarezzasse, si udì un sibilo e il primo gessetto volò via. Come gli altri nove, del resto, verso i quali volle indirizzare la mira. Dieci colpi, dieci centri. La donna lo guardava ammirata, dimentica della noia di quel suo ordinario lavoro. Torres ancora una volta gradì lo sguardo rivolto al figlio ma soprattutto gradiva che egli non ne facesse conto e neppure se ne accorgesse, di quello sguardo complimentoso.

Il portone della caserma si riprese Renato sul far della sera.
Il vecchio lo vide scomparire tra il battere dei tacchi della sentinella e un pesante rimbombare di passi sul lastricato della carraia.
Scosse la testa come fosse un problema di fronte al quale si potesse soltanto restare perplessi ma non riuscì, in questo modo, a frenare la malinconia.
S'era levato il vento che portava le foglie degli alberi e il lungo viale sembrava una foresta da attraversare proprio sul far della sera quando ogni uomo desidera un momento di riposo.
Si chinò sul bastone e cominciò il cammino. Attraversò due grandi piazze, schivò le carrozze che passavano veloci e si infilò in una strada che scendeva fino a uno spiazzo antico di colonne biancheggianti nel primo buio.
L'andare gli era insopportabile fra gli equipaggi eleganti e i passanti deformi, osceni mendicanti che si trascinavano verso un improbabile ricovero, femmine scarmigliate che spingevano carretti carichi di masserizie.
Fuggì in una stradina laterale che prometteva maggiore quiete. La percorse per intero, svoltò in un'altra via se possibile ancora più stretta, carica di odori grevi che risalivano lungo le facciate delle case e andavano a sporcare il cielo della notte.
Sulla facciata d'un palazzo una lapide incisa dalla punta di uno scalpello. Si fermò e lesse con qualche fatica: - Si proibisce a tutte le persone che non ardischino di gettare immondezza alcuna in questo luogo sotto le pene comminate dal Ill.mo e Rev.mo Monsignor presidente delle strade nell'editto pubblicato il dì 1 agosto 1742 per l'atti del notaro Orsini.
Ecco, cos'era; all'improvviso gli fu chiaro in quel fondo di vicolo buio come fosse un pieno e luminosissimo giorno: sentiva di stare in una grande cloaca dove nei secoli si erano accumulate le deiezioni degli uomini. Tutto significava quell'usura, quella contaminazione, quella montante marea di sporcizia che fermentava diffondendo odori insopportabili per un uomo avvezzo alle arie limpide che il vento continuamente rinnova.
Schivò il centro della via dove scorreva un lutulento rigagnolo incamminato verso chissà quale foce e proseguì quasi trattenendo il respiro.
Mai gli era capitato di trovarsi in un luogo che conservasse la traccia di migliaia di uomini, di tutti quelli che erano passati e avevano contribuito a cancellare la forma originaria della terra sulla quale avevano costruito le case. Provò a immaginare l'antichissimo tempo in cui quella strada era stata campagna, e quale, forse alberata, forse un pascolo ornato da pochi cespugli.
In altre città, in altri centri abitati era solito fare questo esercizio e sempre la fantasia costruiva un'immagine verosimile. In quel luogo non gli riuscì: come se non fosse possibile ipotizzare alternative, troppo segnata la presenza umana perché si conservasse un ricordo dell'originaria realtà. Affrettò il passo attraverso altri odori e altri oscuri rigagnoli finché raggiunse una piccola piazza circondata da alti edifici. Sulla destra una chiesa, al centro una colonna sotto la quale sonnecchiava un elefantino di pietra. Gli sembrò di aver trovato uno come lui trasportato in una dimora che non era sua, nella quale non sarebbe mai voluto stare.
Nell'albergo che affacciava sulla piazza prese stanza. Si ritirò respingendo l'idea della cena, smorzò i lumi, aprì gli scuri della vetrata che dava sulla piazza e sedette in poltrona per osservare l'elefantino che sosteneva la colonna.
L'albergo era immerso nel silenzio. Solo, di tratto in tratto, giungevano voci da una stanza vicina, i suoni di una lingua straniera e incomprensibile come soffi di vento o cigolii d'imposta che non disturbavano.
Più tardi, molto più tardi, dal piano di sopra arrivò un suono di flauto. Con dolcezza, dapprima, e quasi timidamente per non disturbare gli ospiti delle altre stanze. Poi il suonatore prese confidenza e la musica divenne sempre più forte in un crescendo che trascinava l'animo dell'ascoltatore verso un mondo di sentimenti malinconici.
Torres pensò che la stessa mano dell'uomo insieme devasta e corrompe ogni cosa, insieme disegna un mondo di inarrivabile armonia, lo affida alle note della musica e alle voci degli strumenti.
Chiuse gli occhi e continuò ad ascoltare quel suono come si ascolta il fluire della pioggia o il soffiare del vento nella notte, quando si è raggiunto un buon riparo e di niente si ha paura, anzi si gode per la forza della natura che fa prova di sé.

Seduto in poltrona si addormentò. E sognò, cosa che mai gli avveniva; almeno non ricordava, il che poi è lo stesso.
D'altra parte diceva che nella vita c'è poco da sognare, la realtà con tutte le sue fatiche e i suoi crucci già così varia che il sogno non ci ha da aggiungere niente.
Sognò suo padre, quella notte.
Un uomo alto e austero con i baffi arricciati come lo rappresentava un'antica foto. Dell'immagine vera del padre da giovane poco o niente poteva ricordare, la memoria affidata soprattutto ai racconti che in anni lontani facevano la madre e i fratelli più grandi. Dicevano di quel professore che trascorreva le giornate chino sui libri e parlava nelle aule gremite di gente che ascoltava compunta e alla fine applaudiva. Un po' poco per lui che l'aveva conosciuto quando ormai era vecchio. Così che mille volte aveva provato a costruirsela l'immagine di un padre giovane e vigoroso, ma era riuscito unicamente a riprodurre l'immobilità di un dagherrotipo.
Solo la voce gli ritornava viva, così come era, così come gli altri dicevano che fosse. La voce del padre ripetuta nella sua, gli stessi toni profondi, le stesse brusche aperture di frase che sembravano irate e non erano.
Sognò un pozzo simile a quello che aveva visto nel deserto, con un po' d'acqua che brillava nel fondo. Aveva viaggiato l'intero giorno, a piedi, nella sabbia delle dune che avviluppava gli stivali. Aveva viaggiato con calma, come chi sa di dover affrontare un lungo cammino e stabilisce le tappe, ogni giorno la sua fino alla meta.
Aveva raggiunto il pozzo e s'era fermato, poche palme, un'acacia che su se stessa s'aggrovigliava in molteplici contorcimenti e sembrava una scultura, nel controluce del tramonto.
Aveva lasciato il mantello su un ramo e s'era messo seduto nel ciglio della duna ad ascoltare il soffio del vento. La luna era sorta e aveva raggiunto il centro del cielo illuminando ogni cosa. Solo allora aveva raccolto il secchio rugginoso e s'era accostato al pozzo per attingere. L'acqua era fredda e chiara. Aveva bevuto a fior di labbra prima di affondare le mani nel secchio per levarle grondanti e strofinare vigorosamente la faccia soffiando e sbuffando alla maniera dei cavalli bizzosi.
Stava in ginocchio vicino alla spalletta del pozzo, teneva le braccia all'interno, e anche la testa, per vedere quel cerchio d'argento che la luna faceva risplendere. La luna nel pozzo e l'acqua purissima e tersa che veniva chissà da dove per dissetarlo. Piegò il capo volendo evitare il riflesso del raggio e fu in quel momento che scorse l'immagine baluginante giù nel profondo.
La sembianza del padre, così come appariva nella posa fissata dalla fotografia, ma sorridente, che lo guardava per invitarlo. Il sentimento lo spingeva a calarsi nelle viscere della terra per rispondere all'invito e trovare conforto nella stretta di quell'abbraccio, ma la ragione vigile anche nel sonno gli diceva che quello era un sogno, una vana apparenza, un'ombra priva di consistenza.
Sognava e sapeva di sognare, gioiva di un'immagine falsa e si doleva del suo essere tanto savio da riuscire a comprendere l'inganno dei sensi.
Fu in questo travaglio di sensazioni che si risvegliò, scoprendosi indolenzito sulla poltrona.
- Che accidente vuoi farci, Peppino - disse parlando a se stesso, come normalmente faceva quando c'era da trovare coraggio.
Era notte fonda. Decise che sarebbe stato meglio dormire qualche ora, prima di giorno.
Si levò dalla poltrona e mosse verso il letto.
Pensò che non aveva mai avuto un padre né un figlio e si sentì due volte orfano e solo.
Sollevò le spalle, come faceva di fronte ai grandiosi eventi della natura che l'uomo non può governare.


CAPITOLO VENTIDUESIMO


I bambini che a C. se la passavano come veniva, cercando nidi d'uccelli nei sentieri della campagna o calicerte ansiose di sole sui massi lungo il greto del rio, i bambini sapevano che a ogni svolta del sentiero potevano incontrare il padrone accigliato sul suo cavallo. Ma non lo temevano.
Torres arrestava il passo, li osservava giocare e tutt'al più borbottava a mezza voce che quelli quasi non lo sentivano:
- Ragazzini, smettetela.
Epperò era chiaro che lo diceva così per dire, senza l'ira stizzosa che è propria dei vecchi i quali, le più volte, hanno buone ragioni per essere stizzosi.
Torres, in questo, non assomigliava agli altri vecchi che trascorrevano il loro tempo seduti in piazza di chiesa a fumare il sigaro e sputare all'intorno. Più raramente, ma dolorosamente, a guardare le caviglie che si intravedevano sotto la veste lunga delle donne.
Né le caviglie né altre anatomiche particolarità avevano mai rappresentato un problema, per lui, immaginarsi se doveva cominciare a curarsene ora che aveva passato i settanta. Lo interessava la gente, piuttosto, i volti che aveva avuto poco tempo di osservare negli anni dell'intenso lavoro, gli occhi.
Gli occhi raramente invecchiano, aveva scoperto, e solo per un qualche disordine mentale che li offusca. Gli anni no, non hanno la capacità di mutarli, e guardando nelle pupille un uomo o una donna sempre c'è la possibilità di ritrovare il bambino o la bambina che erano stati. Anche il contrario, naturalmente.
Perciò si fermava a osservarli, e alle volte li interrogava: - Di chi sei figlio? -, ma con discrezione, per non disturbarli, per non costringerli a modificare, nella tensione del colloquio, i tratti del volto che scrutava volendo capire come sarebbero stati da adulti. Perché negli occhi dei bambini c'è già l'ombra di ciò che diventeranno da grandi.
In qualche modo, anche, si può prevedere il futuro, per questa via. Ma era esercizio che a Torres non interessava. Se ne ritraeva, anzi, quando gli capitava di cogliere in quei volti bambini i segni inquietanti di un domani che certamente non sarebbe stato uguale all'ieri. Chissà se migliore.
Ciò che si vedeva non lasciava sperare.
Quell'anno era iniziata la guerra, in Spagna. Una brutta faccenda che lo incupiva, anche se suonava conferma alle sue più radicate teorie. È che avrebbe voluto sbagliare, e di grosso, e non dover vedere quel formidabile macello che si faceva dei contadini spagnoli.
Di questo si trattava, stringi stringi, che quelli avevano scelto in un modo e gli erano saltati addosso, non solo i vagabondi della stessa terra ma anche altri che venivano dall'Italia e dalla Germania.
Non che lui fosse diventato comunista, Dio liberi, bell'altra razza, quella, di pazzi fanatici, ma i contadini hanno sempre ragione. Più che ragione hanno il diritto di sbagliare perché sulle loro spalle grava il peso del mondo, con tutti i peccati che ha, e se qualcuno mangia, questo lo deve al contadino che lavora per tutti, per chi fa l'impiegato dello Stato e non lo tocca la grandine o il prezzo dei grani, per chi fa il medico o l'avvocato, per chi la sua vita s'accontenta di trascorrerla in una stazione climatica.
E invece guarda un po' cosa accade che un cafone capace solo di avvitare bulloni te lo fanno senatore del Regno e se ne va a petto in fuori con quell'altro padreterno buono per fare il pagliaccio esposto al balcone. Come se poi ci volesse una grande abilità, per i bulloni, o bisognasse conoscere le stagioni dell'anno o il crescere e il calare della luna e le altre mille particolarità che un contadino deve sapere per fare come si deve il lavoro.
Li fucilano, invece, i contadini spagnoli e sta a vedere che mangeremo bulloni, quando non ne sarà rimasto neppure uno che sappia zappare la terra.
Questa volta era davvero sottosopra, il mondo, alla vigilia di un mutamento dopo il quale niente sarebbe più stato come prima e la storia degli uomini era in procinto di prendere una direzione diversa da quella che per secoli aveva seguito; più o meno bene, ma comunque sapendo dove andava.
Non li invidiava di certo, questi piccoli che lanciavano sassi come avevano fatto molti anni prima i padri e non sapevano che tutto era cambiato, che anche le poche certezze della vita stavano per essere perdute.

Era dicembre e faceva un freddo che tagliava le mani quando una mattina trovò un bambino che non aveva mai visto sul pascolo alto di Pranu Zinnìgas.
- Di chi sei figlio?
- Di Boìccu Cadòni.
- Cosa fai, qui?
- Il bovaro.
- Senza scarpe?
- Boh - rispose quello sollevando le spalle.
Torres gli guardava i piedi lividi: - Come ti chiami?
- Cristòlu.
- O Cristolèddu, perché non sei a scuola?
- Mi ha mandato via la maestra.
- Ti ha mandato via? - chiese Torres con un sorriso.
- Sissi, su meri.
- E perché ti ha mandato via?
Il ragazzino abbassò lo sguardo confuso.
- Svelto che ho fretta - incalzò Torres che non aveva nulla da fare ma voleva persuaderlo a parlare.
- Sono arrivato ultimo, a scuola - cominciò Cristòlu.
- Sei arrivato ultimo?
- Ero con babbo a guardare il bestiame in campagna - si giustificò quello.
- E allora?
- Sono entrato e mi sono seduto veloce veloce.
- Cosa ti hanno detto?
- La maestra mi ha detto...
- Cosa?
- Mi ha detto: Chiudi la porta, demonio; e mi ha dato un colpo di canna.
Torres non riusciva a trattenere un sorriso.
- Lei ha una canna che arriva dalla cattedra fino all'ultimo banco - continuò Cristòlu, - con la canna mi ha picchiato la testa.
- E tu, cosa hai fatto?
Questa volta il bambino rideva con i grandi occhi scuri che brillavano d'intelligenza: - Ho tolto una pianella e gliel'ho tirata.
- Uhm - fece il vecchio dall'alto del cavallo - hai fatto male - e in realtà pensava che Cristolèddu avesse avuto l'unica reazione possibile.
- E allora?
- Allora mi ha mandato via da scuola. Dice che sono una bestia cattiva e non ci ho niente da fare, con carta e penna.
- E tuo babbo?
- Ha detto che se la signoria vostra vuole, posso fare il servetto.
Torres non rispose né sì né no. Solo cavò dal panciotto una moneta d'argento e la fece volare nell'aria, così che il contratto fu tacitamente approvato.


CAPITOLO VENTITREESIMO


La cavalla saliva il sentiero del monte.
Non li aveva mai contati i ciottoli del sentiero, confortata dall'incitamento del cavaliere che accarezzava il costato con lo stivale e allentava la redine.
Quel giorno, invece, la mano del padrone aveva una strana pesantezza, quasi una rigidità che la bestia non aveva ancora conosciuto. Perciò allungava il muso verso terra e bruscamente lo riportava in alto soffiando o si volgeva a guardare il vecchio: gli chiedeva il motivo di quell'insolito peso sul morso, e cosa mai volesse, se desiderasse fermarsi o che altro.
Per tutta risposta Torres disse con tono affettuoso: - Cammina - e la cavalla provò ad allungare un trotto appena più vivace ma subito quella mano legnosa le spense la voglia d'andare. Così continuò a salire scrollando la testa, forse per significare la sua disapprovazione nei confronti degli uomini, se anche il più caro, quello di cui sempre s'era fidata, poteva comportarsi in modo inspiegabile.
Erano diretti verso luoghi ben noti e Torres li guardava, i monti e le rocce, gli alberi e i cespugli, le anse della costa e gli scogli del mare, li guardava come fosse la prima volta e si meravigliava del suo stupore, di quella scoperta ancora una volta ripetuta, dell'emozione che gli veniva dalla bellezza del mondo. Sorrise.
In quei momenti gli spiaceva di essere un povero vecchio. Avrebbe voluto trovare di nuovo le energie degli anni migliori, il vigore che lo aveva spinto a fare con un gusto che mai si esauriva e l'alba l'aveva sempre attesa con impazienza, rimpiangendo i momenti sottratti dal buio.
Così si ritrovava ogni mattina a cavallo quando le stelle splendevano ancora nel cielo e l'aspettava, l'alba ditirosata come non aveva mai smesso di chiamarla dai tempi del liceo. Non era un'immagine scolastica, quella che cercava: il primo rosa che stingeva lo scuro della notte, laggiù, verso oriente, sempre lo salutava con un sorriso e la cavalla rispondeva allo sprone anch'essa lieta del miracolo che si rinnovava.
Raggiunsero il pascolo alto delle capre, diretti all'olivastro cresciuto in mezzo ai macigni. Tra quelle fronde il vento soffiava ininterrotto, ora impetuoso, ora dolce e ricco di toni armoniosi. Sotto i rami dell'albero che nessun uomo aveva piantato amava fermarsi, il sigaro spento tra i denti, a osservare la piana sottostante, i grandi cespugli del lentisco, il lento scorrere delle capre in marcia verso la foce del rio. Nel mare intarsiato di isolotti granitici il passaggio greve di un vapore.
Torres volse lo sguardo verso la pianura che a oriente si sviluppava proprio sotto i piedi del monte. Lì, anni prima, aveva tracciato un doppio filare di palme: ora le osservava, immobili come colonne, e grandi, come mai avrebbe pensato che potessero diventare.
Gli venne in mente la Promenade des Anglais e ancora sorrise. Quanto tempo era passato. E quanto l'aveva amato quel luogo verso il quale era stato condotto dall'altrui volontà. Da sé non ci sarebbe andato, e avrebbe sbagliato. Quel viaggio aveva impresso un indirizzo nuovo alla sua esistenza, Sophie, i figli, la scoperta di emozioni e di modi di vita impensabili. Chi mai le avrebbe sognate le palme disposte in un viale? E invece eccole laggiù, immagine di vitalità e armonia, perfettamente ambientate in questa terra aspra. Tutto aspro e rozzo, qui: poi era giunta Sophie.
Strinse gli occhi come per difendersi da un raggio di sole.
Sophie. Tante volte che aveva provato non era riuscito a dirle i suoi sentimenti. Non era riuscito quando lei viveva a C., meno che meno dopo il trasferimento in città.
Anche l'ultima volta, in occasione del compleanno, le aveva inviato una cartolina che riproduceva due rose. Chissà se avrà capito, Sophie? Le aveva scritto soltanto: sinceri auguri e buona festa. Come fosse un'estranea, o giù di lì. E pensare che aveva un mondo di cose da dirle e probabilmente a Sophie avrebbe fatto piacere sentire che lui pensava ai suoi capelli bianchi e li ricordava biondi e ricordava la testa china su un libro nelle sere che passavano l'uno accanto all'altro, seduti di fronte al fuoco.
Sollevò un sopracciglio per fermare la malinconia che arrivava e sospirò.
Pensieri di vecchio, tormentato per giunta da una strana pesantezza, da un formicolio che sembrava bloccargli le braccia.
Volle reagire come avrebbe reagito negli anni migliori. Cavò di tasca uno zolfanello, lo sfregò contro la roccia e accese il sigaro. Non erano più gli anni migliori, pensò alla prima boccata di fumo che lo fece tossire.
Spense il sigaro e lo lanciò lontano.
Così ci si riduce da vecchi che cose di cui nessuno avrebbe mai fatto conto riescono a vincerti.
Diceva del fumo ma pensava ai sentimenti. Subito s'accorse che era un pensiero sciocco e soprattutto ingiusto.
Chiese scusa a Sophie per ciò che aveva pensato e a voce alta le disse quello che mai le aveva detto, che la sua partenza era stata un errore o forse era stato un errore il rimanere lui qui, solo come un cane, a far la guardia a una ricchezza della quale non gli importava nulla.
Su scusòrgiu en Toddi, sogghignò, ma anche di questo si pentì, perché non è giusto che un uomo vecchio e ormai incapace di comprendere il senso delle cose rinneghi la propria esistenza proprio quando il percorso è compiuto.
Guardò il cielo azzurro, reso ancora più splendente dalle nubi bianchissime che sembravano formare una scala.
Tutto era così bello che il cuore gli si allargò per la gioia.
I rimpianti è logico ci siano, dopo tanti anni trascorsi, dopo una vita intensa, che certo non lo aveva dormito, il suo tempo.
Si tratta di vedere da che parte pende la bilancia, fatti tutti i conti che devono essere fatti. Ci pensò sopra e per aiutare i pensieri accese un altro sigaro. Questa volta il fumo non lo fece tossire e se ne rallegrò.
I conti, quindi, del bene e del male, di quello avuto e di quello dato, di ciò che avremmo voluto ottenere e di ciò che effettivamente siamo riusciti a conquistare. Tirate le somme concluse che della sua vita aveva fatto ciò che voleva. Di più non sarebbe stato giusto pretendere. In quella conclusione gli parve di poter trovare il tesoro che per tutta la vita aveva cercato: il suo personale, non quello mitico di Giuseppe Todde.
Le nubi erano sempre più bianche e splendenti.
Pensò che era una bella giornata per morire, se uno avesse potuto smettere di respirare a suo piacimento. Ma questo gli sembrò un po' troppo arduo pretenderlo.
- E cosa vuoi fare, Peppino - si consolò ridendo - bisogna avere pazienza.
La cavalla lo sentì che parlava da solo e si stupì. Provò ad avviare il passo senza aver ricevuto nessun ordine e non sentendo dinieghi cominciò la discesa.
Un passo sempre uguale e prudente: solo un poco sobbalzò quando le mani del vecchio diedero una stretta alle redini, quasi uno strappo al quale non era abituata. Si voltò a guardarlo, lo vide immobile e continuò ad andare.
Discese al piano, sfiorò il sipario di canne cresciuto lungo il rio in cui guizzavano le anguille, attraversò la tanca illuminata dal fiorire dei papaveri nati tra il grano, percorse il viottolo fiancheggiato dal fico d'India, attenta che le gambe dell'uomo non patissero per le spine, si fermò scuotendo la testa sotto il porticato del dominario.
Le donne accorsero, vedendo il padrone lievemente chinato sulla spalla della bestia, le mani posate sopra il garrese.

Quella notte margiàni che scendeva a bere nel ruscello dietro la casa gagnolò un poco più piano.

(1988)


 
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