Tlin, tlin, tlin! Zum, zum!
Passavano zampognari e giocolieri con gli organetti di Barberia, con le bertucce buffe, con gli orsi che ballonzolavano goffi a suon di tamburello: passavano i cantastorie con i cartelloni figurati delle imprese del Paladino Orlando, di Guerino il Meschino, dei Cavalieri della tavola Rotonda, dei Reali di Francia.
I ragazzi del villaggio – un villaggio della vecchia Sardegna nel cuore della Barbagia: casette basse a colori vivaci, che si affacciavano curiose su la piazza, tetti rossi, verande di legno fiorite di basilico e di garofani, strette l’una all’altra come una gaia parata di fresche e ridanciane ragazze campagnole – si divertivano un mondo ad ascoltare quei suonatori che venivano d’Abruzzo, di Calabria, di Toscana, di Campania – con pifferi cornamusa grancassa – e avevano nella foggia del vestire – cappello a cupolino, giacche verdi o rossigne, gambe fasciate – nell’aspetto e nelle espressioni, un che d’insolito e di strano, di regioni lontane e diverse, che li colpiva e interessava: e facevano cerchio intorno chiassosamente.
Tlin, tlin, tlin! Zum, zum!
Ma assai più i ragazzi si divertivano quando – a primavera – giungevano i cantastorie sardi, quei curiosi tipi di rapsodi nomadi che vanno raminghi di villaggio in villaggio a cantare, con accompagnamento di fisarmonica, canzoni di attualità isolana, ora gaie e satiriche, ora nostalgiche e sentimentali.