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10/06/2000 Le molteplici lingue di Nuraiò

Le molteplici lingue di Nuraiò
Flavio Soriga, ventiquattrenne sardo di Uta, ha vinto l'edizione 2000 del Premio Calvino con una raccolta di racconti intitolati Diavoli di Nuraiò. Il fatto in sé è già soddisfacente, tanto più se consideriamo che anche nel 1992 l'importante riconoscimento era andato a un sardo, quel Marcello Fois che ha poi brillantemente confermato con la successiva produzione le promesse formulate all'esordio. Ma sarebbe, la nostra, una soddisfazione meramente campanilistica se non riuscissimo a comprendere, e a spiegare, il significato profondo che la determina.
La motivazione con la quale il premio è stato assegnato contiene almeno due passi che favoriscono l'avvio della riflessione. Il primo dice che l'autore "nonostante la giovane età rivela una grande capacità di raccontare e creare personaggi che pur nella singolarità e nel radicamento locale delle vicende narrate riescono a disegnare una condizione umana nella quale ciascuno si può ritrovare".
Il secondo è quello in cui i giurati fanno riferimento alla lingua dei Diavoli di Nuraiò: "nelle sue commistioni di registri tradizionali, cellule dialettali e veloci incursioni in una lingua parlata molto incisiva, Soriga esprime il talento di narrare una Sardegna e un'Italia colte in un arco storico che abbraccia l'intero Novecento".
C'è, dunque, un forte "radicamento locale" che non significa chiusura in se stessi e un impasto linguistico che si compone "di registri tradizionali", di "cellule dialettali", di "veloci incursioni" nel parlato.
Chi voglia verificare l'esatto significato di queste affermazioni ha, per il momento, la possibilità di leggere soltanto il racconto Come il mare di Pula pubblicato sulla rivista "La grotta della vipera" e qualche breve testo apparso sulla stampa, come d'uso, subito dopo l'assegnazione del premio.
In un breve arco di tempo, comunque, i racconti saranno pubblicati e i lettori potranno valutare in maniera diretta l'importanza di giudizi che sembrano sottrarsi alla genericità rituale di molte motivazioni per fotografare due aspetti, forse i più significativi, dei Diavoli di Nuraiò.
Leggendo quei racconti, e gli altri ai quali l'autore sta ora lavorando, si comprende che Soriga è giovane (nel senso positivo di quella giovinezza che ti fa vivere in sintonia col mondo, partecipare, da coetaneo, se così si può dire, ai fenomeni culturali dai quali è segnata la contemporaneità) e, nello stesso tempo, ha la maturità necessaria per avere consapevolezza delle tradizioni, culturali e letterarie, dalle quali deriva: ha consapevolezza della doppia complessità che lo segna, quella dei tempi e quella del luogo specifico in cui è nato e vive.
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E poiché può non essere facile vedere con chiarezza le linee di sviluppo lungo le quali si indirizzano la vita di un popolo e le sue manifestazioni culturali, forse sarà utile ricapitolare, sia pure per pochi cenni, il cammino della linfa che da una lontananza di secoli giunge fino al tempo presente (sempre produttiva, in potenza, ma solo nell'oggi trovando un humus che le consente di divenire attuale) e si fa sangue e nervi per la scrittura di una nuova generazione di autori.
È la storia di un popolo non numeroso (le informazioni sulla consistenza demografica, relative ai periodi più recenti ci danno cifre che oscillano fra le 200000 anime degli inizi del Cinquecento - 8/9 abitanti per kmq - e le 450000 di fine Settecento; soltanto nel 1838 è stato raggiunta la cifra di 500000 abitanti, per arrivare al milione dovranno passare ancora cento anni), disperso su un territorio tanto vasto quanto orograficamente disomogeneo, tale, per sua natura, da rendere difficili le comunicazioni. Le vicende succedutesi nell'arco del tempo hanno messo questo popolo nella condizione di avere una molteplicità di rapporti con genti insieme alle quali era possibile realizzare i pacifici rapporti legati al commercio e alla navigazione (entrambe attività che presuppongono il possesso di codici linguistici comuni) o le relazioni conflittuali che si esprimono nella pirateria e nella attività bellica. Anche in questo caso, come è chiaro, esiste la necessità di comunicare, di intendersi, vuoi sullo scambio dei prigionieri, vuoi sulle altre diverse circostanze che il guerreggiare comporta.
Guerre perdute, non di rado, anche in maniera totale: la qual cosa ha significato addirittura la perdita della lingua. È accaduto due volte in seguito alla sconfitta militare, un'altra per l'effetto di accordi diplomatici stipulati in paesi lontani e, forse, sconosciuti. Il latino si è sovrapposto all'antica lingua del luogo, il catalano e il castigliano sono poi divenute le lingue del potere, della pubblica amministrazione, dei tribunali, delle preghiere alla Divinità. Latino, catalano e castigliano, nell'impasto con quanto resisteva del sostrato, hanno contribuito a formare la lingua sarda che conosciamo, nella sua articolazione cantonale non ignara di altri e diversi influssi, il pisano e il genovese, ad esempio, nati da altri commerci, da altre guerre, dalle parole scambiate nell'oralità, da quelle lette sui libri.
Non deve esser stato semplice, dopo i secoli della dominazione spagnola, passare al Piemonte e, di conseguenza, alla lingua italiana; non deve esser stato semplice, sul piano non certo trascurabile dell'amministrazione della giustizia, passare dalla Carta de logu, stesa in una bella varietà di sardo centrale per tutti intellegibile, al Codice feliciano del 1827. Come non deve esser stato semplice, avere, per secoli e secoli, due lingue, una privata e una pubblica e quest'ultima doverla cambiare alcune volte, insieme al contesto di riferimento, la Corte, l'Università, il sistema culturale nel suo insieme e, più in particolare, il sistema letterario. Eppure proprio questo è stato fatto, e gli uomini di cultura sardi che guardavano verso la penisola italiana, le sue università (Pisa o Bologna, ad esempio), Dante, Petrarca o Tasso, hanno poi guardato (hanno dovuto guardare, anche per il divieto di frequentare le università italiane) a Barcellona, a Madrid, o a Salamanca, al siglo de oro, a Cervantes e ai cancioneros seicenteschi. Fino a raggiungere un livello alto, con l'Arquer, ad esempio, che aveva due lingue madri, il catalano e il sardo, e tre lingue per l'ufficialità e le diverse funzioni della scrittura: il latino, l'italiano e il castigliano. Lingua intimamente posseduta, quest'ultima, se la impiega "para hablar con Dios".
Dopo il 1720 tutto cambia, il gioco ricomincia e si complica: rapporto col Piemonte, regione di confine poco abituata all'uso dell'italiano ma, paradossalmente, proprio quella che nel volgere di qualche decennio darà spinta ai processi unitari. E la Sardegna sempre alle prese con la gestione del suo doppio (o triplo) binario, culturale e linguistico, mentre perdeva d'attualità, senza venire però dimenticato, il legame con la Spagna e si rafforzava quello con l'Italia. Anche in questo caso la letteratura ci aiuta a capire, e basterà citare tre esempi. Il primo, due decenni dopo l'avvio dell'avventura piemontese, è quello di Giovanni Delogu Ibba che, nel 1739, dà alle stampe l'Index libri vitae, uno zibaldone che contiene opere di vario genere scritte in diverse lingue, versi e una tragedia sulla deposizione del Cristo: basta leggerla per capire che la lingua sarda logudorese in cui è composta racchiude ed esprime le diverse anime culturali, letterarie e linguistiche del Delogu Ibba, quella ispanica, quella italiana e quella sarda in cui le prime due trovano specificazione e compimento.
Il secondo è quello di Vincenzo Sulis che, nel 1833, scrive la sua Autobiografia impiegando un impasto linguistico composto da un italiano fortemente mescidato in cui si incrociano parole e costrutti sardi, citazioni latine, vocaboli francesi, catalani, genovesi, con un risultato di grande forza narrativa.
Il terzo è quello di Enrico Costa che nella seconda metà dell'Ottocento racconta con parole italiane un mondo interiore sardo che chiedeva di essere rappresentato e offerto al pubblico più ampio possibile con una lingua veicolare adatta allo scopo. È il primo manifestarsi di un atteggiamento che ritroveremo nella Deledda e nella successiva generazione di scrittori sardisti, per molti aspetti contrari alle scelte deleddiane, non per quanto concerne l'impostazione del problema linguistico.
Tale atteggiamento continuerà a caratterizzare la nostra letteratura fino agli anni settanta del Novecento: in apparenza un singolare contrasto fra la sardità tematica e l'italianità linguistica appena infranta da parole sarde che, per lo più isolate graficamente dal corsivo rispetto al generale contesto della pagina, emergono improvvise come bolle d'aria che dal fondo del mare giungono alla superficie, a dire di una volontà di documentazione, della convinzione che un concetto non possa essere meglio rappresentato se non dal termine sardo, di un bisogno interiore, infine, inconfessato e forse inconfessabile anche a se stessi.
Sul finire degli anni settanta, e poi nei decenni successivi, appaiono numerose opere narrative scritte in sardo, sperimentazioni necessariamente limitate, mosse da un convincimento ideologico e solo in parte da esigenze espressive.
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Chi ha avuto la pazienza di seguire fin qui il ragionamento forse avrà anche quella necessaria per perdonare l'inevitabile schematicità del discorso: lo spazio di un periodico è, per definizione, tirannico, ma a colmare le lacune provvederanno sicuramente le personali conoscenze dei lettori.
Quel che importa capire è che quel millenario processo non è stato per niente facile, ma che il risultato di tale difficoltà, diciamo pure di tanto grande fatica, è stata un'attitudine, un'elasticità nell'impiego congiunto di diverse lingue, la propria materna che prima era il sardo e che per molti oggi è l'italiano (sardi ad eguale titolo, beninteso, di madre lingua italiana: incontreranno la lingua sarda nel corso della vita, e vorranno impararla da grandi, la sentiranno, comunque, come una parte, non la meno importante, della propria identità) e le altre che gli eventi hanno portato in Sardegna.
Poi è successo che il vento della storia (anche di quella letteraria) abbia cominciato a soffiare in una direzione fino ad allora impensabile. Nella seconda metà del Novecento molti popoli soggetti a dominio coloniale, hanno rivendicato, e ottenuto, la propria libertà. Prima, durante e dopo la lotta di liberazione è stato necessario riflettere sulla cultura del proprio paese e su quella del paese dominante, su quanto era stato cancellato e su quanto era rimasto, su quel che il dominato aveva assunto dalla cultura del dominatore, sul costo di quell'acquisizione.
Un dibattito estremamente ampio e ricco di posizioni, le più disparate, non di rado ferocemente in contrasto: tutte tese, comunque, a costruire, per i popoli che uscivano dall'esperienza coloniale, una situazione culturale e letteraria compatibile con la modernità.
In questo contesto i sardi avevano un'esperienza da raccontare, una personale riflessione da proporre, tanto sul generale piano politico, quanto in quello specifico della scrittura. È così che si spiegano la figura e l'opera di Sergio Atzeni, l'incontro tra le sue visioni politiche e letterarie sarde e quelle letterarie e politiche caraibiche di Patrick Chamoiseau. Il loro rapporto forse è stato determinato dal caso e dalle necessità editoriali, certamente aveva, almeno per Atzeni, un'intima necessità. Ma, si badi, non perché Atzeni avesse bisogno di comprendere l'aspetto politico della questione, quanto, piuttosto perché rafforzasse la sua fiamma creativa al fuoco dell'esempio rappresentato dall'opera di Chamoiseau, "mastro-cantore epico della vita e dei sogni del suo popolo". Atzeni già in Sardegna sapeva, per l'alta scuola che aveva frequentato, d'essere sardo, italiano ed europeo, così come sapeva che il sardo (sarebbe improprio dire: la sua lingua materna, era per lui piuttosto una lingua d'elezione) aveva la possibilità d'essere impiegato con l'intento di arricchire l'italiano.
Da Chamoiseau ha avuto una doppia iniezione di fiducia riguardante da un lato la scrittura epica e, dall'altro, il coraggio di spingere la sfida fra italiano e sardo verso un'estrema tensione. Questo dice il suo ultimo racconto, Bellas mariposas, formato da un impasto linguistico talmente ardito che potrebbe apparire folle. Ma Atzeni aveva la lucida razionalità necessaria per capire che cominciava un tempo in cui, a differenza di quanto accadeva in passato, la lingua e il pubblico di un'opera potevano non essere più quelli nazionali, che andava avviandosi una stagione di curiosità rivolte verso mondi emergenti e verso le modalità d'espressione che non avevano mai avuto diritto di cittadinanza nei territori della letteratura. Sapeva che i lettori erano disposti a compiere lo sforzo necessario per capire un testo, come teorizza nella nota in cui spiega gli intendimenti dai quali era stata animato mentre traduceva Texaco.
Dopo di lui è venuto Marcello Fois, forse, per quanto concerne la lingua, con doti creative meno marcate, certamente svantaggiato dalla varietà di sardo che deve impiegare: il nuorese.
Ricordando il suo traduttore scomparso Chamoiseau ha detto che si trovavano d'accordo "perché le lingue perdano il loro orgoglio ed entrino nell'umiltà dei linguaggi, dei linguaggi liberi, dei linguaggi folli, dei trasalimenti che li rendono disponibili a tutte le lingue del mondo".
La lingua calaritana ha, come non può non avere in una città portuale, quell'umiltà, quella capacità di adattamento e di sottomissione, di accoglienza del punto di vista (anche linguistico) dell'ospite. Le stesse caratteristiche non contraddistinguono il nuorese e rendono più difficile il suo incontro con le altre lingue del mondo. Nella capacità di piegare quella lingua altezzosa si misurerà la maestria di Fois.
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Ad Atzeni e Fois guarda, come è logico sia, Flavio Soriga.
È giovane, ma ha l'umiltà e l'intelligenza necessarie per comprendere che non è, come molti esordienti ritengono di essere, il primo scrittore del mondo. Si guarda attorno e cerca punti di riferimento, vicini e lontani. Di suo ha già la capacità di creare un taglio narrativo asciutto ed essenziale, di imprimere al racconto il ritmo che trascina il lettore verso una provincia narrativa che non è quella sonnolenta attorno a Cagliari: la ricorda nelle atmosfere e nel suono delle parole, ma coincide con una geografia letteraria più ampia e, se così si può dire, senza confini.
Se ne sono accorti i giurati del premio Calvino e gli hanno conferito un riconoscimento che è suo personale ma che un poco appartiene a tutti quelli che gli stanno dietro le spalle, scrittori di due, tre, quattro lingue o di nessuna lingua: spesso insultati e derisi perché non conoscevano bene lo spagnolo o l'italiano e vi mescolavano parole e costrutti sardi.
Stavano anticipando la modernità, sperimentatori senza saperlo, postcoloniali prima che il termine venisse inventato, funamboli innamorati delle possibilità combinatorie insite nelle loro competenze linguistiche.
Possiamo immaginarli sorridenti, nell'Empireo degli scrittori, mentre guardano con affetto il ragazzo di Uta che ha inventato le parole di cui avevano bisogno i diavoli di Nuraiò.

 

 
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