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Il documento minore di Sardus Fontana
Giuseppina Fois, nella sua efficace Introduzione, ha definito in maniera appropriata Battesimo di fuoco , l’opera che Sardus Fontana pubblicò nel 1934 e che ora la collana Scrittori sardi ripropone in un’edizione curata da Eleonora Frongia: “Il volume si articola in venticinque brevi capitoli, tra le cinque e le dieci pagine ciascuno, costruiti come altrettanti bozzetti intorno ad episodi, personaggi o luoghi. Uno stile letterariamente brioso, quasi volutamente semplice, una prosa dall’andamento piano e lineare. Una scrittura felice, a tratti anche arguta, dà forma, forse senza che l’autore neppure se lo proponga consapevolmente, ad una visone della guerra quasi minimale, in cui gli aspetti più drammatici e persino tragici del conflitto, pur non essendo in alcun modo censurati, si stemperano quasi naturalmente nelle sequenze della vita quotidiana dei fanti al fronte”. Prosegue quindi, la Fois, accostando il racconto di guerra scritto da Fontana a un altro “documento minore”, le cartoline che Giovanni Antioco Mura inviava quotidianamente ai familiari per raccontare la vita al fronte.

E questo è, sicuramente, il primo elemento di interesse – e di riflessione – proposto dall’opera di Fontana. La quale è, sicuramente, un documento minore (si pensi ai documenti maggiori della memorialistica bellica, cominciando, tanto per non andar lontano, da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu), ma può anche divenire, mutata la prospettiva dalla quale osserviamo, un testo di maggior valore e, per certi aspetti di stringente attualità: ad esempio se volessimo vedere da vicino la realtà della guerra e gli effetti che produce sull’animo umano. Perché Fontana ha, nella semplicità della sua prosa, la capacità di combinare una strategia narrativa nella quale il racconto si dispone a seguire i ritmi della vita: il dramma e la commedia, le gesta eroiche e gli atti della quotidianità.
Non era facile raccontare in questo modo la Grande Guerra e le imprese della Brigata Sassari; tanto più in un libro pubblicato nel 1934, e che quindi doveva fare i conti con la retorica propria del clima politico e culturale allora vigente. Certo, troviamo “S. M. il Re, primo soldato d’Italia, incurante del pericolo” che rincuora “con l’esempio i suoi soldati”, ma troviamo moltissimi altri passi nei quali si offre non un’interpretazione ma un racconto di fatti, ciascuno di tali passi racchiude in sé una forte e tragica carica di autenticità.
Può anche accadere che gli episodi narrati tradiscano gli intendimenti di chi scrive e propongano al lettore spunti di riflessione riguardanti anche gli aspetti sui quali si è soliti offrire interpretazioni univoche. Si pensi al topos costituito dal valore dei sardi in guerra e dalla loro maestria nell’impiego di un’arma assai poco convenzionale quale è sa leppa. Giuseppina Fois molto opportunamente indica gli elementi contraddittori nei clichés dei quali si nutre un’opinione generale tendente a coniugare l’idea di virtù guerriera con quella della “primitività d’un intero popolo e con la sua estraneità alla civiltà contemporanea”.
La qual cosa ci induce a pensare, non solo e non tanto allo sfruttamento per fini istituzionali di quella macchina da guerra che i sardi hanno costituito al servizio della Brigata, quanto e piuttosto al gioco di specchi costituito dall’immagine che i sardi hanno agli occhi del mondo e che essi accettano, non senza soddisfazione, anche quando non sia effettivamente positiva.
Chi legga i passi di Battesimo di fuoco riguardanti l’impiego del coltello denominato sa guspinesa (li riportiamo di seguito, nella rubrica Terra mala), chi legga senza lasciarsi vincere dalla suggestione del racconto, ma riflettendo sulla sostanza della cosa, non potrà non rimanere perplesso. In quel valore bellico c’è un evidentissimo disvalore sociale che i sardi (primitivi e un po’ barbari, ma non stupidi; e qualche volta ironici) sintetizzano nell’aneddoto in cui si dice di un coscritto che, arrivato al fronte, si fregava le mani con soddisfazione, mentre affermava di essere arrivato nel luogo in cui è finalmente possibile “ochidere e non pacare”. Come sognava di fare nella vita civile.
Tutto questo c’è, implicito o esplicito, nel libro di Fontana, come anche ci sono le notazioni riguardanti la “pietà fraterna” con la quale talvolta vengono soccorsi i nemici feriti e le secche constatazioni sulla “completa disorganizzazione” dei servizi riguardanti le truppe, un certo sguardo umoristico che non aspetteremo di trovare nella difficile vita di trincea.
Insomma, fatti tutti i conti, un documento complesso che merita di essere raccomandato al lettore attento e che ami riflettere.

Giuseppe Marci

 
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